La Sublime Porta

"Signori e cavallier che ve adunati/ Per odir cose dilettose e nove,/ Stati attenti e quieti, ed ascoltati/ La bella istoria che 'l mio canto muove;"

Pazar, Kasım 05, 2006

IL TEOREMA DI IRINA

















PRIMA-VERSIONE ("poetica")
Ci sono domande che dividono gli uomini in due categorie: quelli con la pistola e quelli col fucile (che poi, tanto nel western di Sergio Leone, come nella realtà, dopo le sparate del genere "quando un uomo con la pistola incontra un uomo col fucile, l'uomo con la pistola è un uomo morto" fanno una fine da pistola per cui con quel nome saranno chiamati).
La prima categoria, soffermandosi sul fatto che il fucile spara più lontano, e dunque risulti apparentemente vincente contro la pistola, crede di poter formulare su questo un teorema, mentre
la seconda è portata a valutare tutti i possibili casi (anche i più incredibili e "patologici"), ad esaminare tutti particolari e a considerare e verificare tutte le condizioni che possono validare o meno tale teorema.
Tali categorie non suddividono gli uomini a metà, bensì in maniera asimmetrica: gli uomini con la pistola costituiscono un risicato sesto del totale, mentre i rimanenti 5/6 del genere preferisce affidarsi all'apparentemente infallibile fucile ed è dunque costuito dai "pistola".
Le categorie sono poi trasfersali ad ogni campo dello scibile umano.

Provate a chiedere agli uomini di lettere cosa sia un settenario.
I cinque sesti di loro vi risponderà, con il tono trionfante di chi ha il piacere di rivelare una verità evidente, trattarsi di un verso di sette sillabe, chiosando magari la risposta con un "lo dice il nome stesso: il novenario, ad esempio, sarebbe un verso di nove", accompagnato da un sorriso sicuro e compiaciuto verso di voi.
Solo un sesto degli intervistati avrà l'accortezza di farvi notare che, a dispetto del nome, è definito settenario un verso avente l'ultimo accento tonico sulla sesta sillaba. Il fatto che solitamente i settenario siano effettiavamente di sette sillabe consegue soltanto dalla grande abbondanza di parole piane (ossia aventi l'accento tonico sulla penultima sillaba) nella lingua di Dante. Si possono però avere benissimo settenario di sei sillabe (se l'ultima parola è tronca, ossia con l'accento sull'ultima sillaba), di otto (nel caso di ultima parola sdrucciola, ossia con l'accento sulla terz'ultima sillaba) o addirittura di nove (nel caso delle rare parole bisdrucciole, ossia con l'accento sulla quart'ultima sillaba). La differenza non è affatto banale, in quanto il ritmo melodico e musicale della lingua italiana (come di tutte le lingue romanze, del resto) dipende proprio dall'accentazione della parole, e non risente affatto della quantità di sillabe atone. Bisogna dunque contare gli accenti e le loro posizioni, non le sillabe in sé. Di qui la definizione, ad esempio, di settenario (come di ogni altro verso) basata sulla posizione dell'ultima sillaba accentata e non, di per sé, sul numero delle sillabe.
Un esempio di "uomo con la pistola" in campo poetico è dato da messer Roberto Bottiroli, il quale, fra le altre, ha scritto la raccolta "Sospiri". La Lirica dedicata della
"Donna bruna" è un magistrale esempio di uso sapiente e raffinato del settenario.

"Vago anelante al tremulo
chiarore della luna,
guardo e sospiro al pallido
viso di donna bruna,
notte silente e immobile
dona il sublime amor.

Fanciulla, tu che languida
ti perdi ai caldi abbracci
di quel calor che insolito
ti prende fra i suoi lacci
quando nel ciel lo spirito
s'empie d'antico ardor.

Se nella notte canta
il rusignolo al vento
volando allor rammento
l'antico grande amor.

Il caldo tuo respiro
si perde tra le fronde
e il cuore mio risponde:
sei tu l'amato fior. " (Roberto Bottiroli)


Chiunque abbia meditato a fondo sul Canzoniere di Petrarca, sospirato languente sulle Rime del Tasso e sognato col Poema Paradisiaco di D'Annunzio capisce subito come chi ha composto questa lirica sia un poeta vero (uno dei pochi rimasti, oggi, di quel sesto di senno umano) e non uno scribacchino improvvisato e "pistola".
Non lo si può però comprendere dal soggetto, dato che ispirarsi ad una bellezza bruna potrebbe essere alla portata di qualunque nel mondo sia rapito nel pensiero e nei sensi dalle belle forme, dalla statuaria figura delle chiome nere di una Nina Moric o di una Chiara di Notte.
Non lo si può capire dal tema, poiché parlare di baci, di abbracci e di lacci o lacciuoli amorosi è proprio anche del più banale e scontato dei liceali invaghiti della smorfiosa magra della 3°C.
Non lo si può intuire dalle immagini, poiché un plenilunio avvolto dal silenzio notturno può venir considerato poetico (e preso a pretesto per condurre seco una donzella) persino dal più barbaro e prosaico dei cuori umani.
Non lo si può apprendere dalla metafore, visto che la donna e l'amore simboleggiati da un fiore sono presenti non solo nei poemetti medievali o nelle liriche stilnoviste, ma anche nelle parole "galanti" del basso volgo.
Non lo si può arguire dalle rime baciate che evidenti spiccano nella lettura e nell'ascolto (vento/rammento, fronde/risponde), siccome anche il più ridicolo dei comici saprebbe comporre una filastrocca con due rime in croce.
Non lo si può insomma capire da nulla di ciò che suona come "poesia" alle orecchie dei profani(l'amore, la donna, le metafore, alcune rime baciate sparse in mezzo ecc.).
Lo si capisce invece dai particolari stilistici, dall'analisi metrica e da tutto quanto, della poesia, è ignoto ai "cinque sesti" degli uomini.
Un attento studioso potrebbe infatti già coglierlo dalla semplice osservazione degli aggettivi presenti nella prima sestina, dal momento che "anelante", "tremulo", "pallido", "bruna "silente", "immobile", "sublime" e "languida" (nel primo verso della seconda sestina) non si ritrovano nel parlare di un illetterato e non potrebbero essere semplice "simulazione" di cultura lirica e letteraria per il semplice fatto che non sono posti a caso (come capiterebbe da parte di chi li ha semplicemente sentiti e vuole millantarne il possesso), ma sono usati in maniera appropriata, specifica e con precisi effetti poetici, di creazione di immagini, di evocazione di suoni melodici o di richiamo di topoi letterari.
"Anelante" ad esempio corrisponde al verbo "vago" e rende l'idea di un "muoversi cercando" (proprio perché l'amore, come diceva Platone, è innanzitutto ricerca, e assieme possesso e privazione) e quindi desiderando (questo incipit richiama alla mente, per associazione, il celeberrimo "solo et pensoso i più deserti campi/ vo mesurando a passi tardi e lenti" di Petrarca, anche se qui l'amata non resta irraggiungibile ed eterea come Laura e la condizione del poeta non è dunque la solitudine disperata).
"Pallido" corrisponde, visivamente al "chiarore della luna" e, contrastando con "donna bruna" (la rima evidenzia il contrasto visivo e fissa così nel lettore l'immagine del "claro viso" della donna) e con il buio della "notte silente e immobile" rende davvero "sublime" il quadro della bellezza muliebre, la quale emerge non solo come claritate celeste e altissima nel buio notturno (come appunto la luna), ma anche, tramite il desiderio suscitato nel poeta, come "suono" che rompe il silenzio della notte (il poeta sospira e parla) e come "moto" (il poeta infatti sta "vagando") che interrombe l'immobilismo della natura circostante.
Ovviamente l'ascoltatore distratto di questa sestina si sarebbe soffermato solo sull'ultima parola dell'ultimo verso ("amor"), la quale, lungi dall'essere sintesi del contenuto, è invece soltanto il "premio" di un lungo percorso di desideri e di richiami e costituisce il legame (sia ovviamente contenutistico, sia metrico) con le rimanenti tre strofe, e avrebbe potuto confondere questa con tante altre sedicenti liriche amorose scritte oggi, senza metrica e senza stile, da un qualunque pisquano in un forum, ad esempio, di escort, per sperare di avere uno sconto spendendo quella magica parola giunta a qualche immagine.
Il fatto che questa sia una poesia "vera" si capisce infine, e definitivamente, dai particolari metrici, che, come detto, solo pochi conoscono. Già non tutti sanno sillabare in prosa, pochi lo sanno fare in poesia pochissimi ne conoscono le regole e le eccezioni (l'enjambemeunt, il comportamento differente delle vocali forti e di quelle deboli, il diverso conteggio delle sillabe nei possessivi "mio, tuo, suo ecc." a seconda siano in mezzo al verso o alla fine di esso ecc.). Sparuti saranno dunque coloro che potranno apprezzare la vera "gemma preziosa" di questa poesia.
Lo schema metrico prevede

L'autore infatti sceglie, in ognuna delle due sestine, di impiegare rime bisdrucciole (e dunque settenari di otto sillabe) in tutti i versi destinati a non rimare (ad es: "languida", "insolito"; "spirito"), rime piane (e dunque settenari "classici" da sette) nei due versi in rima alternata (ad es: "abbracci", "lacci" e rima tronca (e dunque settenari da sei) nell'ultimo verso (che deve rimare con gli ultimi versi della altre strofe, creando un richiamo altamento ritmico e musicale: "amor", "ardor", "amor", "fior" ). Ciò risponde a precise necessità di accompagnare con la melodia, ora più distesa, ora più contratta, il suono delle singole parole. Non sarà percepito dai "pistola", ma agli uomini "con la pistola" si rivelerà come la risposta definitiva alla domanda sulla qualità dell'opera.


SECONDA VERSIONE ("meccanica")


Provate a chiedere ad un appassionato d'auto quale Porsche si comprerebbe se vincesse al milionario.































I cinque sesti di essi vi risponderebbe, con sorriso beato che ignora l'amore per l'automobile in quanto tale e si volge invece alla sua funzione di "status symbol", "la 911 Turbo, la più potente e la più costosa".
Essi ignorano come non siano la bruta "cavalleria" e l'esborso economico a qualificare l'eccellenza di una vettura, bensì il suo pregio tecno-agonistico.
Infatti il peso di accessori e finiture prestigiosi ma utili al confort più che alla sportività, la stessa sovralimentazione sofisticata ma volta più alla fludità di guida e alla velocità su rettilinei autostradali che non al rendimento e alla prontezza nell'uso "agonistico", l'assetto sportivo ma non sportivissimo e la necessità di renderne il comportamento gestibile da un qualsiasi "commenda" attempato e con la pancia e magari privo di esperienza agonistica o di spiccate doti di guida rendono la 911 Turbo, alla prova fatidica del cronometro (in pista o su percorsi guidati come le cronoscalate o l'anello nord del nurburgring) una vettura non tanto eccelsa come potrebbe sembrare e come invece è la "sorella" GT3.
Questa infatti non è una macchina sportiva potenziata ed evoluta rispetto alle altre 911: è una invece una vera macchina da corsa soltanto adattata all'uso stradale e omologata. L'equipaggiamento essenziale, la scocca alleggerita, l'assetto "pronto corsa", il comportamento nervoso (e gestibile solo da mano esperta, abile e sensibile), e lo stesso motore aspirato (il quale, senza il patema del rischio battito-in-testa del turbo, può essere spinto a regimi e rapporti di compressione davvero elevati, veramente racing), evoluto da una solida base agonistica e progettato con criteri di semplicità costruttiva d'affidabilità assoluta, ispirati alle doti necessarie a primeggiare nelle grandi classiche di durata (in cui la casa tedesca tradizionalmente domina) ne fanno un perfetto "purosangue" da asfalto.
Tali doti però sono fruibili solo da chi è disposto a soffrire rumore e ma di schiena per centinaia e centinaia di chilometri pur di giungere in circuito a misurarsi col cronometro, da chi se ne infischia di gadget elettronici e lussi di ogni genere, da chi, grazie ad esperienza agonistica e/o studi e allenamenti specifici, ha appreso almeno i rudimenti della guida al limite e in pista e ha acquisito, sia a livello razionale sia a livello incoscio, le conoscenze e gli automatismi per controllare e far rendere al meglio la vettura nelle situazioni estreme, da chi conosce ogni particolare della tecnica automobilistica, da chi ama confrontare le soluzioni delle varie case, sperimentate su strada e in corsa, da chi "respira" il profumo delle gomme, dei motori, dei freni, da chi ama l'Automobile come creatura vivente data al culto della Divina Rapidità, dotata di un'anima, e non come oggetto di mero divertimento barbarico o sfoggio di ricchezza.
Solo costoro potranno capire quanta arte vi sia nella meccanica di una 911 GT3, quanta cura nella progettazione di ogni suo particolare, quanta preziosa esperianza nella messa a punto del suo assetto. Solo costoro potranno giustificare di spendere, per una vettura che non è status symbol come la "911 Turbo" (posseduta infatti da tutti i calciatori più in vista), quasi la stessa cifra, sensibilmente superiore a quella delle "normali" 911 Carrera. Solo costoro potranno godere persino delle scomodità, perché saranno per loro come le penitenze per il credente che cerca la redenzione e la gloria. Solo costoro noteranno subito quanta diversità d'anima vi possa essere, fra la GT3 e la Turbo. Solo costoro potranno notare, sotto la medesima shilouette, le differenze: dai cerchi specifici, dal magico logo "GT3", dall'inconfondibile alettone (pensato e omologato per le competizioni), dai particolari, insomma, non certo dal "colpo d'occhio" proprio di chi guarda ma non vede, di chi pensa ma non coglie.

Gli altri saranno sempre come poveri ciechi.


Non solo all'alto livello delle gran turismo vi sono tali sublime differenze, ma anche a quello basso delle piccole utilitarie e a quello medio della berline.
Dieci anni or sono i cinque sesti dell'umanità salutava la mia Clio Williams come una versione "dorata" dell'utilitaria della mamma. Solo un sesto sapeva che quella targetta blu-e-oro significava che sotto il cofano non pulsava un tranquillo 1.2, ma un validissimo 2 litri pieno corsa-lunga, base di tutti i 4 cilindri agonistici della Renault (con i quali la Casa della Regie vinceva in F3 e in Turismo), da 150CV e soprattutto tanta coppia in basso (perfetta per far schizzare la vettura in uscita dalle curve lente e dai tornanti di montagna in salita).
Pochi anche fra questi, che magari riuscivano a distinguere le 1.8 16V dalle altre Clio per la gobba sul cofano, i parafanghi allargati, i cerchi in lega e l'assetto ribassato, erano al corrente che, diversamente da essa, la 2.0 16V Williams era dotata dello stesso avantreno della Renault 19 (montata sul telaio Clio rendeva la Williams impareggiabile nel misto guidato, quasi un kart, per l'avantreno fungente da ottimo perno attorno a cui provocare e controllare i rapidi movimenti della coda) e differiva per tanti particolari "racing" (i cerchi dorati, che assieme alla vernice blu ricreavano la cromatura del team di Formula 1 Williams Renault, la strumentazione con fondoscala blu, i sedili profilati da corsa con la mitica W doppia blu e oro di Frank, le cinture di sicurezza blu, la pedaliera adatta al punta tacco, con il supporto per il piede sinistro e il pedale del gas "ad L", le carreggiate allargate per una tenuta di strada superba e impensabile per le altre "mini-bombe" tutto-motore come la Punto-Turbo ecc.).
Pochissimi erano dunque coloro che allo sfrecciare del lampo blu dai cerchi oro riconoscevano la versione stradale di quella "Gruppo A" capace di dominare per un decennio nei rally e di primeggiare (in Gruppo N) anche in pista, grazie alle sue doti di leggerezza, stabilità, affidabilità, prontezza di risposta e facilità di guida.
Ancora oggi, a dieci anni dalla sua uscita di produzione, non vi è gara per il mondo, su strada o su pista, in cui non concorra una Renault Clio Williams.
Certo, per la gente comune (i cinque sesti) era "solo una Clio". E, dicevano "non ha senso spendere per un'utilitaria quanto serve per la meno costosa delle BMW serie 3, solo perché è blu coi cerchi oro: tanto per il resto è come la Clio con cui va a far la spesa mia madre".

Gli stessi, oggi, nel campo "medio" delle berline BMW, non differenziano una vera M5 dalle comuni 520 o 530d. Essi non giustificano come si possa spendere il doppio per avere una macchina con la medesima carrozzeria. Essi comprano "il BMW" principalmente per fare colpo sulle pulcelle o sui vicini di casa. E né queste né questi subiscono il fascino del particolare: ad esempio del logo M-Motorsport azzurro-blu-rosso sul baule, lo stesso che appariva in Formula 1 nei favolosi anni 80 a vincere il primo mondiale Turbo.
Essi non possono sapere che, sotto l'aspetto di una tranquilla berlina da famiglia, dotata di pacifici 6 cilindri benzina o diesel, si cela in realtà una belva con motore V8 (o V10, nell'ultima versione) da oltre 400CV.
Nulla fanno sospettare loro le prese d'aria frontali, gli spoiler anteriori e posteriori, le minigonne sottoporta, la gommatura abbondante "da pista" (quasi esagerata, con cerchi enormi, pinze in vista, larghezza degna di un "formula"). Nulla può dire neppure il suono cupo e rabbioso del motore. Essi non hanno occhi per vedere e orecchie per sentire questi particolari.

Sono coloro che confonderebbero Irina con Mona Lisa......


TERZA VERSIONE ("matematica")
Provate a chiedere ad un ingegnere quanto vale la fase di un numero complesso X+jY.
L'ingegnere "pistola" vi risponderà subito (e con tronfia soddisfazione): arctg(Y/X) [con arctg indichiamo la cosiddetta "arcotangente", ossia la funzione inversa della tangente, ed abbiamo supposto nulla il numero di coloro che non si ricordano neppure cosa essa sia nel quadrante trigonometrico o si sbagliano nel fare il rapporto fra i cateti per trovarla in relaziona ad un angolo acuto di un triangolo rettangolo].
Siamo certi che ad un ingegnere siffatto non debba essere affidata mai la progettazione di un ponte o di un sistema di trasmissione dati in ambito militare, dato che dimostra di non verificare mai le condizioni di partenza, di non curarsi dei vari casi possibili e di non preoccuparsi che la sua soluzione sia valida.
Essa infatti non è sempre vera. E' vera solo nel caso in cui X sia non negativo. In tal caso ci troviamo nel 1° o nel 4° quadrante, la fase sarà sicuramente compresa fra -pi/2 e pi/2 (con "pi" indichiamo il ben noto numero "pi-greco") ed essendo la tangente invertibile se ristretta in quell'intervallo, non vi sono problemi a ricavare la fase da essa. In caso contrario, invece, trovandoci nel 2° o nel 3° quadrante, la fase sarà fra pi/2 e 3/2pi, fuori dall'intervallo di invertibilità della tangente, per cui, per ricavarla, dobbiamo ricordarci come funzionano le "ambiguità" e le "periodicità" nel quadrante trigonometrico. In particolare per ricavare la fase dovremmo aggiungere un angolo piatto al valore fornitoci dall'arcotangente. Per cui la soluzione sarà pi + arctg(Y/X).
La risposta giusta al quesito avrebbe dunque dovuto essere complessa:
fase di (X+jY) = arctg(Y/X) se X>=0, pi+arctg(Y/X) se X<0. size="4">Conclusione del Teorema di Irina:
"dove si riconosce l'eccellenza? In ciò che tutti vedono?
No, nel particolare che solo gli esperti colgono."

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