La Sublime Porta

"Signori e cavallier che ve adunati/ Per odir cose dilettose e nove,/ Stati attenti e quieti, ed ascoltati/ La bella istoria che 'l mio canto muove;"

Cuma, Kasım 10, 2006

SAGGEZZA ORIENTALE

Allor che le sue lunghe tenebre e quiete la sera silenziosa distende sui mortali, forse di lontano una certa anima udrà il suono delle mie parole, e, riflettendo sul giorno che è stato e sulla propria solitudine, ne coglierà il messaggio vero.
"Non dire mai la tua visione, se non a un uomo saggio, o a un buon consigliere."

(da: Mistico Islamico dell'Alto Medioevo)

Perşembe, Kasım 09, 2006

A PROPOSITO DI CONFESSIONI DI DONNE

Traendo incipit dal geniale rovesciamento di prospettive operato dalla "confessione" dell'amica segreta di Chiara di Notte, decido qui di operare un altro rovesciamento di preconcetti sedimentati nell'italica cultura, parlando di ciò che confessano o meno le donne-escort.
Quanto dirò potrà essere considerato idealmente come l'Ottavo Capitolo (quello infinito del giorno che verrà) della "Fatwa contro i lapidatori" di qualche settimana addietro, di cui costituisce, come contenuto, il necessario completamento (per chi ha letto i 7 capitoli precedenti).

Madonna Chiara di Notte costituisce una (in tutti i sensi) "chiara" eccezione nel dichiarare apertamente, riguardo all'escorting, le proprie motivazioni, i propri pensieri sui personaggi e la propria visione, tanto che molti sono stati portati a prendere per vera le versione opposta dei pisquani (la poverina senza altre doti o possibilità o la fanciulla libera e ricca, ma triste per il "vuoto spirituale" insito nel mestiere, ed esistenzialmente infelice per non avere una "vita normale" e un "uomo normale").

Ovviamente, vivendo in un paese in cui la cultura cristiana (specialmente quella di stampo controriformista, diverso sarebbe il discorso, ad esempio, per il cattolicesimo polacco: la polonia nel seicento era il paese senza roghi) permea alla radici la società ed il pensiero, la morale ed il sentire, non solo e non tanto in ambienti clericali o presso chi si dichiara professante, ma anche e soprattutto negli ambienti intellettuali, laici, nella gente comune, in chi si dichiara ateo o non praticante, una meretrice sia portata a dichiarare di non aver avuto una scelta completamente libera e di aver preferito un qualsiasi altro mestiere se ne avesse avuto la possibilità. Non può dire, come realmente è, che ha operato quella scelta liberamente (come tante altre persone scelgono un mestiere piuttosto che un altro per motivi di soldi o di necessità individuali, materiali o spirituali, e non sono dette in nulla costrette) da una prospettiva meramente economica (necessità o brama), o di piacere consumistico (potersi permettere creme e gioielli, vestiti firmati e oggetti di lusso, vita agiata e soggiorni in posti da sogno) o di sostentamento dell'autostima (vedere la prova di essere oggettivamente bella nel momento in cui uomini di tutti i tipi sono disposti a pagare per la di lei compagnia) o di vanagloria (vedersi pagata cifre degne di grandi artisti e considerarsi desiderata e contesa al pari di una principessa rinascimentale), non trovando nulla di male (o di impuro) nel chiaro, dichiarato e consensuale scambio di sesso (o recita completa di un sogno estetico e illusione d'elisir d'amore)per denaro. Non può dire che il mestiere l'arricchisce economicamente e non solo, lisciando la sua vanagloria e fornendo consolazioni materiali, e non fa altro che mettere a frutto certe doti (di bellezza, di fascino, di intelletto, di dialogo, di bravura recitativa) piuttosto che altre (lo studio, le braccia, l'impegno come in altri mestieri). Per timore di non essere socialmente accettata, o umanamente compresa dal cliente, il quale pur essendo tale non è certo sovente libero da pregiudizi, lascerà sempre intendere di sentirsi "impura" e non darà libero sfogo al proprio pensiero secondo sono, eccettuate coloro che sono costrette da qualcuno mediante minaccia o debito capestro, le quali devon chiamarsi vittime e non prostitute, le prostitute (siano esse nascoste sotto le vesti di “accompagnatrici per uomini d’affari” o sotto quelle di “ballerine”) coloro che, anziché vendere le proprie capacità, il proprio intelletto o le proprie braccia per cifre modeste, come gli altri, preferiscono vendere piacere, spesso a cifre più elevate rispetto alle persone loro coetanee e se ciò sia dignitoso o meno, lecito o no, tollerabile o no, se ne valga la pena e quale sia il prezzo di questa pena, PUO' ESSERE STABILITO SOLO DALLA SINGOLA PERSONA INTERESSATA.Quello che pensano gli altri, il volgo vile, il clero, i falsi sapienti, è irrilevante.

Rischierebbe di essere considerata materialista, superficiale, eccessivamente legata al denaro, deviata dal consumismo e priva di altri valori, scarsa di moralità, serietà, etica e dignità, priva di altre doti e che dà poco valore al proprio corpo ed alla propria femminilità.

Una certa prospettiva sul mondo e sul sesso (tipica di un certo tipo di cristianesimo) va al di là del fatto di essere religioso o no, credenti o meno, e interessa la cultura profonda, il sentire intimo, il giudizio o il pregiudizio su ogni azione, riguardi essa la politica o il sesso.
E' vero che negli ultimi decenni comportamenti più licenziosi sono concessi e non considerati immorali, ma è altrettanto vero che si continua a considerare il sesso come qualcosa di "sacro" e "pericoloso", per cui una certa visione (esplicita o implicitamente sentita dalle genti) lo considera "Puro" solo se conseguente ad un affetto, o ad una conquista sentimentale o meno, magari anche ludica o per divertimento, ma comunque sempre legata ad un certo rapporto "particolare", mai quando per puro interesse. Utilizzare il sesso come un mezzo, anche quando ciò avviene in maniera anticipatamente dichiarata, consensuale e senza inganno da nessuna parte, è sentito come "impuro", quasi come una violazione.

Tutto ciò deriva dal pregiudizio paolino sul corpo, in virtù del quale ancora in molti paesi si può vendere tutto di sé (cultura, istruzione, idee, forza fisica) ma non sesso, giacché vendere piacere attraverso il proprio corpo equivarrebbe a vendere se stessi (anche se poi si accetta che qualcun altro, maschile o femminile, venda le proprie idee, i propri ideali, la propria serietà, la propria coerenza).

E allora perchè si dovrebbe considerare morale la vendita del proprio intelletto, della propria fisicità, del proprio sapere, della propria fatica? Perchè non si dice “il corpo dell'uomo non è in vendita, l'intelletto dell'uomo non è in vendita?”. Io replico:
se viviamo in un mondo mercificato, in cui è lecito vendere tutto di sè, la propria preparazione, le proprie speranze, le proprie capacitò, non vi è nulla di male se due persone adulte sono legate da un rapporto mercenario. E poi, chi è decide di vendere a prezzo di mercato (spesso bassissimo) la propria conoscenza, il proprio percorso culturale, quello in cui ha studiato e sofferto nella sua “verde etade”, verso cui ha rivolto le speranze più secrete e pure della giovinezza, a cui ha sacrificato giochi e amicizie, non finisce forse per vendere se stesso, molto più di chi “noleggia” per poche ore il proprio corpo?
Tutto nella nostra società risulta orientato al profitto: la cultura, l'arte, lo studio, la preparazione universitaria, l'approccio alla vita lavorativa e l'intera visione del mondo degli individui. Chiamiamo progresso la globalizzazione che ci pone a contatto con popoli e culture diverse con le quali scambiarci le merci e le idee e, ovviamente, trarre profitto. Accusiamo di essere retrivi coloro i quali si oppongono al processo in nome delle idee nazionali e delle tradizioni millenarie dell'Europa, e vorrebbero conservare il costume degli avi, poiché, così facendo, si “perderebbe il treno” del progresso economico. Celebriamo il concetto di uguaglianza, poiché tutti gli individui sono eguali dinanzi al mercato ed alla concorrenza economica e gli antichi privilegi nobiliari, i concetti di unicità, superiorità, eccellenza (contrapposti a libertà, uguaglianza e fratellanza) su cui si basano il sentire artistico di ogni tempo e la possibilità medesima di essere artista, vate ed esegeta, e mediante i quali l'arte è commissionata, prodotta, ed assume reale valenza nella vita (si pensi ai Signori del Rinascimento, i quali, per giustificare il loro potere, non essendo di antica nobiltà, avevano bisogno di “nobilitarsi” chiamando a corte i migliori artisti dell'universo mondo e commissionando loro opere immortali destinate ad accrescere il prestigio, in una continua gara di bellezza che era prosecuzione in campo culturale delle lotte politiche per il predominio in Italia) rallenterebbero il progresso ed il profitto. Accettiamo che i modi di vita, i modelli sociali ed i costumi siano mutati, mescolati, contaminati al fine di favorire l'integrazione la quale si traduce ancora una volta in un aumento del profitto. Permettiamo che la nostra lingua, forgiata da Dante e resa perfetta con le alte e raffinate tecniche del linguaggio illustre create una volta per tutte da Petrarca in Poesia e da Boccaccio in Prosa, venga modificata, cambiata, degradata ad uso del volgo per diffondere, con la tv ed i giornali, notizie alle masse (le quali producono profitto). Non ci opponiamo al fatto che la stessa lingua perda la propria natura vocale ed armonica, il proprio suono pieno e atto alla poesia, per colpa di termini stranieri, utili a diffondere le nuove tecnologie e dunque ad accrescere sempre il profitto. Persino ci curiamo che l'istruzione perda il suo volto umanistico e latino, che tanta parte ha avuto nella geniale produzione artistico letteraria dei popoli del mediterraneo, e diventi specialistica, atta a forgiare figure nuove ed adatte a ricoprire i ruoli richiesti dal mercato. Allegramente permettiamo al mercato di cancellare la figura rinascimentale dell'uomo a tutto tondo, così come scolpito nel David di Michelangelo, raffigurante con le sue forme possenti tutta la policromia delle possibilità umane (l'homo faber ipsius fortunae di cui discorreva Marsilio Ficino) per sostituirla con un “homo novus”, ignaro delle ragioni della storia, dell'arte, delle tradizioni e delle lettere, ed impregnato di tanti “saperi” specialistici atti a fruttare profitti. Rinneghiamo l'uomo di Leonardo, “copula mundi” fra le cose inferiori, che sono terrene, e quelle superiori, che sono divine”, come celebrato nella “Theologia Platonica” del Ficino in nome di un individuo esperto di marketing e pronto a cogliere con i sondaggi i mutevoli capricci dei fruitori del mercato.
Abbiamo trasformato in definitiva il lavoro stesso, da quello che era nella Civiltà dei Liberi comuni medievali, una “continuazione dell'opera divina”, a quello che è oggi: un mero mezzo di profitto.
Facciamo tutto questo perchè vogliamo vivere bene nella realtà capitalistica, perchè preferiamo adeguarci al mondo mutevole anziché soccombere, perchè non abbiamo trovato nulla di meglio, avendo sperimentato come le due grandi negazioni di questo sistema nel secolo scorso: il Nazional Socialismo da una parte ed il Comunismo Reale dall'altra, oltre a produrre tragedie umane inenarrabili, si siano mostrate manifestamente negazioni dell'individuo e della sua libertà elette a sistema di governo.
Accettiamo dunque di fare tutto quanto precedentemente elencato nell'istruzione, nei costumi, nella conoscenza, nel sentire collettivo, permettiamo, anzi favoriamo, che la mentalità delle nuove generazioni, i loro valori, i loro giochi, la parte più sensibile e tenera della loro mente, fin nel profondo del loro inconscio, ogni aspetto insomma della loro intera vita siano “marketing oriented”, al fine di sostenere le nuove sfide economiche e poi ci lamentiamo di come talune persone vedano orientata al mercato anche la sessualità? Tutto ciò risulta contraddittorio e sessuofobo. Se si vogliono orientate al mercato la preparazione culturale, la formazione, l'istruzione, le abitudini quotidiane, la famiglia moderna, la sensibilità verso il mondo, la parte insomma più vera e costitutiva degli individui, perchè altrimenti non si può fare, allora non ci si può permettere di condannare o giudicare “schiavi di una mentalità” coloro i quali vogliono trarre profitto dal proprio corpo. La loro libertà è la medesima di tutti gli altri che vivono sotto la stessa ambientazione culturale (che è mondiale e dominante) e che da essa sono inevitabilmente influenzati (senza che però questo violi la loro vita privata, ove solo a loro spetta l'ultima parola)!
Offrire per denaro gran parte del proprio tempo, dalla giovane età a qualla matura, al lavoro, dedicare esclusivamente ad esso la propria formazione, informare su di esso la propria visione esistenziale, conformare al mercato la propria istruzione ed i propri pensieri, uniformare le proprie abitudini alle esigenze dell'economia e della società globale dovrebbe essere consentito, anzi incoraggiato e laudato, e offrire sempre per denaro una parte arbitraria del proprio tempo da dedicare al soddisfacimento dei sensi, al piacere di natura, invece no?
Forse che i genitali custodiscano più dignità ed individualità dell'intelletto, della tradizione, della cultura, delle arti, delle nazioni e dei popoli, dei pensieri e delle umane lettere?
Chi è costretto a svendere per esigenze di mercato la propria cultura, il proprio percorso di formazione, quello in cui ha sperato negli anni più puri della verde etade, per cui ha lottato e sofferto nel periodo più fresco della propria giovinezza, verso cui a anelato in lunghe ore di studio e per cui ha sacrificato le ore più vaghe della propria giovinezza, non vende forse la parte più pura e nobile di sè? Chi pone il proprio intelletto al servizio di un potente, non è forse un prostituto "intellettuale"? Chi approfitta del desiderio di natura altrui e si fa sposare da un coniuge più ricco per ricevere in cambio doni e ricchezze e utilizzare il divorzio come arme di ricatto non merita forse il nome di puttana? Se tutto ciò si chiama invece inserimento in ambito lavorativo, diritto all'informazione e matrimonio, perché proprio vendere sesso dovrebbe essere immorale? Non è questa una mera e schietta morale sessuofoba di derivazione giudaico cristiana e solo rivestita da socialismo o femminismo?

Tutto deriva proprio dalla lettera di San Paolo ai corinzi, la quale condanna il peccare con il corpo (e quindi, fra le altre cose, la prostituzione), ripresa in versione politicamente corretta, socialista o femminista dai moderni.
Mi sembra lapalissiano che il questo discorso è basato essenzialmente su due assunti presi arbitrariamente per veri:
1.“Il sesso deve essere un fine e non un mezzo”, postulato assolutamente rispettabile, ma altrettanto assolutamente non dimostrabile. Infatti bisogna riconoscere che nel mondo esistono donne (e, appena ne hanno l’occasione, anche uomini) le quali, senza costrizione alcuna e senza bisogno, decidono di considerare il sesso non come un fine, ma come uno strumento da cui trarre ricchezza, agiatezza o altri vantaggi materiali (e talvolta anche "immateriali" e di vanagloria). Potete chiamarle “puttane” (ma a questo punto, per coerenza, dovete estendere la definizione, dalle oneste meretrici dichiarate, a tutte quelle donne che si fanno mantenere da un uomo, a tutte quelle ragazze delle spettacolo e non che cercano un partner economicamente “potente”, a tutti quelle donne e quegli uomini che si sposano per interesse, alla velina che si mette assieme al calciatore per divenire famose, al bel ragazzo che si fidanza con la figlia dell’industriale e a tutti quei casi nei quali la sfera erotica è utilizzata per profitto, spesso subdolamente e senza la chiarezza delle escort) ma certo non “non libere”, giacché non sarebbe oggettivamente vero. La libertà risiede nel poter scegliere, ed il fatto che la scelta sia dettata da un interesse razionale anziché da una libidine irrazionale (come avverrebbe nel sesso gratuito) o dalla altrettanto irrazionale vanagloria (nel caso di certe dame “Oneste”) non limita la libertà della scelta stessa, anzi, per me l’amplifica (dato che si può essere più facilmente schiavi delle passioni piuttosto che della ragione, vedere P.S. di qualche post fa).
2.“il sesso è libertà pura”, intendendo con questo che sia qualcosa di oltre-umano, di sacro, di misterioso, di inviolabile, nel quale agli individui dovrebbero essere disconosciute le libertà normalmente concesse in altri ambiti (fra le quali, ovviamente, quella di mettere a frutto una parte di sé per un fine economico). Per questo ho ribadito che il vostro è un pregiudizio parallelo a quello di San Paolo: il corpo sarebbe un tempio dello spirito santo in cui ogni opera di mercificazione apparirebbe sacrilegio, e separare il sesso dall’interesse economico sarebbe dovere pari a quello di cristo che cacciò i mercanti dal tempio. Vedevo in Paolo almeno una motivazione religiosa. Vedo in voi solo un retaggio culturale. Sia detto senza infamia, dato che ognuno è libero di accettare le tradizioni o i retaggi in cui crede (purché non pretenda di imporli come assoluti). Mi limito a sottolineare come vi siano persone che non la pensano in questo modo e, di fatto, agiscono diversamente, ritenendo il sesso una normale attività umana, alla pari delle altre, su cui il diritto degli individui a disporre del proprio corpo (e nel caso, anche quello a “noleggiarlo”) non viene meno. E’ l’opinione delle escort indipendenti, le quali sostengono di non offrire per denaro nulla più di una recita scenica, al pari delle attrici. Per me qualcosa di sacro ha, forse, l’amore, ma non certo il sesso. Ovviamente il sesso deve essere libero nel senso che l’individuo deve poter scegliere con chi, che cosa e, secondo me, anche perché. Fra i perché vi è, di fatto, anche quello dell’interesse (vedi punto 1).

Il mio discorso invece si basa su un assunto. Dato che il sesso è qualcosa di assolutamente privato (e delicato nel suo equilibrio), ogni individuo ha diritto a stabilire cosa debba essere per lui. Finché non si danneggia sensibilmente ed oggettivamente il prossimo e si tratta di persone adulte e consenzienti, difficilmente tale assunto può essere preso per falso in uno stato libero. Se dunque una persona, non costretta da alcuno, ritiene, per motivi personali non riguardanti lo stato, di utilizzare il sesso come mezzo piuttosto che come fine (o anche come mezzo) con quale diritto gli altri potrebbero impedirglielo? E dunque con quale diritto si impedirebbe ad un altro individuo di accettare questa situazione e di pagare in cambio di sesso?
Se anche fossero tutti democraticamente d’accordo nel farlo, sarebbe una tirannia della maggioranza!
Nelle faccende private e soprattutto sessuali uno stato veramente liberale non dovrebbe entrare, se non per sancire che ognuno ha diritto a stabilire i propri valori e le proprie scelte e per impedire che taluni, con violenza, minaccia, inganno o abuso di autorità, impongano la propria volontà su altri.

La differenza fra le due tesi è presto detta: i sostenitori della prima potrebbero proibire a quelli della seconda certi comportamenti con forza di legge, senza giustificarsi con nulla che non sia la propria convinzione morale, mentre non succederebbe mai il contrario (perché i primi non riceverebbero nei loro comportamenti privati divieti dai secondi).

Tutto ciò è presente in Italia e le meretrici lo devono subire, magari anche dagli stessi clienti (alcuni dei quali si sentono in colpa mentre altri incolpano la meretrice: pochi hanno il coraggio di essere libertari e di non vedere nulla di impuro né da chi compra né da chi vende, mentre, stranamente, quasi nessuno si rende conto della fondamentale differenza fra chi è libero da vincoli matrimoniali e chi invece si trova nella situazione descritta dalla parodia chiaresca).

FINE OTTAVO CAPITOLO

Çarşamba, Kasım 08, 2006

A PROPOSITO DI PULSIONI COMPLEMENTARI

Che la bellezza fisica di una donna si debba accompagnare ad altra bellezza fisica (maschile) è un'idea "moderna", "televisiva", "politicamente corretta" (ripresa e sfoggiata da talune donne come segno di emancipazione e sostenuta da taluni uomini come mera speranza di essere apprezzati pur senza eccellere in nulla al di fuori della palestra), e piuttosto ingenua. Io, invece, cresciuto alla scuola del Dolce Stilnovo, penso che la beltà corporale di una donna si accompagni piuttosto alla conoscenza ("biltà di donna e di saccente core", diceva Guido de' Cavalcanti), ad una bellezza non corporale chiamata "cor gentil", alla cultura, alla squisitezza intellettuale, all'abilità di creare, con le parole, suoni e immagini tali da perdere la mente negli imperi dell'illusione e del sogno e di donare a chi ascolta, come nel rapimento estatico dell'arte, un'ebrezza inesausta dei sensi delle idee. Non dunque ad altra bellezza corporale associo la fisicità di una donna, ma all'amore per la Bellezza stessa, ossia per tutto ciò che essa ha ispirato nei secoli agli uomini dotati d'intelletto e di sentire nobile, e, sopra ogni cosa, per l'idea immortale del Bello in tutte le espressioni attraverso le quali si rende sensibile agli occhi, alle orecchie, alle menti dei mortali: la poesia, la scultura, la pittura, il bel canto, la musica, le belle lettere e, ovviamente, le Donne.

Se la Donna è come un verso, non può e non deve essere apprezzata dalla Ragione, ma deve essere amata dall’anima nell’istante in cui si fa visibile,
allora l’uomo è come la prosa ampia, elegante ed armoniosa del Boccaccio: ha bisogno di tempo e di spazio per esplicare tutto il suo fascino e deve soprattutto comunicare un senso.
Una Donna potrà apprezzare un uomo dopo averlo conosciuto nel fondo dell’animo, così come si apprezza un romanziere, il suo pensiero e il suo stile, dopo aver letto le sue opere, ma per un Uomo non esiste fiamma d’amore vero che non scaturisca dalla vista, il più nobile dei sensi, come sosteneva Cavalcanti. Dall’ammirazione per la Bellezza l’uomo dotato di intelletto si eleva alla contemplazione di quel mondo Ideale dello spirito a cui ha anelato a lungo nelle sue speculazioni filosofiche o nelle sue estasi artistiche. La Donna, sacerdotessa di Citera sulla Terra, proprio come un verso perfetto, deve rispettare, nel corpo e nello spirito, nel vestire e nel guardare, nel comportamento e nelle movenze i canoni classici di armonia, di compostezza e di equilibrio, raffigurando al contempo l’elegante slancio della bellezza terrena verso quella divina con la grazia dello stelo di un giglio proteso verso la luce.
La donna ha il privilegio di essere desiderata in sè e per sè, per la propria mondanità, per la propria grazia, per la propria leggiadria, non ha bisogno di imporsi nel mondo del lavoro o del successo. Un uomo invece non può essere apprezzato se non è avvolto dall'aurea si successo data soltanto dall'aver mostrato la capacità di raggiungere i propri obiettivi. Quello stesso fascino che a una donna è attribuito dalla bellezza a un uomo è donato dal successo, inteso proprio come capacità di ottenere i risultati proposti. A meno che un uomo non sia cinto dall'aureola dell'artista, la quale anche qualora immeritata, fa dire alla donna "in lui brilla la pura fiamma dell'arte alla quale mi scaldo io sola" (G.d'A) egli, come cavaliere, è obbligato a mostrare quanto vale. Difficilmente una donna ammira un uomo esclusivamente per la bellezza, più facilmente lo apprezza se egli ha la capacità di imporre il proprio valore nel mondo. Se nel mondo eroico ed omerico la gloria era conseguita mostrando la propria virtù sul campo di battaglia, in un mondo capitalista come quello moderno la stessa stima è raggiunta con la capacità di produrre ricchezza. Non è assolutamente escluso che in futuro il valore di un uomo venga attribuito da altro (in un mondo utopico nel quale gli uomini, emancipati dalle occupazioni terrene e soddisfatti al contempo nel proprio desiderio di beltade e di ebbrezza e di piacere dei sensi, potranno dedicarsi totalmente alla creazione di opere immortali, nell'arte, nella cultura, nelle belle lettere, nella matematica, nella filosofia ed in ogni altra espressione della speculazione intellettiva o della sublimazione ideale della Bellezza e del desio per la donna, potrà essere, forse, anziché il denaro, il puro spirito) ma rimarrà il fatto che le donne cercheranno in lui l'eccellenza e gli uomini la bellezza muliebre. Perché questo è natura.
“Desìo degli uomini e piacere degli dèi, Alma Venere che sola dai alimento alla vita, senza Te nulla può sorgere sotto le stelle scorrenti del cielo o alle radiose piagge della luce. Tu fai che il mare sia sparso di navi e le terre siano feconde di messi: tra i viventi di ogni essere nuovo Tuo è il merito se viene concepito, se ha nascita e se vede la luce; Te, o Dea, fuggono i venti quando arrivi, e le nubi del cielo; ai Tuoi piedi ad arte la terra fa spuntare fragranti i suoi fiori, a te sorridono le distese marine, e nel cielo fatto sereno una chiara luce e diffusa sfavilla. Cosi’, non appena un giorno rivela Primavera, e dischiuso lo Zefiro fa sentire il suo soffio fecondo, sono primi gli uccelli dalle candide piume, o Divina, a dar segno di te e del tuo arrivo, il cuore scosso dalla tua forza.” (Lucrezio, "De Rerum Natura")
Un fanciullo brama la donzella avvenente così come un fiore sboccia, un usignolo canta, un prato fiorisce, una cascata irrompe, e quando il suo desire si volge in attività d’intelletto allora i versi e le rime scorrono con quella medesima magia propria dei prodigi di natura, come l’avvento della Primavera o il riflesso sull’onda lucente di quella conchiglia d’argento che chiamiamo Luna.
Un uomo che vede la bella dama, e tosto la brama con tutto il sue essere, è pervaso da quello stesso fremito che mosse Jacopo da Lentini, notaio del Grande Federico II di Svevia, a inventare il metro perfetto del sonetto per celebrare la sua divina bellezza, è inondato da quello stesso languore che rende sublimi e inimitabili le Rime del Tasso, è permeato di quello stesso desire che spinse Catullo a comporre i carmi immortali di Lesbia, è invaso da quello stesso ardore che generò le novelle Rinascimentali e le rime petrarchiste di schiere di dotti dalle raffinate squisitezze intellettuali.

Raramente invece una donna desidera un uomo per la bellezza e se ne invaghisce al primo sguardo, più facilmente ella vuole prima sondarne il valore per ammirarvi altre virtù, quali la bravura nel creare sogni e illusioni, nel far vivere all'amata "la favola bella che ieri t'illuse, che oggi m'illude", e non ultime la cultura e l'eloquenza, tutte virtù che si esplicano primieramente attraverso la capacità e l'ordine del dire, senza le qual cose la ragione stessa sarebbe vana.

E' naturale che le donne trovino affascinanti gli uomini migliori (ognuna nel campo che ritiene soggettivamente più importante, ovviamente, virilità, bellezza, soldi, cultura, intelligenza, cuore, cc.) mentre per l'uomo conta primieramente la bellezza e il desiderio profondo, istintuale (ma al contempo tanto soggetto ad essere elevato dall'intelletto e sublimato in pensieri, parole, versi e rime) da essa suscitato.
"Chi è questa che vien c'ogn'om la mira/ che fa tremar di chiaritate l'aere/ e mena seco amor sì che parlare/ null'omo pote ma ciascun sospira"
esclama, con Guido Cavalcanti, chi vede la bella signorina.

Senza voler pretendere di racchiudere in queste parole l'intero multiforme universo femminino, e circoscrivendo il discorso alle interpreti di quel sogno estetico dell'anima moderna quale viene ricercato e bramato dalla massima parte degli uomini (nei forum di escort e in altri siti), dirò quanto segue.
Le belle donne (almeno quelle che piacciono a me, poiché la loro beltà è tanto alta e nova
da poter essere, in condizioni ordinarie, soltanto vagheggiate di giorno, nel sogno ad occhi aperti di chi le mira gir per via, o castamente disiate di notte, come l'imminente luna e le stelle palpitanti, dall'anima sospesa di chi, nel silenzio e nello stupore, eleva a loro lo sguardo sospirando), non cercano invero un uomo la cui primaria qualità sia la bellezza fisica. Dato che nella vita "normale" fanno magari le modelle, non sentono necessità di accompagnarsi ad un uomo che sia come loro "fisicità", giacché non vogliono sentirsi competere con lui in questo. Più facilmente cercano un uomo che, come esse eccellono nella bellezza, eccella in altri campi quali la capacità di dimostrare il proprio valore, di affermarsi, la capacità di far sentire alla fanciulla di vivere in una favola, l'abilità di perdere la donna negli imperi
occulti del sogno, la brama di erudizione e di squisitezze intellettuali, la sete di cultura, la tensione all'eccellenza nel fare come nel dire ed altre infinite virtù che si esprimono soltanto con
l'uso della parola, con la modulazione della voce, con il tempo dato al corteggiamento e che in un giovane ed inesperto non possono per forza di cose svilupparsi in quella prima età nella quale sulle donne fiorisce la bellezza. Non ultima, nel mondo odierno, deve essere la capacità di eccellere in campo economico.

Ecco spiegato il tutto. Non c'entrano (almeno qui) il cinismo, l'opportunismo o il plagio sociale (magari la società cambierà il concetto di "uomo affermato o virtuoso", così come cambia il modello estetico di bellezza muliebre, ma non il fatto che si desideri ciò). E' solo natura.

CONCLUDENDO
E' assolutamente naturale (ossia derivante direttamente dalla biologia) che l'uomo ammiri la bellezza di una donna e inizi a bramarla dal primo sguardo, mentre è prodotto della cultura, comunque nascente da ciò, e della forza della sua volontà e del suo intelletto, il voler elevare questa sete di bellezza e di piacere alla produzione di opere immortali, per eternare nei versi, nelle rime, nei suoni e nelle immagini della poesia l'oggetto del proprio desiderio e il desiderio stesso (non accettandone, dentro di sé, la sua finitezza, la sua morte, il suo dissolversi) per prolungare i momenti di estasi dei sensi nella sfera nobile del pensiero, o nell'infinito dell'arte, quasi a vincere nella grandezza dell'ideale artistico il distacco fra l'infinito del desiderio e la finitezza del suo appagamento terreno, che nella sessualità maschile è massimamente evidente. E' altrettanto naturale che la donna, la cui sessualità si è evoluta dal bisogno di bellezza carnale fino a rendere indipendente l'orgasmo dall'accoppiamento in sé (come dice la biologa), finisce (almeno nelle sue espressioni meglio riuscite) per desiderare nell'uomo la sua stessa bellezza, ma sublimata a livello intellettuale. Le donne eternamente (e naturalmente, non solo culturalmente) preferiscono un uomo colto (anche se magari coltivato in cattività), raffinato, gentiluomo, capace di tenere il petto un cor gentil, quella bellezza non corporale la quale sola racchiude quelle virtù d'animo e quelle doti d'intelletto in grado di permettere ad un mortale di accostarsi ad una donna di bellezza celeste ("Biltà di donna e di saccente core", diceva Guido de' Cavalcanti), rispetto ad uno stallone bruto.

Pazartesi, Kasım 06, 2006

A PROPOSITO DI NORMALITA'

Vedo che nel Blog di Madonna Chiara si discute sulla definizione di "normalità", se essa debba derivare (come suggerisce l'etimologia) da una "norma" imposta da qualcuno (lo stesso hayet?) o pretesa come assoluta verità divina o naturale, oppure se debba essere definita come il comportamento "statisticamente più riscontrabile" (quanto tecnicamente, nella teoria della probabilità, si direbbe "moda") negli uomini.

Mi sovvengono dunque le acute (e sorprendentemente moderne) osservazioni del Filosofo di Danzica su quanto risulta "normale" nella civiltà d'occidente di oggi.

Poiché non esiste l’istituto della poligamia, gli uomini per metà della loro vita sono puttanieri e per l’altra metà cornuti; e le donne si dividono, di conseguenza, in tradite e traditrici. Chi si ammoglia giovane, più tardi si trascina dietro una vecchia; a chi si ammoglia più tardi toccano prima malattie veneree e poi corna. La poligamia avrebbe tra i molti vantaggi anche quello che l’uomo non verrebbe ad avere un legame così stretto con i propri suoceri, il terrore dei quali impedisce ora innumerevoli matrimoni. Epperò: dieci suocere invece di una!”.
(Arthur Schopenhauer)

Pazar, Kasım 05, 2006

IL TEOREMA DI IRINA

















PRIMA-VERSIONE ("poetica")
Ci sono domande che dividono gli uomini in due categorie: quelli con la pistola e quelli col fucile (che poi, tanto nel western di Sergio Leone, come nella realtà, dopo le sparate del genere "quando un uomo con la pistola incontra un uomo col fucile, l'uomo con la pistola è un uomo morto" fanno una fine da pistola per cui con quel nome saranno chiamati).
La prima categoria, soffermandosi sul fatto che il fucile spara più lontano, e dunque risulti apparentemente vincente contro la pistola, crede di poter formulare su questo un teorema, mentre
la seconda è portata a valutare tutti i possibili casi (anche i più incredibili e "patologici"), ad esaminare tutti particolari e a considerare e verificare tutte le condizioni che possono validare o meno tale teorema.
Tali categorie non suddividono gli uomini a metà, bensì in maniera asimmetrica: gli uomini con la pistola costituiscono un risicato sesto del totale, mentre i rimanenti 5/6 del genere preferisce affidarsi all'apparentemente infallibile fucile ed è dunque costuito dai "pistola".
Le categorie sono poi trasfersali ad ogni campo dello scibile umano.

Provate a chiedere agli uomini di lettere cosa sia un settenario.
I cinque sesti di loro vi risponderà, con il tono trionfante di chi ha il piacere di rivelare una verità evidente, trattarsi di un verso di sette sillabe, chiosando magari la risposta con un "lo dice il nome stesso: il novenario, ad esempio, sarebbe un verso di nove", accompagnato da un sorriso sicuro e compiaciuto verso di voi.
Solo un sesto degli intervistati avrà l'accortezza di farvi notare che, a dispetto del nome, è definito settenario un verso avente l'ultimo accento tonico sulla sesta sillaba. Il fatto che solitamente i settenario siano effettiavamente di sette sillabe consegue soltanto dalla grande abbondanza di parole piane (ossia aventi l'accento tonico sulla penultima sillaba) nella lingua di Dante. Si possono però avere benissimo settenario di sei sillabe (se l'ultima parola è tronca, ossia con l'accento sull'ultima sillaba), di otto (nel caso di ultima parola sdrucciola, ossia con l'accento sulla terz'ultima sillaba) o addirittura di nove (nel caso delle rare parole bisdrucciole, ossia con l'accento sulla quart'ultima sillaba). La differenza non è affatto banale, in quanto il ritmo melodico e musicale della lingua italiana (come di tutte le lingue romanze, del resto) dipende proprio dall'accentazione della parole, e non risente affatto della quantità di sillabe atone. Bisogna dunque contare gli accenti e le loro posizioni, non le sillabe in sé. Di qui la definizione, ad esempio, di settenario (come di ogni altro verso) basata sulla posizione dell'ultima sillaba accentata e non, di per sé, sul numero delle sillabe.
Un esempio di "uomo con la pistola" in campo poetico è dato da messer Roberto Bottiroli, il quale, fra le altre, ha scritto la raccolta "Sospiri". La Lirica dedicata della
"Donna bruna" è un magistrale esempio di uso sapiente e raffinato del settenario.

"Vago anelante al tremulo
chiarore della luna,
guardo e sospiro al pallido
viso di donna bruna,
notte silente e immobile
dona il sublime amor.

Fanciulla, tu che languida
ti perdi ai caldi abbracci
di quel calor che insolito
ti prende fra i suoi lacci
quando nel ciel lo spirito
s'empie d'antico ardor.

Se nella notte canta
il rusignolo al vento
volando allor rammento
l'antico grande amor.

Il caldo tuo respiro
si perde tra le fronde
e il cuore mio risponde:
sei tu l'amato fior. " (Roberto Bottiroli)


Chiunque abbia meditato a fondo sul Canzoniere di Petrarca, sospirato languente sulle Rime del Tasso e sognato col Poema Paradisiaco di D'Annunzio capisce subito come chi ha composto questa lirica sia un poeta vero (uno dei pochi rimasti, oggi, di quel sesto di senno umano) e non uno scribacchino improvvisato e "pistola".
Non lo si può però comprendere dal soggetto, dato che ispirarsi ad una bellezza bruna potrebbe essere alla portata di qualunque nel mondo sia rapito nel pensiero e nei sensi dalle belle forme, dalla statuaria figura delle chiome nere di una Nina Moric o di una Chiara di Notte.
Non lo si può capire dal tema, poiché parlare di baci, di abbracci e di lacci o lacciuoli amorosi è proprio anche del più banale e scontato dei liceali invaghiti della smorfiosa magra della 3°C.
Non lo si può intuire dalle immagini, poiché un plenilunio avvolto dal silenzio notturno può venir considerato poetico (e preso a pretesto per condurre seco una donzella) persino dal più barbaro e prosaico dei cuori umani.
Non lo si può apprendere dalla metafore, visto che la donna e l'amore simboleggiati da un fiore sono presenti non solo nei poemetti medievali o nelle liriche stilnoviste, ma anche nelle parole "galanti" del basso volgo.
Non lo si può arguire dalle rime baciate che evidenti spiccano nella lettura e nell'ascolto (vento/rammento, fronde/risponde), siccome anche il più ridicolo dei comici saprebbe comporre una filastrocca con due rime in croce.
Non lo si può insomma capire da nulla di ciò che suona come "poesia" alle orecchie dei profani(l'amore, la donna, le metafore, alcune rime baciate sparse in mezzo ecc.).
Lo si capisce invece dai particolari stilistici, dall'analisi metrica e da tutto quanto, della poesia, è ignoto ai "cinque sesti" degli uomini.
Un attento studioso potrebbe infatti già coglierlo dalla semplice osservazione degli aggettivi presenti nella prima sestina, dal momento che "anelante", "tremulo", "pallido", "bruna "silente", "immobile", "sublime" e "languida" (nel primo verso della seconda sestina) non si ritrovano nel parlare di un illetterato e non potrebbero essere semplice "simulazione" di cultura lirica e letteraria per il semplice fatto che non sono posti a caso (come capiterebbe da parte di chi li ha semplicemente sentiti e vuole millantarne il possesso), ma sono usati in maniera appropriata, specifica e con precisi effetti poetici, di creazione di immagini, di evocazione di suoni melodici o di richiamo di topoi letterari.
"Anelante" ad esempio corrisponde al verbo "vago" e rende l'idea di un "muoversi cercando" (proprio perché l'amore, come diceva Platone, è innanzitutto ricerca, e assieme possesso e privazione) e quindi desiderando (questo incipit richiama alla mente, per associazione, il celeberrimo "solo et pensoso i più deserti campi/ vo mesurando a passi tardi e lenti" di Petrarca, anche se qui l'amata non resta irraggiungibile ed eterea come Laura e la condizione del poeta non è dunque la solitudine disperata).
"Pallido" corrisponde, visivamente al "chiarore della luna" e, contrastando con "donna bruna" (la rima evidenzia il contrasto visivo e fissa così nel lettore l'immagine del "claro viso" della donna) e con il buio della "notte silente e immobile" rende davvero "sublime" il quadro della bellezza muliebre, la quale emerge non solo come claritate celeste e altissima nel buio notturno (come appunto la luna), ma anche, tramite il desiderio suscitato nel poeta, come "suono" che rompe il silenzio della notte (il poeta sospira e parla) e come "moto" (il poeta infatti sta "vagando") che interrombe l'immobilismo della natura circostante.
Ovviamente l'ascoltatore distratto di questa sestina si sarebbe soffermato solo sull'ultima parola dell'ultimo verso ("amor"), la quale, lungi dall'essere sintesi del contenuto, è invece soltanto il "premio" di un lungo percorso di desideri e di richiami e costituisce il legame (sia ovviamente contenutistico, sia metrico) con le rimanenti tre strofe, e avrebbe potuto confondere questa con tante altre sedicenti liriche amorose scritte oggi, senza metrica e senza stile, da un qualunque pisquano in un forum, ad esempio, di escort, per sperare di avere uno sconto spendendo quella magica parola giunta a qualche immagine.
Il fatto che questa sia una poesia "vera" si capisce infine, e definitivamente, dai particolari metrici, che, come detto, solo pochi conoscono. Già non tutti sanno sillabare in prosa, pochi lo sanno fare in poesia pochissimi ne conoscono le regole e le eccezioni (l'enjambemeunt, il comportamento differente delle vocali forti e di quelle deboli, il diverso conteggio delle sillabe nei possessivi "mio, tuo, suo ecc." a seconda siano in mezzo al verso o alla fine di esso ecc.). Sparuti saranno dunque coloro che potranno apprezzare la vera "gemma preziosa" di questa poesia.
Lo schema metrico prevede

L'autore infatti sceglie, in ognuna delle due sestine, di impiegare rime bisdrucciole (e dunque settenari di otto sillabe) in tutti i versi destinati a non rimare (ad es: "languida", "insolito"; "spirito"), rime piane (e dunque settenari "classici" da sette) nei due versi in rima alternata (ad es: "abbracci", "lacci" e rima tronca (e dunque settenari da sei) nell'ultimo verso (che deve rimare con gli ultimi versi della altre strofe, creando un richiamo altamento ritmico e musicale: "amor", "ardor", "amor", "fior" ). Ciò risponde a precise necessità di accompagnare con la melodia, ora più distesa, ora più contratta, il suono delle singole parole. Non sarà percepito dai "pistola", ma agli uomini "con la pistola" si rivelerà come la risposta definitiva alla domanda sulla qualità dell'opera.


SECONDA VERSIONE ("meccanica")


Provate a chiedere ad un appassionato d'auto quale Porsche si comprerebbe se vincesse al milionario.































I cinque sesti di essi vi risponderebbe, con sorriso beato che ignora l'amore per l'automobile in quanto tale e si volge invece alla sua funzione di "status symbol", "la 911 Turbo, la più potente e la più costosa".
Essi ignorano come non siano la bruta "cavalleria" e l'esborso economico a qualificare l'eccellenza di una vettura, bensì il suo pregio tecno-agonistico.
Infatti il peso di accessori e finiture prestigiosi ma utili al confort più che alla sportività, la stessa sovralimentazione sofisticata ma volta più alla fludità di guida e alla velocità su rettilinei autostradali che non al rendimento e alla prontezza nell'uso "agonistico", l'assetto sportivo ma non sportivissimo e la necessità di renderne il comportamento gestibile da un qualsiasi "commenda" attempato e con la pancia e magari privo di esperienza agonistica o di spiccate doti di guida rendono la 911 Turbo, alla prova fatidica del cronometro (in pista o su percorsi guidati come le cronoscalate o l'anello nord del nurburgring) una vettura non tanto eccelsa come potrebbe sembrare e come invece è la "sorella" GT3.
Questa infatti non è una macchina sportiva potenziata ed evoluta rispetto alle altre 911: è una invece una vera macchina da corsa soltanto adattata all'uso stradale e omologata. L'equipaggiamento essenziale, la scocca alleggerita, l'assetto "pronto corsa", il comportamento nervoso (e gestibile solo da mano esperta, abile e sensibile), e lo stesso motore aspirato (il quale, senza il patema del rischio battito-in-testa del turbo, può essere spinto a regimi e rapporti di compressione davvero elevati, veramente racing), evoluto da una solida base agonistica e progettato con criteri di semplicità costruttiva d'affidabilità assoluta, ispirati alle doti necessarie a primeggiare nelle grandi classiche di durata (in cui la casa tedesca tradizionalmente domina) ne fanno un perfetto "purosangue" da asfalto.
Tali doti però sono fruibili solo da chi è disposto a soffrire rumore e ma di schiena per centinaia e centinaia di chilometri pur di giungere in circuito a misurarsi col cronometro, da chi se ne infischia di gadget elettronici e lussi di ogni genere, da chi, grazie ad esperienza agonistica e/o studi e allenamenti specifici, ha appreso almeno i rudimenti della guida al limite e in pista e ha acquisito, sia a livello razionale sia a livello incoscio, le conoscenze e gli automatismi per controllare e far rendere al meglio la vettura nelle situazioni estreme, da chi conosce ogni particolare della tecnica automobilistica, da chi ama confrontare le soluzioni delle varie case, sperimentate su strada e in corsa, da chi "respira" il profumo delle gomme, dei motori, dei freni, da chi ama l'Automobile come creatura vivente data al culto della Divina Rapidità, dotata di un'anima, e non come oggetto di mero divertimento barbarico o sfoggio di ricchezza.
Solo costoro potranno capire quanta arte vi sia nella meccanica di una 911 GT3, quanta cura nella progettazione di ogni suo particolare, quanta preziosa esperianza nella messa a punto del suo assetto. Solo costoro potranno giustificare di spendere, per una vettura che non è status symbol come la "911 Turbo" (posseduta infatti da tutti i calciatori più in vista), quasi la stessa cifra, sensibilmente superiore a quella delle "normali" 911 Carrera. Solo costoro potranno godere persino delle scomodità, perché saranno per loro come le penitenze per il credente che cerca la redenzione e la gloria. Solo costoro noteranno subito quanta diversità d'anima vi possa essere, fra la GT3 e la Turbo. Solo costoro potranno notare, sotto la medesima shilouette, le differenze: dai cerchi specifici, dal magico logo "GT3", dall'inconfondibile alettone (pensato e omologato per le competizioni), dai particolari, insomma, non certo dal "colpo d'occhio" proprio di chi guarda ma non vede, di chi pensa ma non coglie.

Gli altri saranno sempre come poveri ciechi.


Non solo all'alto livello delle gran turismo vi sono tali sublime differenze, ma anche a quello basso delle piccole utilitarie e a quello medio della berline.
Dieci anni or sono i cinque sesti dell'umanità salutava la mia Clio Williams come una versione "dorata" dell'utilitaria della mamma. Solo un sesto sapeva che quella targetta blu-e-oro significava che sotto il cofano non pulsava un tranquillo 1.2, ma un validissimo 2 litri pieno corsa-lunga, base di tutti i 4 cilindri agonistici della Renault (con i quali la Casa della Regie vinceva in F3 e in Turismo), da 150CV e soprattutto tanta coppia in basso (perfetta per far schizzare la vettura in uscita dalle curve lente e dai tornanti di montagna in salita).
Pochi anche fra questi, che magari riuscivano a distinguere le 1.8 16V dalle altre Clio per la gobba sul cofano, i parafanghi allargati, i cerchi in lega e l'assetto ribassato, erano al corrente che, diversamente da essa, la 2.0 16V Williams era dotata dello stesso avantreno della Renault 19 (montata sul telaio Clio rendeva la Williams impareggiabile nel misto guidato, quasi un kart, per l'avantreno fungente da ottimo perno attorno a cui provocare e controllare i rapidi movimenti della coda) e differiva per tanti particolari "racing" (i cerchi dorati, che assieme alla vernice blu ricreavano la cromatura del team di Formula 1 Williams Renault, la strumentazione con fondoscala blu, i sedili profilati da corsa con la mitica W doppia blu e oro di Frank, le cinture di sicurezza blu, la pedaliera adatta al punta tacco, con il supporto per il piede sinistro e il pedale del gas "ad L", le carreggiate allargate per una tenuta di strada superba e impensabile per le altre "mini-bombe" tutto-motore come la Punto-Turbo ecc.).
Pochissimi erano dunque coloro che allo sfrecciare del lampo blu dai cerchi oro riconoscevano la versione stradale di quella "Gruppo A" capace di dominare per un decennio nei rally e di primeggiare (in Gruppo N) anche in pista, grazie alle sue doti di leggerezza, stabilità, affidabilità, prontezza di risposta e facilità di guida.
Ancora oggi, a dieci anni dalla sua uscita di produzione, non vi è gara per il mondo, su strada o su pista, in cui non concorra una Renault Clio Williams.
Certo, per la gente comune (i cinque sesti) era "solo una Clio". E, dicevano "non ha senso spendere per un'utilitaria quanto serve per la meno costosa delle BMW serie 3, solo perché è blu coi cerchi oro: tanto per il resto è come la Clio con cui va a far la spesa mia madre".

Gli stessi, oggi, nel campo "medio" delle berline BMW, non differenziano una vera M5 dalle comuni 520 o 530d. Essi non giustificano come si possa spendere il doppio per avere una macchina con la medesima carrozzeria. Essi comprano "il BMW" principalmente per fare colpo sulle pulcelle o sui vicini di casa. E né queste né questi subiscono il fascino del particolare: ad esempio del logo M-Motorsport azzurro-blu-rosso sul baule, lo stesso che appariva in Formula 1 nei favolosi anni 80 a vincere il primo mondiale Turbo.
Essi non possono sapere che, sotto l'aspetto di una tranquilla berlina da famiglia, dotata di pacifici 6 cilindri benzina o diesel, si cela in realtà una belva con motore V8 (o V10, nell'ultima versione) da oltre 400CV.
Nulla fanno sospettare loro le prese d'aria frontali, gli spoiler anteriori e posteriori, le minigonne sottoporta, la gommatura abbondante "da pista" (quasi esagerata, con cerchi enormi, pinze in vista, larghezza degna di un "formula"). Nulla può dire neppure il suono cupo e rabbioso del motore. Essi non hanno occhi per vedere e orecchie per sentire questi particolari.

Sono coloro che confonderebbero Irina con Mona Lisa......


TERZA VERSIONE ("matematica")
Provate a chiedere ad un ingegnere quanto vale la fase di un numero complesso X+jY.
L'ingegnere "pistola" vi risponderà subito (e con tronfia soddisfazione): arctg(Y/X) [con arctg indichiamo la cosiddetta "arcotangente", ossia la funzione inversa della tangente, ed abbiamo supposto nulla il numero di coloro che non si ricordano neppure cosa essa sia nel quadrante trigonometrico o si sbagliano nel fare il rapporto fra i cateti per trovarla in relaziona ad un angolo acuto di un triangolo rettangolo].
Siamo certi che ad un ingegnere siffatto non debba essere affidata mai la progettazione di un ponte o di un sistema di trasmissione dati in ambito militare, dato che dimostra di non verificare mai le condizioni di partenza, di non curarsi dei vari casi possibili e di non preoccuparsi che la sua soluzione sia valida.
Essa infatti non è sempre vera. E' vera solo nel caso in cui X sia non negativo. In tal caso ci troviamo nel 1° o nel 4° quadrante, la fase sarà sicuramente compresa fra -pi/2 e pi/2 (con "pi" indichiamo il ben noto numero "pi-greco") ed essendo la tangente invertibile se ristretta in quell'intervallo, non vi sono problemi a ricavare la fase da essa. In caso contrario, invece, trovandoci nel 2° o nel 3° quadrante, la fase sarà fra pi/2 e 3/2pi, fuori dall'intervallo di invertibilità della tangente, per cui, per ricavarla, dobbiamo ricordarci come funzionano le "ambiguità" e le "periodicità" nel quadrante trigonometrico. In particolare per ricavare la fase dovremmo aggiungere un angolo piatto al valore fornitoci dall'arcotangente. Per cui la soluzione sarà pi + arctg(Y/X).
La risposta giusta al quesito avrebbe dunque dovuto essere complessa:
fase di (X+jY) = arctg(Y/X) se X>=0, pi+arctg(Y/X) se X<0. size="4">Conclusione del Teorema di Irina:
"dove si riconosce l'eccellenza? In ciò che tutti vedono?
No, nel particolare che solo gli esperti colgono."

Cumartesi, Kasım 04, 2006

Per la Tradizione, il numero otto è sinonimo di infinito (giacché il mondo è stato creato in sette giorni e l'ottavo rappresenta la sua fine, ossia il giorno dell'avvento del Regno di Cristo), tanto è vero che nel Medio Evo imperatori sacri e romani, come Carlo Magno e Federico II, costruivano ad ottagono le piante delle loro chiese e dei loro castelli.

E' dunque INFINITAMENTE importante la ricorrenza di oggi.

Esattamente 88 anni or sono, il Comandante Supremo del Regio Esercito Italiano, Generale Armando Diaz, faceva emettere il seguente comunicato.


Comando Supremo,
4 Novembre 1918,
ore 12


La guerra contro l'Austria-Ungheria che, sotto l'alta guida di S.M. il Re, duce supremo, l'Esercito Italiano, inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 Maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrotta ed asprissima per 41 mesi è vinta.

La gigantesca battaglia ingaggiata il 24 dello scorso Ottobre ed alla quale prendevano parte cinquantuna divisioni italiane, tre britanniche, due francesi, una cecoslovacca ed un reggimento americano, contro settantatre divisioni austroungariche, è finita.

La fulminea e arditissima avanzata del XXIX corpo d'armata su Trento, sbarrando le vie della ritirata alle armate nemiche del Trentino, travolte ad occidente dalle truppe della VII armata e ad oriente da quelle della I, VI e IV, ha determinato ieri lo sfacelo totale della fronte avversaria. Dal Brenta al Torre l'irresistibile slancio della XII, dell'VIII, della X armata e delle divisioni di cavalleria, ricaccia sempre più indietro il nemico fuggente.

Nella pianura, S.A.R. il Duca d'Aosta avanza rapidamente alla testa della sua invitta III armata, anelante di ritornare sulle posizioni da essa già vittoriosamente conquistate, che mai aveva perdute.

L'Esercito Austro-Ungarico è annientato: esso ha subito perdite gravissime nell'accanita resistenza dei primi giorni e nell'inseguimento ha perdute quantità ingentissime di materiale di ogni sorta e pressoché per intero i suoi magazzini e i depositi. Ha lasciato finora nelle nostre mani circa trecento mila prigionieri con interi stati maggiori e non meno di cinque mila cannoni.

I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli, che avevano disceso con orgogliosa sicurezza.

Perşembe, Kasım 02, 2006

I SEPOLCRI

"Dal dì che nozze, tribunali ed are dier l'umane belve l'esser pietose di sè e d'altrui", da quel giorno i morti sono seppelliti, par dirci il Foscolo innanzitutto, intendendo però comunicare quel senso del sacro, quella giustificazione tutta umana, eppur ideale, della vita, propria della Classicità e ripresa dal particolare Neoclassicismo del Grande Poeta (che molti riconducono al Romanticismo, ma non è qui il caso di fare polemiche): un senso del sacro non come semplice ingenua venerazione dell'ignoto (come certa apologia cristiana, chiamando con voce spregiativa "paganesimo" la religione de' Gentili, voleva far credere), ma come tentativo di dare senso alla vita umana e di "illuminare" di affetti e di ideali la "sotterranea notte" della morte. Sono straordinari i Sepolcri.

Con preciso Latin inizia il carme (MANIA DEORUM IURA SANCTA SUNTO), con fatidiche ma precise domande (“All’ombra dei cipressi e dentro l’urne confortate di pianto è forse il sonno della morte ben duro?”), non con le facili espressioni di qualunquismo (del tipo anche qui riposano dei Cromwell di Villaggio) o di lugubri descrizioni caratteristiche dell’Elegy written in a country churchyard di Thomas Gray. E’ vero: il Foscolo, in certi tratti, eccede nel macabro (senti raspar tra le macerie e i bronchi la derelitta cagna ramingando), ma solo per dare maggiore forza poetica e tragica all’accusa verso la città “d’evirati cantori allettatrice”, perché “quel tiglio non copre, o Dea, l’urna del vecchio cui già di calma era cortese e d’ombra. Forse tu fra plebei tumuli guardi vagolando, ove dorma il sacro capo del tuo Parini?” Foscolo, nota il De Sanctis, non respinge le illusioni, ma le nutre, le cerca, le difende nel nome della natura umana contro la dura verità. La “nuova legge” [l'Editto di Saint Claude] che contende il nome a’ morti e vuole in una fossa comune il Parini assieme al ladro offende l’homo sum, il suo sentimento di essere uomo. Checché ne suppongano taluni dal titolo, "nei Sepolcri c’è più luce che ombra: il Tempo che con le sue fredde ali spazza le rovine e gli avanzi che Natura a sensi altri destina ti rendono il vuoto, il silenzio, le tenebre[….], ma in questo mondo naturale penetra l’uomo e vi porta la luce e la misura, la delicatezza, la soavità, vi porta la grazia e la tenerezza, vi porta la sua umanità”. L’uomo penetra in quel mondo naturale di ferree leggi e col suo cuore e con la sua immaginazione, con tutte le sue illusione, e lo illumina e lo infiora: è il simbolo della vittoria dei valori-illusioni sul pessimismo: “rapian gli amici una favilla al sole a illuminar la sotterranea notte”.
“Questa prima voce della nuova lirica ha non so che di sacro, come un Inno: perché infine ricostruire la coscienza è ricostituire nell’animo una religione. La pietà verso i defunti, il culto delle tombe è prodotto da’ motivi più elevati della natura umana, la patria, la famiglia, la gloria, l’infinito, l’immortalità”. Su questa base generale “ i fantasmi d’Ilio e di Maratona si confondono con le ombre di Galileo e di Alfieri: Mitologia, Antichità, tempi moderni sono inviluppati in una stessa atmosfera, parlano la favella universale delle tombe: tutto è collegato, tutto è una corda sola nel santuario della coscienza” dice il De Sanctis. “Una poesia tale annunziava la risurrezione di un mondo interiore in un popolo oscillante tra l’ipocrisia e la negazione!" Riflettano su questa sante e attualissime parole coloro, Insegnanti d’Inglese in testa, che vogliono mettere il Carme allo stesso livello di componimenti stranieri preromantici! Là, in quei barbari scritti, la virtù sconosciuta veniva concessa a tutti indistintamente, la morte era un “duro sonno” che tutto cancellava e tutti uguali rendeva, in una comune pietà che molto si avvicina al nulla, qui, invece “a egrege cose il forte animo accendono l’Urne de’ forti, o Pindemonte, e Bella e Santa fanno al peregrin la terra che le ricetta”. I Sepolcri sono il vero letterario Inno d’Italia: non solo e non tanto per il santo ricordo dei monumenti patrii (Dante “ghibellin fuggiasco”, Machiavelli “Quel grande che temprando lo scettro ai regnatori gli allor ne sfronda e alle genti svela di che lacrime grondi e di che sangue” e Galileo che “mostrò nuovi numi ai celesti”), ma proprio per il senso tutto umano del sacro. “Il dolore è puro di amarezza - dice sempre il De Sanctis - temperato solo da una certa rassegnazione alle alterne veci della storia, e l’animo rimane alzato e guarda in lontananza nuove prospettive. Questa elevazione dell’animo in quella pace religiosa tiene in continuo sforzo la fantasia, la quale come popola gli avelli di fantasmi, così riempie le parole d’immagini, e ti forma un mondo di una Grandezza sepolcrale davvero”. “Con questi grandi (l’Alfieri) abita eterno: "e l’ossa/ fremono amor di patria. Ah sì! Da quella/ religiosa pace un Nume parla: e nutria contro a’ Persi in Maratona/ ove Atene sacrò tombe a’ suoi prodi,/ la virtù greca e l’ira”. Dal santuario di Santa Croce, nota il Pagliaro, si passa alle tombe di Maratona ed alla visione notturna della battaglia attraverso la passione dell’Alfieri e le sue fiere speranze. L’ammonimento che si può trarre dalle glorie passate è palesemente in questa direzione propriamente alfieriana: un popolo non può riconquistare la libertà e difenderla se non è dotato di spirito guerriero.
Non a caso il ricordo di Alfieri è molto commosso: “E a questi marmi venne spesso Vittorio ad ispirarsi. Irato a’ patrii Numi, errava muto/ ove Arno è più deserto, i campi e il cielo/ desioso mirando; e poi che nullo/ vivente aspetto gli molcea la cura,/ qui posava l’austero; e avea sul volto/ il pallor della morte e la speranza”. Il Foscolo mirabilmente delinea l’aspetto più intimo e profondamente vero della personalità alfieriana: il tragico urto tra la volontà di rinnovamento ed una realtà irrimediabilmente bloccata dalla malvagità dei governanti e dall’inezia del popolo.
E’ “questo “impulso naturale”, un bollore di cuore e di mente per cui non si trova mai pace, né loco; una sete insaziabile di ben fare e di gloria; un reputar sempre nulla il già fatto, e tutto il da farsi, senza però mai dal proposito rimuoversi; una infiammata e risoluta voglia e necessità, o di esser primi fra gli ottimi, o di non esser nulla”.
Per questa costruzione di valori ideali che giustifichino l'esistenza non basta la tranquillità materiale ed il benessere del corpo (anche se sono requisiti indispensabili, non sono un illuso spiantato e velleitario, so benissimo che senza i commerci e le ricchezze la Grecia non sarebbe stata Atene e Sparta e Pericle e Leonida e Roma non sarebbe stata Roma), e non basta nemmeno comprendere di avere un'anima (ossia un'identità autocosciente sede dei sensi e dei sentimenti, capace dunque non solo di vedere il mondo, ma soprattutto di "sentirlo" , nel senso più altamente foscoliano e, se vogliamo, romantico, del termine "sentire"), ma è necessario elevare l'anima a qualcosa di superiore all'individuo, qualcosa che lo trascenda per tendere, assieme alle altre anime nobili ed elette, ad un mondo più che umano ed ultra-individuale: il Mondo dello Spirito.

Çarşamba, Kasım 01, 2006

OSSERVAZIONE DI COSTANTINOPOLI

Nella Cultura Ottomana un uomo dotato di coraggio e di coerenza, di senso dell'onore e di appartenenza ad un popolo, ad una stirpe, ad un'identità religiosa, storica o ideale, e pronto a pugnare ad oltranza per tutto ciò, senza cedere neppure un metro prima del passaggio della morte, è tenuto in massima considerazione.
In infima stima invece è colui che cede le armi al nemico, che abbandona il suo popolo, che perde la sua identità in favore di quella di chi è più forte o lo ha sconfitto.
Per questo motivo dal Bosforo guardiamo con occhio ammirato e pieno di fortissimo rispetto quei Cristiani che, fedeli al mondo della loro Tradizione ed alla loro Identità Millenaria, festeggiano ora la ricorrenza di Ognissanti, cattolica e romana, mentre uno sguardo bieco e pieno di sovrana sufficienza rivolgiamo agli italiani che, in nome della prona accettazione di un modello culturale altrui, consumista e angloamericano, frutto di quella politica e di quella società che li ha colonizzati distruggendo millenni di cultura, di poesia, di bellezza e di arte (intesa anche come cittadinanza "artigiana" e creatrice, caratteristica della millenaria Civilità dei Liberi Comuni), rinnegano la loro storia cedendo alla moda di festività nordiche quali Halloween, pagane e barbare.

SALUTI DALLA SUBLIME PORTA