La Sublime Porta

"Signori e cavallier che ve adunati/ Per odir cose dilettose e nove,/ Stati attenti e quieti, ed ascoltati/ La bella istoria che 'l mio canto muove;"

Çarşamba, Şubat 28, 2007

LE BUGIE DELLA NON VIOLENZA

Sovente e modernamente si sente dire, sia individualmente, sia a livello di popoli, che "la violenza è sbagliata". Si è soliti, sottilmente e quasi istintivamente, associare tale messaggio al tentativo di eliminare dal mondo l'ingiustizia, la prevaricazione e l'imposizione della volontà delle persone più prepotenti ai danni di quelle più eque. Grazie a questa associazione implicita, il messaggio "non violento" riscuota sommo successo presso l'intellettualità contemporanea, e, conseguentemente, presso le masse che da essa sono educate (non solo tramite la scuola, ma anche con i messaggi pubblicitari, politici o culturali, magari non espliciti ma subliminali). Poiché chiunque conosca la storia conosce anche i meccanismi raffinati e sottili con i quali le caste dominanti riescono a mostrare in maniera convincente come "giustizia e libertà" in senso assoluto la visione del mondo legittimante i propri interessi ed il proprio potere, e chi conosce i filosofi sa quanta bassezza terrena, quanta concreta falsità, quanto vizio profondo, quanta leggerezza di giudizio vi sianoo sotto il manto di purezza ideale, di verità astratta, di virtù dialettica e di assolutismo morale, è d'uopo per i lettori di Costantinopoli cercare di strappare il velo di Maya dell'apparenza per indagare la questione nel profondo delle verità esistenziali. Solo così si potrà capire il vero motore, naturale, animale oppure "umano, troppo umano", come direbbe Nietzsche, che spinge l'azione ed il pensiero della maggioranza di coloro che si dichiarano a priori contrari alla violenza, "senza se e senza ma", senza cioé indagare oltre finalità, cause e opportunità.
La violenza è puramente un mezzo, né più né meno di altri, per piegare il prossimo (non necessariamente nemico) a compiere la nostra volontà. Fra gli altri mezzi equivalenti possono essere citati , principalmente, l'inganno, l'abilità dialettica, l'infatuazione amorosa e tutto quanto vi è di affine. Non ho usato a caso i termini "equivalente" ed "affine", in quanto i mezzi si classificano primieramente in base all'essere adeguati o meno al fine cui servono, non già in base al lecito o all'illecito. Eticamente, lecito ed illecito sono categorie che caratterizzano il fine, non il mezzo. E' lo stato moderno che, per convenzione e comodità di funzionamento (e per impedire che gli individui si facciano giustizia da sé, esautorandolo), definisce mezzi leciti o illeciti, ma ciò viene fatto sempre nell'ambito di quanto, nei principi costitutivi (o costituzionali) di esso viene considerato lecito o illecito come fine. Nella condizione ideale lo stato liberale definisce infatti mezzi leciti quelli che permettono di conseguire fini leciti e mezzi illeciti quelli che, a suo giudizio, presuppongono l'intenzione di un fine illecito. Vengono considerati mezzi leciti le cause civili, il lavoro, il denaro perché con essi si ritiene possibile conseguire finalità riconosciute, come la tutela della libertà personale, della proprietà o della possibilità di profitto, mentre viene considerata illecita la violenza giacché, potendosi (nell'intenzione dello stato) tutelare i diritti individuali con la legge, e conseguire il profitto con mezzi economici, chi ricorre ad essa implica (sempre nell'intenzione astratta dello stato) la volontà di procurare danni ingiusti al prossimo o di opprimerlo privandolo arbitrariamente di certi diritti e di certi beni.
Tralasciando il fatto se tale coincidenza di mezzi leciti e fini leciti (e di mezzi illeciti e fini illeciti) sia realmente sussistente nel reale funzionamento degli stati, mi limito ad osservare come essa sia fatta arbitrariamente valere, da parte dei sostenitori della non-violenza, anche ove non vi è (come invece nella legge liberale) una definizione convenzionale di lecito o di illecito, ad esempio nei rapporti fra stati o nei rapporti privati fra persone, ossia in sfere giustamente troppo grandi o troppo piccole per essere comprese nella giurisdizione statale liberale.
Volendo lasciare da parte la politica (ché ci condurrebbe fuori sentiero) e la troppo vasta questione sulla guerra giusta o meno, la quale già appassionò gli animi da Sant'Agostino a Machiavelli, da Federico il Grande allo stesso Marx, per giungere ora a Bush ed ai pacifisti (la degradazione temporale del livello dei pensatori mi indurrebbe qui a credere alla teoria della decadenza del mondo), desidero richiamare l'attenzione sulla pretesa che l'uso della violenza implichi in generale, di per sé, un fine ingiusto o brutale o oppressivo, ed altri mezzi siano invece segno di liceità di scopi, di rispetto del prossimo e di amore per la giustizia e la libertà. Qui emerge chiaramente al confusione fra fini e mezzi., nella valutazione di cosa sia da considerare "giusto". Certo se utilizzo la violenza per rapinare qualcuno o per procurargli ingiustamente danni e privazioni o umiliazioni, allora sono davvero un oppressore. Se però mi servo della violenza per difendere un diritto mio o altrui, per proteggere l'incolumità o la serenità di vita mia o di altri, o per impedire che mi sia sottratto un bene o vietata una libertà, non solo non sono un oppressore, ma divengo un difensore contro l'oppressione. Questo è un concetto tanto evidente che persino gli stati lo riconoscono, nei casi nei quali non riescono ad essere materialmente presenti, sul momento con il loro potere preventivo, dissuasivo e coercitivo: ad esempio nella legittima difesa. E proprio questo dovrebbe chiaramente dimostrare come non sia la violenza in sé ad essere "sbagliata" (giacché in quanto mezzo non può essere né giusta né sbagliata, ma solo adeguata o meno allo scopo, al tempo, alla circostanza), ma, eventualmente, i fini che si propone, i quali sì si dividono in leciti e illeciti, in giusti o ingiusti, in oppressivi o liberali. Purtroppo tale chiarezza viene (appositamente) OSCURATA quando si tratterebbe di operare la medesima distinzione per TUTTI gli altri mezzi che possono essere utilizzati in luogo della violenza per i medesimi scopi. Se infatti mi propongo di opprimere, umiliare o tiranneggiare qualcuno, di procurargli un danno ingiusto o di porlo alla mercé del mio arbitrio e delle mie brame, forzando la sua volontà, e prevaricando le sue decisioni e la sua libera visione del mondo, utilizzando metodi come l'inganno mellifluo, la trama occulta, l'abilità dialettica distorcente i fatti e le valutazioni, lo sfruttamento della naturale illusione amorosa affinata ad arte, il rendere appositamente difficile l'appagamento dei bisogni corporali (e strumento di potere dunque il miraggio del loro soddisfacimento) o il suscitare desideri chimerici con cui guidare la mente abbacinata, non risulto certo meno prepotente, meno oppressivo e meno iniquo. Il sentire il contrario, il percepire una differenza in re ipsa fra il metodo "vis" (dal Latino: forza, violenza) ed il metodo "blanditia", a prescindere dai fini, non è "morale naturale", bensì un sentimento sapientemente indotto, nell'evoluzione storica, da un insieme di persone le quali si vedevano svantaggiate sul piano dello scontro diretto ed avvantaggiate su quello dell'intrigo, della mistificazione, dell'inganno: facendo apparire "illecito" il mezzo (la violenza) nel quale erano più deboli accrescevano il proprio potere e le probabilità di successo nel mondo attribuendo conseguentemente maggior peso e "liceità" ai mezzi di cui si sentivano più dotati e in cui ritenevano invece meno forti coloro che essi appellavano "violenti". Non vi era dunque alla base del ragionamento una questione di morale, di giustizia o di equità, bensì una mera considerazione pragmatica su come meglio opprimere il prossimo. E' straordinariamente illuminante quanto in proposito ha scritto Nietzsche, sulla nascita di una certa morale cristiana della limitazione e della rinunzia come parto del più abissale tutti gli odi, l'odio dell'impotenza, da parte di chi nella vita, con le regole ed i valori della vita, non poteva più vincere o emergere (solo una coscienza malata poteva coniugare assieme termini come “forte”, “ricco”, “sessuale”, “dominatore”, “violento”, “istintivo”, “bramoso di possesso”, “egoista”, “cupido di piaceri” con “brutto”, “cattivo”, “plebeo” e invece termini come “piccolo”, “povero”, “asessuato”, “casto”, “pacifico”, “timoroso”, “sottomesso”, “umile”, “laborioso”, “disinteressato”, “altruista”, “senza pretese”, “schivo di onori e ricchezze” con “bello”, “buono”, “nobile”), come frutto cioé di una vendicativa e rabbiosa avversiona propria di "un cane legato alla catena". Ciò è vero in generale per l'uomo, sia preso come individuo singolo, sia come parte di un popolo, giacché a suo fondamento non è un accidente storico o personale, bensì la necessaria piramidale nequitia dell'animo umano, la sua naturale prepotenza e voglia di tirannia.

A livello di popoli, gli Ebrei dell'Antico Testamento erano ancora inclini ad esaltare il coraggio e la virtù guerriera, come testimonia l'episodio di Giacobbe in lotta con l'Angelo e la concezione stessa del "dio signore degli eserciti", ma quando, sconfitti dai Babilonesi, dagli Egizi e poi soprattutto dai Romani, hanno percepito impossibile ottenere la grandezza ed il primato che spetterebbe ad un popolo "eletto" con la forza delle armi e la gloria della politica di potenza (quale massimamente esprimeva Roma), hanno iniziato a svalutare l'aspetto eroico e guerriero dell'esistenza, assieme alla ricchezza, alla forza, alla gloria mondana, alla tensione verso alla vittoria, alla sfida al destino, alla volontà di dominio ed alla brama feconda in favore degli aspetti remissivi e sacerdotali, della povertà, della debolezza, della limitazione e della rinunzia, della sottomissione a dio ed al fato, del distacco dal mondo, del disprezzo per la gloria militare e per la magnificenza terrena, dell'astinenza dalle carni e dell'umiltà d'animo, ed hanno con ciò conquistato l'impero conquistatore tramite quella versione svirilizzata e ed antivitale dell'Ebraismo che è il Cristianesimo, significativamente diffusosi soprattutto fra gli schiavi. Il fatto che poi gli Ebrei di oggi, riconquistata la potenza e la grandezza sia economica sia militare, tornino a considerare positivamente l'idea di nazione, di esercito e di diritto alla forza (sia pur per difendersi) è sintomatico. Non voglio però apparire antisemita, per cui svolgerò, per parcondicio, lo stesso ragionamento riguardo ai Tedeschi. Fin dall'epoca di Ottone I fondatore del Sacro Romano Impero Germanico (grazie alla decisiva pesantissima sconfitta inflitta agli Ungari che con le loro incursioni predatorie rendevano prima impossibili i viaggi, i commerci e un'agricoltura prospera, e, di conseguenza, una forma statuale in grado di garantire almeno la sicurezza ed un'economia che non fosse di sussistenza: in altre parole, rendevano impossibile lo svilupparsi della civiltà europea) l'ideale del popolo discendente dei fieri distruttori della legione di Alfenio Varo (fra i pochi ad aver sconfitto i Romani militarmente) era quello leale e guerriero, quale possiamo vedere fin nelle opere di Wagner, improntato al motto "meglio uccidere che tradire" o "nulla è più eterno della fedeltà". L'apoteosi persino tragicomica (comica per l'eccesso di ostentazione militaresca, tragica per i suoi effetti) di tale spirito la si è avuta nel nazional-socialismo, anche se le grandi vette del militarismo prussiano erano state raggiunte già da Federico II e, dopo, dalla Germania cosiddetta "guglielmina", nella quale, alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, i temi della volontò di potenza e del pangermanesimo erano la filosofia dominante. Quando però di nessuno dei tre Reich (la cui durata ha avuto un decadimento esponenziale: quasi un millennio il sacro romano impero, un cinquantennio l'impero germanico del bismark, un solo decennio il reich di Hitler) rimese più delle macerie e dei ricordi, gli stessi Tedeschi impiegarono poco tempo a convertire il proprio pensiero al liberalismo, all'amore per la pace e la prosperità data dal lavoro (e dalle esportazioni) e ad emanare leggi all'avanguardia quanto a tolleranza, tutela sociale, difesa dei deboli e degli emarginati e dei diversi, lotta al razzismo, filosofia della "non-violenza". Certo è facile "convertirsi" al mondialismo capitalista e alla "cultura della pace" quando l'economia nazionale, dopo una guerra disastrosa, viaggia come una locomotiva trascinando dietro di sé l'intera Europa. Dal secondo dopoguerra i principali pacifisti sono tutti tedeschi (che poi abbiano un passato da militanti hitleriani non è ovviamente rilevante nel trasformistico mondo moderno), e nel paese del Parsifal non è più consentito neppure ascoltare o diffondere un qualsiasi testo musicale che inneggi alla gloria militare o alla possibilità di ottenere l'immortalità eroica nella guerra (chissà che ne avrebbe detto Massimiliano I d'Asburgo, imperatore del Sacro Romano impero germanico, il quale per rafforzare lo spirito appunto germanico di fronte alla cultura latina e rinascimentale, pretendeva essere i tedeschi discendenti dei Troiani di Omero).
Non importa dica cosa pensi di tali pensieri, derivino essi da ariani o da giudei o da qualunque altro tipo umano presente sulla terra: la specie è la stessa, come la stessa è la pretesa tutta umana di inventare una verità che giustifichi ed esalti le proprie azioni o permetta meglio il raggiungimento dell'egoistico interesse.

A livello di individuo, basta non essere troppo ingenui per capire come generalmente chi inneggia aprioristicamente alla non-violenza lo faccia fondamentalmente e prima di tutto per interesse. L'uomo astuto e dialettico che depreca la forza come mezzo di risoluzione delle controversie non mira il più delle volte al trionfo della giustizia, ma al poter impunemente raggirare, ingannare, truffare il prossimo e illuderlo per creare disparità di prestazioni a proprio vantaggio negli scambi. L'avvocato politicamente corretto che condanna l'uso della forza, ed esalta quello della parola, non vuole che i delinquenti siano puniti e gli innocenti liberati, ma al contrario che i primi siano resi liberi dall'eloquenza giuridica ed i secondi imprigionati dalla stortura della legge, perché proprio su tale possibilità di inversione si fonda il suo guadagno. Allo stesso modo il commerciante trafficone condanna le guerre fra stati e le aggressioni fra gli uomini per poter continuare a prosperare nel commercio e a rifilare fregature a chi prima si fida di lui e non può poi reagire perché impedito dalla legge che condanna la violenza personale ma tutela chi riesce ad apparire onesto nascondendosi fra i cavilli delle norme. Similmente la fanciulla avvenente detesta la cosiddetta "brutalità maschile" (intendendo con essa anche il semplice rifiutare i doveri di galanteria o sprezzare i pretesi privilegi femminili, siano essi medievali o moderni) non già per amore dell'equità, della libertà personale, del diritto all'autodeterminazione nelle scelte private e sessuali e del rispetto reciproco, bensì per potersi permettere di tutto (dall'essere apprezzate e disiate al primo sguardo al ricevere trattamenti particolari in ogni ambito pubblico, dal venir considerate "rare e preziose" e dunque ricevere attenzione per quanto possono provare o sentire mentre gli stessi sentimenti e le stesse eventuali ferite emotive sono neglette quando capitano agli altri, al potersi permettere comportamenti di ogni genere, sanzionati o vituperati negli altri, solo per il loro "status", "in quanto donne", dallo sfruttare la legge giuridica e convenzionale per far accettare come vera la propria versione dei fatti e minacciare denunce per capriccio, vendetta o ricatto all'utilizzare senza giustizia alcuna le regole economico-sociali per sbranare economicamente e sentimentalmente gli uomini, nei matrimoni, nelle unioni o anche solo nei dai capricci materiali di doni e regali considerati d'obbligo per avere contatti con loro alle varie molestie erotico-sentimentali spesso elargite con noncuranza o addirittura perfidia, e divenute modus vivendi, ad onta dei disagi emotivi, delle umiliazioni private o pubbliche, delle irrisioni intime nel desiderio, e di tutte le altre sofferenze trasmutate da sessuali ad esistenziali causate a chi, volente o nolente ne è oggetto senza possibilità di replica o di difesa) senza dover temere le reazioni senza dare in cambio nulla, né giustificazione, né ringraziamenti, se non alterigia e disprezzo.

Le donne-femministe, poi, la vetta di tale assurda e mentecatta visione "non violenta", incitano gli stati ad abolire guerre, militarismi e prostituzione ed a creare le amabili leggi speciali contro la violenza sulle donne (ove la definizione di violenza e molestia è talmente ampia ed arbritraria da poter comprendere qualsiasi atto, detto, sguardo o pensiero esprimente interessamento sessuale di un uomo nei confronti di una femmina più o meno avvenente, anche se nulla vi è né di violento né di molesto) non già per abolire lo sfruttamento (ove tale termine viene usato anche al contrario del suo significato, ossia ove, come nel caso del meretricio, è la donna a sfruttare il natural disio dell'uomo per il proprio personale interesse) o per "difendere le donne" dai "grandi numeri della violenza di ogni genere" (quando la definizione di violenza o molestia è lasciata all'esclusivo arbitrio della persona che ritiene di averla subita, e non vi è alcun obbligo di provare le proprie affermazioni o anche solo di fornire riscontri oggettivi sui fatti comunque interpretati, e quando la prospettiva sugli stessi è soggettiva ed unilaterale, mentre l'altra campana è tenuta a tacere
i numeri che appaiono possono essere tutti gli interi da 0 a + infinito), o per rispetto del libero esprimersi delle differenti visioni del mondo e del pacifico accordo (che è anzi negato nel negare la prostituzione), bensì
per instaurare una loro tirannia (vogliono terrorizzare l'uomo prospettandogli un'esistenza da trascorrere nella sempiterna frustrazione del suo NATURALE bisogno di bellezza e di piacere, giacché l'inappagamento finirebbe per renderlo esistenzialmetne infelice e per permettere alle poche donne belle di sfruttarlo per illuderlo, deriderlo, sbeffeggiarlo, renderlo ridicolo davanti a se stesso o agli altri, deriderlo nel profondo del desiderio, umiliarlo intimamente o pubblicamente, sbranarlo economicamente e sentimentalmente o opprimerlo, e alle tante brutte di tiranneggiarlo comunque, una volta svanita per disparità di numeri e desiderio e proibizione legale della prostituzione la possiblità di raggiungere le altre), per poter impunemente tiranneggiare, irridere, dileggiare o umiliare (in privato e in pubblico) o addirittura opprimere l'uomo sfruttando il suo desiderio di natura o le sue debolezze sentimentali, o ancora i sensi di colpa suscitati ad arte come i desideri, ossia, ancora una volta, esattamente come i più vili degli uomini, per togliere agli altri le armi loro e mantenere le proprie.

Si potrebbe continuare quasi all'infinito con gli esempi, e se qualcuno fra i "non-violenti" (a parole) è davvero sinceramente rispettoso della libertà altrui e dell'altrui dignità egli è circondato da una massa che non ha nulla, in malvagità, meno del più feroce branco di fameliche belve. Il loro voler realizzare le conseguenze più vili e meschine del loro egoismo in modo programmaticamente non violento non implica meno malvagità, semmai più perfidia.
La persona violenta almeno è costretta alla lealtà, in quanto espone se stessa ai pericoli dello scontro che ha provocato e mostra il proprio odio (o la propria volontà di affermazione) in maniera chiara ed esplicita, sì che tutti la possono notare e giudicare. La persona non violenta può invece perseguire i più bassi intenti del proprio egoismo in maniera sotteranea, indiretta e spesso senza rischiare nulla, ma magari ottenendo pure il consenso dei benpensanti, pronti a confondere il mezzo con il fine, l'apparenza con la sostanza, l'accidentale con il necessario.
Purtroppo solo chi ama la nuda e solitaria filosofia, così quale l'ha dipinta il verso del Petrarca, capisce come non sia illecita la violenza, ma la volontà di prevaricazione che sovente la muove come muove tanti altri mezzi.

Tanto è vero quanto dico sull'assurdità del legame biunivoco fra violenza e ingiustizia che lo stato stesso (sia esso democratico, liberale o socialista) predilige l'uso diretto della violenza per far rispettare le proprie leggi. Quando una sentenza deve essere eseguita o un possibile criminale fermato o un colpevole imprigionato, non si manda da chi ha infranto (o ha intenzione di infrangere) la legge un oratore per convincerlo della giustizia delle norme e dell'erroneità del suo comportamento, non si manda un truffatore da bisca ad attirarlo con l'inganno dentro la prigione, non si manda una cortigiana a sedurlo per farlo venire in tribunale o in galera, ma gli si mandano due bei carabinieri alti e solidi per prenderlo di peso e trasportarlo di forza alla sua destinazione. Lo stato fa questo atto di violenza (che chiama coercizione) senza che nessuno se ne lamenti proprio perché considera "giusto" il fine, ossia la tutela dell'ordine pubblico, delle libertà dei cittadini, della legalità e dei diritti tanto dei singoli quanto del popolo nel suo complesso. E' puramente pratico il motivo per cui si insegna ai singoli a non fare altrettanto (l'autorità statale se ne andrebbe lasciando il posto all'anarchia o alla legge del più forte), non ha nulla a che vedere con il fatto che la violenza sia "sbagliata" di per sé. Resta infatti la verità che, come mostrato, vi può essere violenza senza ingiustiza ed ingiustizia senza violenza (ho fatto anche troppi e troppo chiari esempi: molti e soprattutto molte si sentiranno colpiti/e e reagiranno con veementi proteste, le quali avranno l'unico effetto di confermare la giustezza delle mie affermazioni e delle mie analisi).

Con questo panegirico non voglio inneggiare al bellum omnes contra omnes o alla legge della giungla, ma, al contrario, rilevare come molto della giungla sia rimasto nel profondo del pensare, dell'agire e dell'intendere di coloro che si credono evoluti solo perché all'apparenza sono "pacifici".
La volontà naturale che agisce in noi e ci fa bramare ogni cosa senza mai darcene soddisfazione è una causa. La società organizzata in modo tale che molti non possano appagare i propri bisogni naturali, siano essi sensitivi o intellettivi, carnali o sublimati, è un'altra. Probabilmente non possiamo risolvere il primo problema raggiungendo il Nirvana coma auspicato da Schopenhauer e non possiamo risolvere il secondo credendo nelle utopie rivoluzionarie. Noi che, grazie alle escort, appaghiamo il nostro naturale disio di bellezza e di piacere senza permettere che la stronzaggine umana possa introdurre la frustrazione, l'affanno, la tirannia o il turbamento nella vita serena ed autarchica del saggio, possiamo però, mentre tentiamo di raggiungere un equilibrio esistenziale fondato sulla serenità e l'autarchia, su quel vivere sopportabile dato alla tranquillità, allo studio, all'amore della conoscenza disinteressata, alla contemplazione del bello, alla speculazione astratta, o alla sublimazione poetica ed all'estasi artistica, evitare di accettare per verità la menzogna e (come non ci lasciamo condurre dalle donne amate o desiderate) di lasciarci condurre da sedicenti "uomini buoni e pacifici" (o da sedicenti donne pacifiste).
Non è certo eliminando la violenza o, ancora più superficialmente, le armi, che si può ottenere un mondo più giusto, equo e tollerante. E' sulle cause profonde che bisogna agire, non sugli effetti e sui mezzi utilizzati.

SALUTI DALLA SUBLIME PORTA

Cuma, Şubat 02, 2007

MITSUBISHI: IMPERIALISMO GIAPPONESE, MI STUPISCI!

Iersera un tale, uno storico credo, dovendo sostenere la penultima puntata del ciclo "Chung Kuo-Cina, l'Impero di Mezzo", nell'ambito delle trasmissioni di radio2 "Alle Otto della Sera", ha affermato, fra le altre cose che
"multinazionali giapponesi come la Mitsubishi finanziano associazioni culturali di estrema destra, le quali cambiano i libri di storia in senso nazionalista e minimizzano i crimini dell'Impero Giapponese, facendo apparire l'imperialismo di Hiroito come un modo del Giappone di opporsi alle potenze occidentali...."


Ora parlo io.

Non è necessario appartenere all'estrema destra, giapponese o di qualunque altra nazione al mondo, per notare come il fine dell'azione politica e militare del Sol Levante, nella prima metà del secolo ventesimo, fosse creare la cosiddetta "Sfera di Co-Prosprità Asiatica", ossia un impero militare ed economico-commerciale in Asia, sul modello di quelli europei (allora ben esistenti e funzionanti) ma condotto, per la prima volta, dagli stessi Asiatici. Assicurarsi le materie prime, il controllo delle rotte commerciali, un ampliamento del mercato interno, nuova manodopera per l'industria e l'esercito, nonché un'influenza politica e militare dominante su un intero continente erano i motivi (ampiamente considerati legittimi in Europa e chiamati "sacri egoismi delle nazioni") per i quali le potenze europee non solo consideravano l'espansione coloniale (specie in asia, dopo l'indipendenza delle Americhe) una priorità, ma arrivavano persino a conflitti di ogni genere, fino allo scontro della Prima Guerra Mondiale. Interessante notare come in quel conflitto, quando la "minaccia" per Francia e Gran Bretagna era costituita dalla Germania del Kaiser, potentissima sul continente per forza militare, industriale ed economica, ma debole nelle colonie, e che per questo reclamava la sua "fetta di torta", il Giappone venne considerato utile e nobile alleato (giacché i suoi interessi espansionistici in Asia confliggevano con quelli tedeschi, tanto che il Kaiser, una volta che volle tranquillizzare la Gran Bretagna preoccupata per la crescente potenza navale tedesca, dichiarò, senza mezzi termini, come la flotta d'Alto Mare fosse diretta non contro l'Inghilterra, ma contro il Giappone). Sparita, con la sconfitta tedesca nel primo conflitto mondiale, la minaccia coloniale germanica in Asia e resasi evidente l'autonomia (politica e militare) giapponese, i medesimi interessi nipponici (che prima erano stati incoraggiati e benedetti) vennero fortemente osteggiati ed addirittura (come ora avviene) criminalizzati dalle potenze vincitrici. Quelle stesse potenze che pochi decenni prima si erano letteralmente spartite quasi per intero il territorio della Cina ai tempi della "guerra dei boxers" si lamentavano ora del fatto che il Giappone "prendesse la sua fetta" nella parte orientale, prospicente il suo mare. E' sempre stata un'etica ambivalente quella degli Occidentali. Nè tanto vale di più quella cinese, dato che per tradizione la Cina è sempre stata imperialista e Marco Polo stesso ci narra del suo tentativo di invasione dello stesso Giappone, poi respinto dai Samurai.
Quanti gridano alla condanna dell'imperialismo Giapponese in maniera diversa dagli altri colonialismi (per i quali tacciono o parlano flebilmente) o addirittura come "crimine contro l'umanità" dovrebbero pacatamente spiegarmi perché la Francia, l'Inghilterra, l'Olanda e, prima di loro, la Spagna e il Portogallo, avrebbero dovuto avere PIU' DIRITTI di creare un impero coloniale di quanto non ne avrebbe dovuti avere il Giappone.
Forse perché i Giapponesi non sono europei? Per "inferiorità razziale"? Perché sono dei "musi gialli"? E poi il razzismo sarebbe a destra?
Quanti sostengono la condanna per crimini contro l'umanità degli alti ufficiali Giapponesi e accusano persino l'Imperatore Hiroito, già per il fatto di sostenere l'imperialismo, dovrebbero avere il coraggio di far sedere sul banco degli imputati magari anche le due "venerate" regine della Storia Inglese, Elisabetta I e Vittoria.
Queste graziose signore, infatti, hanno, in tempi e fasi diversi ma altrettanto cruciali (la fine del Cinquecento e dell'Ottocento) posto le basi del dominio coloniale (e mondiale) inglese, specialmente navale, con metodi che non sfigurano affatto davanti ai vituperati Giapponesi. La prima, nelle periodo della prima modernità e delle prime espansioni coloniali europee, rilasciava, con preciso intento politico e su larga scala, patenti di corsa a personaggi come Francis Drake ("gentiluomini in patria a pirata sugli oceani") al fine di esercitare la pirateria contro le navi dell'Impero di Spagna (allora il più potente). Per suo volere la violenza, la rapina, l'omicidio, lo stupro, il furto ed il sacchieggio (nonché il massacro di civili o di popolazioni indigene) divennero così atti legalizzati che principiarono le fortune della migliore aristocrazia britannica, contribuirono a ridurre la potenza spagnola e predisposero l'avvento del dominio inglese sui mari e sulle colonie di tutto il mondo (solo quando l'Inghilterra divenne la prima potenza i pirati vennero banditi). Alla regina Elisabetta interessava solo che venissero rispettate le nobildonne inglesi, e che si seguissero leggi e morali inglesi sulla terraferma: sui mari si poteva anzi si doveva essere pirati. Tanto bastava ad essere gentiluomini. La regina Vittoria, invece, il cui nome è legato allo splendore dell'Impero (così come quello di Elisabetta ne è legato alla nascita) si rese invece protagonista, a fini meramente mercantilistici, della più colossale operazione di narcotraffico mai ordita da uno stato (ma anche dalla più potente delle narcomafie fino ad oggi). Non voglio raccontarla io: vi cito la fonte neutrale di Wikipedia
"Con la prima guerra dell’oppio (1839-1842) si fa iniziare l'era dell'imperialismo europeo in Cina che porterà l'Impero cinese a diventare una semi-colonia delle potenze straniere. La guerra vede infatti la sconfitta delle truppe cinesi da parte degli inglesi, grazie alla superiorità tecnologica di questi ultimi e allo stato di corruzione e declino della dinastia Qing (o Manciù ) e l'imposizione di condizioni favorevoli agli inglesi nei rapporti con la Cina con il trattato di Nanchino. La Compagnia delle Indie orientali, che agiva per conto delle autorità britanniche, aveva dato il via negli anni precedenti a una massiccia offensiva commerciale per lo smercio dell’oppio in Cina. Scopo del commercio dell’oppio era rovesciare lo squilibrio della bilancia dei pagamenti tra Gran Bretagna e Cina, che nella seconda metà del settecento era decisamente favorevole a quest’ultima, nella proporzione di uno contro sei. La vendita dell’oppio ebbe gli effetti che la Compagnia delle Indie si augurava: per la Cina però fu un disastro. La corruzione aumentò, il consumo di oppio divenne una piaga sociale. Il deflusso di argento dalle casse dello Stato portò alla svalutazione del rame ed all’aggravarsi della condizione dei contadini cinesi, che venivano pagati in rame per i loro prodotti ma dovevano versare allo Stato le tasse in argento. La situazione metteva in pericolo la stessa stabilità dell’Impero Cinese. I vari divieti che le autorità emanarono ebbero scarsi effetti. Nel 1839 venne inviato a Canton il commissario imperiale Lin Zexu, che affrontò con determinazione il problema e fece requisire e bruciare ventimila casse d’oppio appartenenti ai mercanti inglesi e americani. In risposta, le truppe britanniche attaccarono la Cina, dando inizio alla guerra. Il trattato di Nanchino che concluse la guerra nel 1842 garantiva ai britannici l’apertura di alcuni porti (treaty ports), tra cui Canton e Shanghai, il libero accesso dell’oppio e degli altri loro prodotti nelle province meridionali con basse tariffe doganali e stabiliva la cessione della città di Hong Kong all’impero inglese. Nei treaty ports gli inglesi potevano risiedere e godevano della clausola di extraterritorialità (potevano essere portati in giudizio solo davanti a loro tribunali consolari). Il trattato prevedeva anche la “clausola della nazione più favorita”: se la Cina avesse accordato privilegi a un altro paese straniero, questi sarebbero stati estesi automaticamente anche agli inglesi. Pochi anni dopo la Francia e gli Stati Uniti avrebbero estorto accordi simili a una Cina ormai in declino. Era iniziata l’epoca dei trattati ineguali che sancivano la supremazia degli stranieri sull'Impero Cinese."

Dato che questa è l'origine della potenza britannica e non troppo diversa sarebbe quella dell'Impero americano (non è qui il caso di richiamare schiavismo, sterminio degli indiani, successione interminabile e fitta di guerre imperialiste dall'Ottocento ai giorni nostri), ossia delle medesime forze che condannarono e sconfissero l'Impero Giapponese non si capisce quale autorità morale, civile o storica avessero i giudici della "Norimberga giapponese".

A nulla varrebbe poi citare Pearl Harbour. Il motivo stesso dell'entrata in guerra degli Stati Uniti nella secondo conflitto mondiale era già stabilito da tempo: fermare l'espansione giapponese in Asia per sostituirvi (una volta colassato l'impero britannico) quella americana. Non si spiega altrimenti il fatto che gli Usa abbiano aspettato che la Gran Bretagna fosse quasi al colasso nella guerra contro la Germania per scendere in campo. Solo così, infatti, avrebbero potuto dettare le regole al tavolo della pace (la de-colonizzazione segnò la nascita della superpotenza americana che si sostituì alla Gran Bretagna, la vera sconfitta, nei fatti, del conflitto, al di là delle apparenze, più della stessa Germania, la quale partiva da nazione già sconfitta nel 1918 che tentava di ribaltare le sorti).

Quindi è una balla colossale che gli Usa scesero in guerra con intenti "etici" per "sconfiggere il nazismo". Quello è stato sconfitto dall'Unione Sovietica (e per cause sempre di natura geopolitica e non morale, correlate alla rottura del precedente accordo fra Hitler e Stalin), mentre il grosso dell'impegno statunitense è stato sempre diretto contro il Giappone (su cui infatti finirono le atomiche).

Erano i progetti di espansione americana in Asia il motore scatenante. Per fermare la crescita (militare, industriale e politica) del Giappone gli Usa e la Gran Bretagna imposero all'Impero del Sol Levante l'embargo petrolifero. Gli alti comandi nipponici constatarono che, per tale fatto, il Giappone, privo di risorse energetiche naturali, avrebbe avuto, con le riserve, un'autonomia di tre anni in caso di pace, ed un anno in caso di guerra. Poiché gli angloamericani erano irremovibili sull'embargo, seguiva secondo necessità che la guerra agli Stati Uniti non solo era inevitabile, ma doveva essere immediata. Solo con un attacco a sorpresa ed in grado di distruggere il potenziale navale a stelle e strisce il Giappone avrebbe avuto una speranza di prevalere in un conflitto contro una potenza industriale e militare ancora molto superiore. Ciò è onestamente riconosciuto da diversi storici militari inglesi. Se i Giapponesi fossero riusciti a distruggere l'intera flotta americana (soprattutto le portaerei) avrebbero potuto trattare con gli USA da una posizione di forza, evitare un conflitto lungo e giungere ad un accordo per l'eliminazione dell'embargo petrolifero. Questi erano i fini giapponesi. Non c'entrano la morale, l'etica, il criimine. Si tratta di mera necessità. Machiavelli docet. Chi vuole negarlo, in nome di qualsiasi idea, o è uno stupido o è un ipocrita.

Il parlatore "filocinese" di radio2 cercava poi di bilanciare le proprie affermazioni sostenendo che anche i Cinesi modificano la storia dicendo che il vincitore della seconda guerra mondiale è stato Mao per cui la vittima di ogni revisionismo è la verità storica. Per me dovrebbe saltare agli occhi che la vittima (di questo ragionamento) è la ragione. Che si presenti positivamente o negativamente l'imperialismo giapponese è soltanto una interpretazione (più o meno accettabile, più o meno criticabile, più o meno moralmente condannabile) di un dato storico, mentre che Mao abbia vinto la guerra è una semplice invenzione

Passava poi questo storico radiofonico alla mozione degli affetti, citando il cosiddetto "stupro di Nanchino", che questi nuovi manuali Giapponesi vorrebbero a suo dire minimizzare, o non sufficientemente sottolineare. Forse perché amante della lirica mi venne da rispondere a voce per le rime: "e chi ricorda lo stupro di Berlino?" Quando l'armata rossa era alle porte della capitale germanica, Stalin proclamò ai suoi soldati "le donne sono vostre". Praticamente nessuna creature femminile in città, dai 12 ai 50 anni, riuscì a sfuggire all'orrore. Questo fatto non solo non è sottolineato o è minimizzato dai nostri "politicamente corretti" manuali di storia occidentali, ma è addirittura TACIUTO totalmente. Lo scoprì per caso guardando un documentario della BBC (gli Inglesi almeno, pur essendo stati in passato pirati, sono nel presente spesso molto onesti e corretti nella scienza storica), nel quale una delle vittime sopravvissute dichiarava: "eravamo tutti molto ingenui all'epoca, sia i ragazzi che le ragazze, non era come oggi, per cui il trauma fu, se possibile, ancora maggiore, ma quel che fu peggio, è stato il dover tacere per vent'anni: non avevamo diritto ad essere vittime e nemmeno alla comprensione, dovevamo solo provare vergogna, perché eravamo le donne di Hitler, e lamentarsi sarebbe stato considerato rivendicare il nazismo o ribellarsi ai sovietici".
Situazioni simili si sono verificate in Italia (ove hanno costituito la trama, ad esempio, della "Ciociara") ad opera delle truppe marocchine sotto comando francese al seguito dei "liberatori" alleati. Sempre in un documentario inglese un reduce tedesco raccontava: "a distanza di 20 anni tornai sui luoghi di combattimento in Italia dopo lo sfondamento della linea Gustav, e una signora sulla quarantina mi corse incontro ad abbracciarmi: io non la riconscevo, ma lei sì. Era la ragazza a cui nella primavera del '44 raccomandai un nascondiglio, dicendole che stavano arrivando i marocchini".
Nessuno, in nessun manuale di storia, si sogna di sminuire o addirittura condannare la causa alleata sulla base degli stupri compiuti dalle truppe al suo seguito. Ciò si fa invece con il Giappone.
Condannare lo stupro delle donne del nemico come crimine contro l'umanità è una cosa, ma pretendere che ciò sia un crimine soltanto in alcuni casi specifici e solo quando è compiuto da alcuni eserciti è un'altra. E si chiama falsità.
Questo non giustifica i giapponesi, ma nemmeno chi utilizza questi fatti per condannare in particolare il loro imperialismo (assolvendo, o dimenticando di condannare, gli altri).

Quanto alla questione dei campi di prigionia giapponesi, troppo spesso paragonati ai lager nazisti, si deve osservare quanto segue. Mentre i lager erano campi di sterminio, nei quali programmaticamente tutti coloro i quali venivano considerati indegni di vivere (perché "non conformi", per razza, cultura o costumi, al modello sociale imposto dal regime) erano rinchiusi attendendo la sistematica morte, massificata ed industrializzata, i campi giapponesi erano puri e semplici campi di prigionia. Nella cultura giapponese l'uomo che si arrende non è degno di rispetto. Non vi è in essa la "pietas" virgiliana per i vinti. E' più simile all'etica guerriera dell'Antica Grecia. Ciò non la fa "inferiore" o più "barbara", come pretende il pregiudizio ebraico-cristiano radicato in occidente, ma semplicemente "diversa". E chi parla di rispetto delle diversità culturali non può poi nascondersi dietro un dito, condannando come crimini (addirittura come il nazismo) fatti direttamente connessi ad una visione del mondo diversa dalla sua. Per il giapponese chi, cessando di combattere, rompe il giuramento di fedeltà al proprio signore, alla propria patria, commette una scelleratezza pari a quella che per noi occidentali sarebbe l'uccisione dei genitori. I prigionieri non erano condannati a morte, ma trattati duramente e senza rispetto. Questo, se è certamente un crimine in una cultura individualista e liberale, non lo è in quella guerriera giapponese. Per questo, al contrario del nazismo, che non può essere giustificato neppure col più ampio relativismo culturale (non rientra nella storia e nella cultura germanica l'orrore di sterminare innocenti, seguendo esso non già da una necessità storica o da una visione eroica, bensì da una ideologia fin da principio pianificata in maniera criminale) il trattamento dei prigionieri da parte dei Giapponesi, seppur durissimo, non può considerarsi in sé crimine contro l'umanità (pur se violazioni dei diritti umani certamente vi furono, come però vi furono anche fra gli alleati). Interessante sapere a questo proposito come rientra fra la "civiltà" americana il fatto che inermi e pacifici cittadini venissero fatti sparire e rinchiusi in campi non certo più accoglienti di quelli giapponesi con l'accusa di essere "collaborazionisti" del Sol Levante (solo perché di quella origine etnica, benché cittadini americani). In cosa si distingue questo dal razzismo? Anche Hitler del resto spesso giustificava i suoi crimini dicendo: "ma gli ebrei, in quanto tali, possono complottare col nemico, ergo vanno rinchiusi". In cosa poi i campi di prigionia americani (non solo per i giapponesi, ma anche per tedeschi e italiani) dove si moriva di fame o di angherie, erano migliori di quelli accusati dalla storia nei confronti del Giappone? Ci sono racconti terribili di chi è stato prigioniero degli USA ed ha deciso di non collaborare, fedele alla causa dell'Asse. Del resto, racconti non certo edificanti in quanto al rispetto umano dei prigionieri vi sono ancora oggi in quel di Guantanamo.

Ed anche oggi la giustificazione è "noi siamo nel giusto e gli altri sono cattivi".

Io credo che nell'odio e nella condanna contro il cosiddetto imperialismo giapponese non vi sia altro che la rabbia verso un popolo il quale, più e prima degli altri popoli asiatici, ha saputo apprendere le tecniche "geopolitiche" degli europei, assimilarne elementi culturali, economici, tecnologici e militari e sfruttare tutto ciò a proprio vantaggio, per far progredire la propria civiltà e la propria potenza fino a rivaleggiare con gli stessi occidentali. Questo gli europei non sopportano: che un popolo asiatico abbia ardito sfidarli con le loro stesse armi.


SALUTI DALLA SUBLIME PORTA

Perşembe, Şubat 01, 2007

AVVERTIMENTO DA COSTANTINOPOLI

Conformemente al soprannome di "Giusto" a me conferito dagli storici, per il fatto di aver lasciato progredire l'Impero Ottomano più sul campo artistico, culturale, economico e civile che non su quello territoriale e militare (dopo che mio Padre Maometto II "il Conquistatore" prese Costantinopoli e distrusse il Romano Impero d'Oriente), fino a questo momento mi sono proposto nel virtuale in maniera pacata (per quanto possibile), riflessiva ed aperta al dialogo. Ho cercato, nell'ambito delle idee, di costruire più che di distruggere, e distruggere laddove c'era da costruire, nel mondo dello spirito.
Da qualche tempo, però, pare si aggirino in rete personaggi i quali propugnano misure coercitive per i seguaci del Sacro Antichissimo Culto di Venere Prostituta. Questo significa che propongono di attuare sanzioni penali dirette a colpire comportamenti afferenti la vita privata e sessuale di persone adulte e consenzienti, limitando, de facto e de iure, la loro libertà di agire e di pensare, le loro scelte esistenziali, di lavoro e di piacere, e la loro possibilità di appagare i propri bisogni, ideali, materiali o estetici, di ricercare la felicità (o l'illusione di essa), nel modo più vicino alla loro unica ed individuale sensibilità, al loro personale temperamento, al loro irriproducibile sentimento dell'esistenza, o anche solo di vivere "sopportabilmente", secondo il loro personalissimo e insindacabile giudizio.

Uno stato liberale dovrebbe riconoscere l'esistenza di una sfera privata (all'interno della quale ricade ovviamente la sessualità) nella quale non si permette di legiferare al di là del suo dovere di assicurare ad ognuno il diritto a disporre a piacimento del proprio corpo (e quindi anche di usarlo come "mezzo" di arricchimento, se così decide), di scegliere come vivere la sessualità (se come passione amorosa, come mero divertimento o come fatto estetico puro di cui godere, come a teatro, pagando il biglietto), e a non essere costretto da "violenza, minaccia, inganno o mediante abuso di autorità" (nemmeno se questa è l'autorità dello stato). Uno stato liberale dovrebbe altresì lasciare liberi i singoli individui di stabilire arbitrariamente le proprie regole nella loro vita privata, e di seguire la concezione morale e la visione del mondo da loro ritenuta più opportuna, almeno finché si tratta di persone adulte e consenzienti (consenzienti per qualsiasi personale motivo, razionale o irrazionale, di calcolo o di piacere), le quali non danneggiano sensibilmente ed oggettivamente il prossimo.
E' tipico dello stato totalitario invece voler legiferare fin nella camera da letto, anche quando le persone coinvolte non sono oggettivamente costrette, sono consenzienti e non danneggiano sensibilmente ed oggettivamente il prossimo, ma vengono perseguitate perché il loro comportamento sarebbe "immorale" rispetto all'ideale imposto dalla legge. E' questo infatti un metodo (legiferare sulla sessualità fra persone adulte e consenzienti) per controllare le anime, utilizzato da tutti i totalitarismi, dalla controriforma al nazismo, dal comunismo fino al nuovo capitalismo-totalitario della Cina.

Quando si sostiene con propaganda orale, scritta e fattuale questo metodo, si esce dal campo delle idee, e si entra in quello della costrizione e della violenza. Il fine infatti delle parole, in tal caso, non è più discutere di idee, scambiarsi opinioni, confrontare diverse visioni del mondo, giudicare ad un livello spirituale comportamenti, scelte e stili di vita, o comparare differenti sensibilità quanto alla bellezza, alla filosofia, all'amicizia o all'amore sessuale, bensì colpire con forza di una pretesa legge (e dunque di violenza) una visione, un comportamento, un'attitudine personale alla vita arbitrariamente ritenuta "errata" (o non conforme alla propria).

A questa formale e verissimo manifestazione di violenza (anche se legale) si può solo rispondere con la violenza corrispondete e più adatta allo scopo. Rispondere in altro modo è indegno di chi ha letto e stimato Niccolò Machiavelli. Poiché il fine risulta essere il mantenimento, l'accrescimento, la sicurezza e la grandezza del nostro stato di Libertà, "li mezzi saranno comunque iudicati onorevoli e da ciascuno laudati".

Io non sono un cristiano, non porgo affatto l'altra guancia. Credo che, mentre li profeti armati vinsono, li non armati ruinorono (ed il disarmato Gesù di Nazaret, rispetto invece all'armato Moisé, ne fu un esempio). Ridicolo e indegno persino dell'uomo è pensare di difendere la propria libertà con marce della pace o discorsi pacati. Viene un momento in cui la Libertà dice come la leonessa di Brescia: "chi mi ama, s'arma". Quando gli interessi confliggono inesorabilmente e i nostri nemici minacciano, già parlando "ore rotundo", la nostra libertà di agire, di sentire e di scegliere, si può solo rispondere con "la bocca rotonda del cannone". Per questo, finché parliamo di filosofia, rimango tranquillo ed amante del ragionare quietamente, e del discorrere con grazia e leggiadria, ma allorquando si propugna la coercizione nei confronti miei o di miei fratelli in Venere, rispondo a quella che ritengo una vera e propria "dichiarazione di guerra" (infatti l'intento è colpire nel REALE me e i miei fratelli) con corrispondenti ATTI DI GUERRA.

Non pensino dunque tutti coloro i quali (o: le quali) si sentono in diritto, dietro un monitor, di continuare a propagandare idee illiberali e liberticide nei miei confronti, di farlo impunemente o in tutta sicurezza perché (a loro dire) sono "solo parole". Visto che quelle parole implicherebbero un'azione conseguente reale ai miei danni (ad esempio, misure coercitive) io li preverrò con risolutezza.

Non si pensi nemmeno che io intenda minacciare qualcuno in questa nazione protetta da mille leggi intricate e contraddittorie. Ciò danneggerebbe più me che loro. Io PROMETTO invece che, chiunque (maschio o femmina, giovane o vecchio, bianco o nero, di destra o di sinistra: non faccio distinzioni) diffonda idee proibizioniste in ambito di meretricio (ma anche in altri ambiti afferenti la libertà personale) sarà considerato obiettivo militare (esattamente come un soldato, costituendo la sua propaganda dichiarazione di guerra nei miei confronti) qualora dovesse varcare i confini nazionali e recarsi in luoghi ove la mandria di giudici, avvocati e ministri "occidentali" (capaci di incarcerare per cinque anni un ragazzo innocente con l'accusa di pedofilia basata sullo su racconti menzogneri dei sempre protetti donne e bambini, capaci di privare un padre di casa, famiglia, roba e soprattutto figli, chiamando il ciò giustizia ed emancipazione, capaci di difendere in maniera pseudo-legale e pseudo-galante la donzella di turno, mentre questa può permettersi tutto, qualsiasi derisione profonda, qualsiasi umiliazione pubblica o privata, qualsiasi ferimento intimo, qualsiasi irrisione nel desiderio, qualsiasi arroganza, qualsivoglia crudeltà o perfidia magari mascherata da nobile alterigia e financo ogni invenzione arbitraria o accusa menzognera, per capriccio, ricatto, vendetta ingiusta o semplice sfoggio di potere, senza dover temere nulla, dato che, se un uomo reagisce corrispondentemente, come sarebbe giusto, viene appellato da tutti molesto, violento, bruto, irrispettoso delle donne o comunque "anti-cavalleresco" e disprezzato, capaci di considerare più grave pagare 40 anziché 50 percento di imposte, ammesso che entrambe le percentuali siano etiche a fronte di quanto lo stato dà in cambio al singolo cittadino-contribuente, piuttosto che rubare, capaci di liberare veri stupratori, ladri e terroristi mentre imprigiona liberi pensatori) non ha giurisdizione.

Nella fattispecie, laddove, o per la mancanza di accordi internazionali completi, o per la loro lentezza ed inapplicabilità di fatto in casi di minore interesse, non solo i vari giudici, ministri ed avvocati non hanno potere, ma la loro stessa vita vale meno di quella di un pesciolino rosso nell'acquario (ringrazio la madonna che mi ha suggerito questa bella immagine), io garantirò a tutti coloro i quali (o le quali) propongano misure coercitive nei miei confronti di ritrovarsi in sala rianimazione per un periodo pari o superiore a quello che essi stessi (o esse stesse) vorrebbero io passassi agli arresti, e di deturparli, nel corpo e nello spirito, in maniera indelebile e corrispondente a quello che sarebbe l'indelebile segno su chi per la prima volta finisca in carcere (come essi o esse vorrebbero).

Per raggiungere tale fine mi avvarrò degli uomini e dei mezzi che più riterrò idonei allo scopo.

Al terrore (delle anime proibizioniste, ed ho ampiamente spiegato il motivo, sia qui, sia in commenti altrove) io rispondo col terrore, alla volontà di coercizione con altrettanta coercizione e ad atti di guerra con atti di guerra.

La mia è una reazione. Nessun sofismo e nessun ragionamento politicamente corretto o irriverentemente pacifista potrà cambiare questo fatto.
Io ho sostenuto la libertà di tutti, fino a quando l'avversario non è divenuto nemico proponendosi di limitare la mia. Io divengo violento solo per reagire alla violenza
ed odio per troppo amore del bene.

Non accetto dunque rimproveri, nemmeno da amici/amiche, sul fatto di rispondere con la forza a delle semplici parole. Dato che quelle parole sono il principio e l'annuncio della violenza (non cambia se la si pretende legale) nei confronti miei e dei miei fratelli al fine di limitare la nostra libertà, io devo opporvi l'argomento della forza, l'unico utilizzabile in questo caso.
Respingo dunque risolutamente l'accusa di "essere" un violento. Non sono io il primus movens.
Per me, come insegna la storia del Pirata belliniano, chi uccide per vendetta non è un assassino, almeno se la forza del suo ideale e della sua spada si unisce al coraggio di rivendicare l'uccisione.

FINE DEL COMUNICATO DELLA SUBLIME PORTA