La Sublime Porta

"Signori e cavallier che ve adunati/ Per odir cose dilettose e nove,/ Stati attenti e quieti, ed ascoltati/ La bella istoria che 'l mio canto muove;"

Cuma, Mart 22, 2024

 Arabia Saudita chiama, 

Bologna risponde




Diversi anni fa, un mio collega ingegnere venne arrestato e trattenuto per qualche tempo all’aeroporto di un paese arabo dove si trovava per lavoro per aver “fissato con insistenza” una donna del luogo. 

Ora pare che la cosa possa avvenire anche da noi. Qual’è la differenza? La parità di genere! Nel senso che nei paesi arabi questa c’è in ambito visivo: tanto gli uomini quanto le donne devono coprirsi e non possono guardare con sguardo impuro. Mentre nel nostro essa non c’è-

La donna ha il diritto a mostrare e l’uomo il dovere di non guardare. Ella può sfoggiare liberamente (per vanità, capriccio, moda, autostima, accrescimento di valore economico-sentimentale, o gratuito sfoggio di preminenza erotica) le proprie grazie, nel modo che vuole e per il tempo che vuole ed egli non può altrettanto liberamente guardare quanto (da lei) mostrato (secondo natura).

Ella può "tenere le cosce (o le tette) di fuori" passando sulla pubblica via e egli non può, nel medesimo luogo, rivolgere ad esse lo sguardo e il disio (da lei per prima oggettivamente suscitato con il fatto stesso di mostrare pubblicamente quelle fattezze che, in conseguenza non della volontà maschile, ma delle disparità di desideri volute dalla natura, hanno valenza sessuale).

Il tutto giustificato con idiozie come la “parità di genere” o la presunta “raffinatezza” (e “non sessualità”) del mostrarsi seminude (mentre il guardare le nudità sarebbe “da maniaci”).

In realtà sono entrambi desideri di natura! E' solo ipocrisia il fatto che la donna presenti il "mostrare le belle gambe depilate” (o “il seno rifatto”) non come istinto (qual è) ma come "cultura" ( mentre al contrario chiami "fare il porco" il guardare secondo natura le stesse forme da lei mostrate).

Come si fa a negare che nel diritto a “vestirsi come ci pare” si nasconda il legittimo e naturalissimo disio femminile (magari inconscio) di farsi guardare (anche quando la mente cosciente non ha intenzione di incontrare o conoscere uomo alcuno, perchè l'istinto non può saperlo)? Ci considerate stupidi? Sappiate che odiamo la vostra ipocrisia! Vestitevi e agite come vi pare! Possiamo accettare ciò, ed evitare il burqua e l’altre cose e restrizioni talebane, se ovviamente si riconosce il corrispondente diritto a guardare ciò che la donna per sua decisione autonoma ha deciso di mostrare. Altrimenti si tratta di uno squilibrio inaccettabile. Se io devo “trattenermi” dal guardare (e non si capisce perche’) la donna si deve “trattenere” dal mostrarsi (secondo me non e’ giusto neanche questo in un mondo non talebano, ma segue coerentemente dal primo divieto), come avviene presso gli Arabi. Io speravo in un occidente emancipato in cui le donne potessero farsi guardare senza essere violentate e gli uomini guardare senza essere accusati.


Pensate a una vignetta in tre tempi…

Il presente



Nel primo, “il presente”, c’è questo cartellone pubblicitario femminista/progressista. Sotto il quale un uomo dice: “Ma che cavolo di discorso è il tuo? Tu puoi mostrare ed io non devo guardare quanto mostrato? Le tue tette, le tue gambe, il tuo culo non sono sessuali quando tu li mostri in pubblico e lo diventano solo quando io guardo? E’ illogico oltreché iniquo” E la donna che risponde: “oggi si chiama parità di genere”.

Il futuro delle femministe



Nel secondo, “il futuro delle femministe”, c’è lo stesso cartellone con indicato (in inglese) che il “visual harassment” è punito come ogni altra forma di stupro, che sfiorare gambe, sederi e seni delle donne anche solo con lo sguardo è violenza e che al terzo reato scatta la castrazione per legge. La stessa donna (a seno nudo) dice (frase ripresa da un forum, nel 2008, all'indomani della prima condanna in Italia per "sguardo insistente al seno"): “il fatto che io donna, mostri il seno non prevede ovviamente, che tu manico possa permettermi di mostrarmi l'uccello, ma guarda, neanche di fare pensieri sconci sulle mie tette. lo trovo disgustoso, il sol pensiero mi fa venire rabbia. Quello che mi dispiace è che molte donne non reagiscono in modo adeguato a queste situazione...dovrebbe esserci come pena il taglio del pene, in pubblico…” E gli uomini zitti e buoni a testa bassa.

Il futuro che sarà



Nel terzo, “il futuro che sarà” ci sono un uomo con la barba e il turbante, una donna col velo e lo sguardo basso e nessuna spiegazione. Solo: “col tempo…”





Perşembe, Şubat 15, 2018

MEGLIO STARE FERMI CHE FARE PASSI NELLA DIREZIONE SBAGLIATA!


Risposta in 6 capitoli all’articolo firmato da Giorgio Terruzzi (e scritto da Laura Boldrini?) sul numero di Autosprint del 06/02/2018 a proposito della decisione di Liberty Media di cancellare la presenza delle “ombrelline” dalla griglia di partenza dei Gran Premi di Formula 1, in nome del politicamente corretto femminil-femminista e della caccia alle streghe post-“caso Weinstein”. 

DEDICA:

 A Giorgio Terruzzi:


 E Laura Boldrini:


 "Così moiano capovolti coloro che capovolgono la verità" (Il Vescovo Spadone in "Brancaleone alle Crociate")





0.       INTRODUZIONE
Un giornalista sportivo dovrebbe, intelligentemente, limitarsi a dissertare dello sport di cui è appassionato ed esperto, evitando di intraprendere discussioni su storia, filosofia, politica e costume, perché, in primis, fa perdere tempo al lettore su argomenti diversi da quelli per cui è stato acquistato il giornale, in secundis rischia di indispettirlo propinandogli, sotto l’aurea etichetta “informazione”, una certa visione del mondo a cui ogni libero pensatore ha tutto il diritto di non aderire ed infine rischia, proprio su quest’ultimo aspetto, di essere platealmente confutato dai lettori, i quali non sono tutti superficiali scolaretti cui si può insegnare come “verità” (e pure col tono della ramanzina) una narrazione del tutto arbitraria pur se, ahimè, oggi universalmente diffusa presso i media mainstream (leggasi: controllati da certi ambienti vicini alla finanza da sempre senza patria ma oggi con sede in USA).

1.       LA PEGGIOR MITOLOGIA PROGRESSISTA FA BRECCIA IN QUELLO CHE FU UN GIORNALE DA CORSA
La mitologia del “progresso storico” (che non va affatto confuso, come si tende a fare da due secoli, con il fatto del progresso scientifico, sviluppatosi, semmai, “nonostante”, e non “grazie a”, il primo), quale è riuscito a sopravvivere alle smentite tanto della grande storia (abbiamo visto tutti dove hanno condotto le utopie del “sol dell’avvenire”) quanto della piccola attualità quotidiana (ove tutto si può dire delle donne tranne che siano le “creature svantaggiate ed oppresse” quale emergerebbe dalla grande menzogna femminista di cui la presidente della Camera è solo l’ultima strillante, piagnucolosa, “coccodrillesca” epigona), si fonda sull’assunto hegeliano secondo il quale tempo della storia sarebbe una linea retta sulla quale le varie “figure dello spirito” sarebbero fatalmente destinata a muoversi “a senso unico”, secondo un “inevitabile” sviluppo “fenomenologico”, verso un altrettanto inevitabile “fine ultimo”.
Nella visione del mondo che sento come mia (in parte ispirata dal principale “allievo” di Schopenhauer: Friedrich Nietzsche), invece, il tempo della storia è sferico, e in ogni momento l’uomo può decidere se proseguire tornando sempre sullo stesso punto o virare cambiando direzione ed esplorando nuovi spazi. E la “decisione” (spesso nemmanco consapevole) non è determinata da nulla di “teleologico” (per chi sa cosa significhi: finalistico, stabilito dalla pre-scienza divina), ma è puramente casuale (come casuale, ah Epicuro, è il mondo) e dipende, di volta in volta, dal risultato dello scontrarsi o del congiungersi di diverse forze puramente umane e puramente storiche.
Ne consegue che per me non c’è nessuno “sviluppo storico”, nessuna sedicente “evoluzione umana” da seguire “necessariamente”. Specie se si tratta di convincermi a cancellare, dannare e condannare la parte più intima e vera di me (che, Nietzsche docet, è sempre sicuro e ben radicato istinto, mai “superficiale” e “fallace” “ragione”).
Quando parla di “evoluzione autentica”, Giorgio Teruzzi dimentica la grande lezione nietzscheana secondo la quale l’autenticità non può risedere nella cosiddetta “Ragione”, intesa come i(la quale, per il semplice fatto di prendere uno sviluppo lineare e logico in qualcosa di intimamente circolare, anzi labirintico, e necessariamente ricco di contraddizioni, come il pensiero e l’animo umani, ha sempre un fondo di mistificazione e tradimento, ben sintetizzato nel motto “ogni parola scritta è una menzogna”), né, più in generale, in costruzioni culturali, ideali o ideologiche (le quali, tanto più pretendono di dare ordine al mondo e senso alla vita, tanto più mistificano l’uno e tradiscono l’ altra), bensì in sani, profondi ed infallibili istinti.
Anche il termine stesso di “evoluzione”, se vuole avere un significato non mistificatorio, deve ricondursi agli “antichi” istinti (i quali dalla nascita della vita permettono a questa, specie per specie, di mantenersi, diffondersi, selezionarsi, perpetuarsi ed accrescersi), piuttosto che alle “moderne” facoltà umane (sedicenti “superiori”, ma in realtà, proprio perché più recenti nella scala temporale dell’evoluzione, ancora fallibilissime).
Sebbene certe “teorie gender” (esse sì, antiscientifiche, in quanto negatrici della dimostrabilissima distinzione biologica fra i sessi) vogliano far credere il contrario, il naturale desiderio dell’uomo per il corpo della donna è natura, non cultura. Anzi, è una delle poche variabili umane a non poter mutare per contratto sociale, uno dei pochi esempi di “valore umano universale” (ovvero accumunante i popoli più diversi alle più diverse latitudini). E’ quanto di più profondo e vero (o vogliamo dire “autentico”?) esista al mondo. Proprio il sorgere del pensiero “con una così chissà cosa farei”, di cui Teruzzi “ci” (o “si”?) accusa come di una deviazione o di una colpa, ha tutta naturalità di un fiore che sboccia pei campi, di una cascata che irrompe alla calura, dell’avvento della primavera o (se vogliamo citare Oscar Wilde per non essere tacciati di omofobia) del “riflesso sull’onda lucente del mare notturno di quella conchiglia d’argento che chiamiamo luna”.
Per questo pretendere da tutti noi di “non sentirsi autorizzati, alla vista di una bella donna, a pensare che, con una così, chissà cosa farei” significa voler far sentire in colpa l’uomo non per quello poi che fa o che dice, ma per quello che prima (mosso dal più profondo ed autentico dei propri desideri), pensa e sogna, ovvero per quello che è. Poiché nessun uomo potrà evitare, prima di tutto e a prescindere da tutto, di desiderare una creatura come la “grid girl”, appena il suo sorriso, rosso di promesse e di misteri, la sua figura, alta e statuaria come la perfezione di una divinità, le sue chiome al vento e tutte quelle grazie che, come direbbe Dante, “è bello tacere”, si fanno sensibili agli occhi, e poiché sempre, nel suo pensiero, parlerà per primo il desiderio (se tale primato non fosse “natura”, nessun maschio di nessuna specie si muoverebbe per primo, con tutti i disagi, le fatiche e i rischi, a volte mortali, conseguenti) e con esso la fantasia (senza la quale l’umanità non conoscerebbe la Poesia), la “mancata autorizzazione” a pensare “cosa farei” ha il solo scopo di farlo sentire in colpa per quello che è intimamente (e non potrà mai cessare di essere finché non accetterà di mentire a se stesso, di farsi altro da sé, di essere “inautentico”) e la sola conseguenza di rendergli alla lunga insopportabili o se stesso (con ovvie conseguenze autodistruttive su vita, psiche e autostima) o le stesse donne (rispetto alle quali sarà separato da una muraglia di ipocrisie, di sensi di colpa, di inibizioni, di comprensibili rancori nei confronti di coloro che lo vogliono dannare, punire o comunque disprezzare solo perché, nel modo più immediato, intenso e sincero, le sta apprezzando e proprio perché le sta apprezzando, senza avere ancora modo di farsi parimenti apprezzare, altro che “emancipazione condivisa”!).
Che la prima conseguenza, a parole, sia una battuta volgare piuttosto che un sonetto petrarchesco, e che eventuali successive conseguenze, nei fatti, portino a tentare un abuso piuttosto che ad offrire gentilmente qualcosa che la controparte ha la libertà di accettare o rifiutare, con cui si calcola di “bilanciare” la bellezza (tramite, magari, ciò verso cui quella donna è mossa da bisogno, desiderio, apprezzamento e brama pari a quanto da noi provato per le sue grazie) è cosa, questa sì, dipendente dalla cultura, dal gusto, dall’intelligenza e dal “progresso mentale” dei singoli uomini. Non è decisa in partenza dal dannato e condannato “pensare con quella lì cosa farei”.
Supporre a priori che capiti sempre la prima delle alternative elencate è, questo sì, un pregiudizio di genere (antimaschile). Ed utilizzarlo per convincerci a reprimere persino nel pensiero e nella fantasia il nostro desiderio naturale, come vuole fare il femminismo mainstream è, prima ancora che impossibile, totalmente inaccettabile e sbagliato. Difatti:
1.       L’immediatezza e l’intensità con cui il desiderio dei sensi sorge in noi non appena le grazie ch’è bello tacere si fanno sensibili danno ad esso l’insopprimibilità di un bisogno, e come tale, non può essere cancellato da “mancata autorizzazione” né tantomeno da giudizi morali negativi;
2.       Se anche si volessero utilizzare giudizi morali, non essendo una nostra scelta quella di essere soggetti a mirare, disiare, seguire e cercare di ottenere la bellezza nella vastità multiforme delle creature femminine non appena queste mostrano le loro grazie, non può nemmeno essere ascritta come nostra colpa (noi ne subiamo, semmai le conseguenze, e, come proverò di descrivere qualche capitolo più avanti, cerchiamo di bilanciarle al meglio delle nostre umane, troppo umane, possibilità);
3.       Tale bisogno di bellezza, tale disio dei sensi, non riduce, di per sé, la figura della donna ad oggetto (come correttamente rilevato dalla “grid girl” Veronica qualche pagina dopo su Autosprint, laddove una ragazza manifesta un consenso, non si può parlare di “mercificazione”, perché solo un soggetto, e giammai una merce, può esprimere consenso), ma, semmai, la eleva a fine dell’agire dell’uomo (essere oggetti di desiderio pone le donne sul piedistallo della bellezza, da cui, peraltro, come avrò modo di evidenziare in seguito, dimostrano di aver ben poca voglia di scendere);
4.       La questione della “donna-oggetto” è un’impostura anche solo da un punto di vista puramente grammaticale, poiché qualunque azione implica un soggetto ed un complemento oggetto. Se vogliono interagire fra loro, uomini e donne devono accettare di alternarsi fra l’essere soggetti e oggetti gli uni delle altre: non mi pare che, l’alternanza sfavorisca la donna. L’essere oggetto di desiderio al primo contatto visivo è proprio quanto permette (anticipo qui: troppo spesso e troppo unilateralmente) alla donna di essere soggetto della scelta, nelle successive eventuali fasi del rapporto. Mi pare quindi che certe donne (belle) si stiano lamentando di un privilegio, mentre altre (men belle) stiano utilizzando il giudizio morale come espressione di invidia e rancore, o - il sospetto è sempre più forte - come ultima arma disperata per costringerci (con la condanna morale e – tutte le volte in cui è possibile - anche penale, del nostro desiderio di bellezza) a corteggiarle controvoglia, a dare cioè ad esse tutto quanto, di materiale o sentimentale, vorremmo invece riservare alle “giovin donne e belle” (che ci attraggono naturalmente e che esse vorrebbero far sparire dal nostro raggio visivo e d’azione);
5.       Quasi tutto quello che di bello e di sublime esiste al mondo, tutti quei sogni soavi, quelle incantate parvenze che, condensate in immagini e suoni attraverso la parola e il verso, il mondo chiama poesia, è sorto dalla fantasia di uomini fecondati da quel “pensiero” che, secondo Teruzzi, “non può essere pensato”, anzi, sono proprio la sublimazione artistica del “con una così che cosa farei”. Ad altro non pensò Guinicelli, quando, effondendo le rime del “Dolce Stilnovo ch'i'odo” incipiò l'autentica poesia italica, ad altro non sospirò Petrarca, quando creò con suoni e i ritmi l'atmosfera pura e rarefatta dei suoi immortali sonetti, forgiando lo stile perfetto senza uguali nel mondo, ad altro non mirava Boccaccio, quando, narrando le storie che restituirono l'Italia alla religione delle Lettere e della Bellezza, riportò nella nascente prosa italiana quello stile ampio ed armonioso proprio del grande eloquio Latino e degno del nome di Concinnitas.  Ne fossero coscienti o meno, ne fossero socialmente o intellettualmente liberi o meno, anche quando hanno parlato di altro, anche quando hanno creduto di vedere nella donna solo un’immagine simbolica di idee eteree e divine, hanno in realtà parlato di lei, hanno scritto ciò che il desiderio per lei, magari nascosto, magari inibito da ideologie e religioni, ha ispirato (per dirla ancora con Nietzsche: “in un uomo d’intelletto, il grado e la specie della sua sessualità si elevano fino ai vertici del suo spirito”).
E’ no, caro Terruzzi, no che non sono disposto a “rinunciarmi a sentire autorizzato, alla vista di una bella donna, a pensare chissà con una così cosa farei”. Non sono disposto né a rinunciare al mio desiderio ed alla sua espressione più schietta, né ad accettare che esso, con le fantasie ed i pensieri conseguenti, sia una colpa! Non ne condivido i motivi, non posso accettarne le conseguenze, non vedo alcun diritto altrui ad impormelo.
“Cosa faremmo?”, “Con una così chissà cosa faremmo”? Intendi forse: “allungare le mani”, “abusare”, “trattare come un essere subordinato”?  Perché non comporre un immortale inno, compiere un’impresa cavalleresca, offrire doni, ori e bella vita per avere una speranza di essere a nostra volta apprezzati?
Anche l’associazione maschile=maschilista denota il totalitarismo femminil-femminista interiorizzato da “gente moderna” come Teruzzi. Un tempo si distinguevano i due aggettivi. Maschile era (e, tanto legittimamente quando orgogliosamente, deve continuare ad essere) l’amare e disiare la bella donna al primo sguardo (a prescindere ad altre eventuali virtù che pure vi possono essere ma, per essere apprezzate, necessitano di tempi, modi e conoscenze approfondite), come si fa con una poesia, la cui immediata fulgente bellezza si fa sensibile (agli occhi dell’anima prima che a quelli della mente, alle corde dell’inconscio prima che al vaglio della ragione) al primo risuonare delle parole, anche senza parafrasi, analisi del testo, contestualizzazioni.
Maschilista è sempre stato (e sempre deve rimanere) soltanto l’atteggiamento di chi considera la donna un essere inferiore, di chi vorrebbe tenerla sottomessa, di chi ritiene proprio diritto addirittura allungare le mani, o di chi comunque pensa che basti raccontare due cretinate, fare due battute di dubbia ironia e certa volgarità, per costringere qualunque donna a concedersi.
Un gentiluomo, proprio perché non la considera inferiore, non la desidera sottomessa, non la ritiene stupida, e non prende nemmeno in considerazione l’idea di usarle violenza, sa di dover offrire alla donna di cui sta disiando la bellezza qualcosa di altrettanto intersoggettivamente valido ed immediatamente apprezzabile, sa di dover fare qualcosa per non trovarsi per tutta la vita a “fare all’amore col telescopio”.
Ben sapendo di essere, nel migliore dei casi, come la prosa del Boccaccio, ampia ed armoniosa, e quindi necessitante di tempo e spazio per esplicarsi, e di non risultare agli occhi dell’amata come un verso nemmeno se fosse bello come un “grid boy”, sa di dover offrire un valido motivo per far desiderare ed accettare alla donna un incontro solus ad solam in cui avere almeno l’occasione di rendere sensibili quelle doti di sentimento e intelletto, di apprezzamento soggettivo ed arbitrario, che non possono essere visibili al primo sguardo, ma si esprimono soltanto nei dialoghi non banali, nella condivisione di suggestioni letterarie o filosofiche, nel flusso bidirezionale di “colloqui, sogni e taciti pensieri”, attraverso la scelta dei vocaboli, la modulazione della voce, il tempo dato al corteggiamento, che non possono rendersi sensibili nei fugaci incontri della vita moderna, ma senza le quali non si potrà mai sperare di essere scelti o accettati in qualunque tipo di rapporto intimo.
Gli idealisti continuano a pensare che il “valido motivo” per suscitare un primo interesse nella donna possa ancora essere il “cor gentil” cui “rempaira sempre amore”, e sperano sempre di potersi procurare occasioni di incontro accostando alla bellezza corporale e mortale della donna quella non corporale e non mortale della poesia eternatrice con cui, secondo il mito rivelato dal Foscolo nell’Ode all’Amica Risanata, Diana, Bellona e Venere da donne mortali sarebbero divenute dee pel canto dei poeti e con cui in generale, le fanciulle disiate come quella raffigurata sull’Urna Greca della lirica di Keats, da fanciulle terrene soggette alla corruzione del tempo e della morte, potrebbero restare, al pari delle stelle e delle nature siderali, eternamente uguali a sé, eternamente belle (“she cannot fade, though thou hast not thy bliss,/ for ever wilt thou love, and she be fair!”).
I pragmatici ritengono al contrario che un motivo valido in questo “superbo e sciocco” universo consumista e turbocapitalista, cui i concetti di sacro e di eterno sono totalmente estranei, e in cui anche arte e letteratura sono puro commercio, non possa escludere l’offerta o perlomeno la tacita promessa (tramite magari l’ostentazione “social”) di regali costosi, viaggi da sogno, tenore di vita superiore a quello attuale della ragazza, quando non (con tutti i casi intermedi), denaro o altre utilità economiche, promesse di carriera o comunque possibilità di entrare (magare anche solo nei weekend) in un mondo “esclusivo” e “cool”.
Nessuno dei due casi è maschilismo. Sempre che non si voglia includere tale parola qualunque dissenso dalla narrazione femminista attuale.
Vedo, infatti, che queste distinzioni sono divenute desuete. Il desiderio propriamente maschile è tacciato di per sé di maschilismo. Di conseguenza si considerano già a priori le fantasia ed i pensieri del desiderio come “molestie” e i tentativi non velleitari della ragione di realizzare il desiderio stesso come “violenza”. Allora non ci si può più sorprendere di alcun “grande numero” sulle “violenze” o le “molestie”. Con tali onnicomprensive definizioni, possono essere trovati tutti gli interi da zero ad infinito. Ed ogni uomo è accusabile in quanto tale.
Con il condannare il pensiero, con il pretendere che anche un pensiero possa essere illecito, con il sottoporre il pensiero stesso ad una necessità di autorizzazione, tu stai confermando il mio giudizio sul femminismo attuale che degenera in totalitarismo, sulla “tutela della donna” (volutamente minuscola qui) che scivola nella corsa allo “psicoreato”.

2.       LA STORIA NON E’ UN TRACCIATO E IL SUO TEMPO NON E’ LINEARE
A Carlo Vanzini, che, per rendere meno amara la “medicina” del divieto di “grid girls” prescritta dall’articolo di Terruzzi, inizia l’articolo successivo con la scontata immagine del “pilota che deve guardare solo in avanti”, si può ben rispondere che la storia non è una pista. Una pista presuppone un progettista che l’abbia voluta tale e quale è e dei costruttori che l’abbiano realizzata. A meno di non voler supporre progetti ed interventi divini nella storia, quindi, questa dovrebbe essere paragonata non già ad un tracciato, bensì ad uno spazio aperto e condiviso, ad una piazza, insomma, dove auto, pedoni e ciclisti sono liberi di circolare in ogni direzione. E se chi guida l’auto prende una direzione che minaccia di investire una persona a me cara, io ho tutto il diritto (e tutto il dovere), se non di fargli fare retromarcia (il termine “indietro” piace poco ai moderni), almeno di farlo sterzare! Poichè la “cara persona” di cui parlo altri non è (come ho tentato di spiegare al capitolo precedente) se non l’uomo in quanto maschio mammifero senziente, in quanto espressione vivente della volontà che la vita ha di propagarsi tramite il desiderio subitaneo (opposto-complementare dell’impulso di selezione della vita incarnato dall’attitudine femminile ad apparire belle e disiabili per scegliere fra tutti chi eccelle nelle doti volute perché qualificanti la specie), in quanto ragazzo mosso da una grande in quanto adolescente non ancora totalmente corrotto dalla “ri-educazione” femminista, in quanto fanciullo ancora capace di chiamare le cose con il loro nome e di essere mosso da ingenuo trasporto verso la bellezza (non mediato dalle ideologie, non travisato dal “dover essere”), in quanto poeta della grande passione (sia essa quella per le belle fanciulle, sia essa quella per le auto da corsa) che non conosce censure, non accetta divieti e non si vincola ad obblighi di giustificazioni razionali o utilitaristiche, in quanto, insomma “appassionato”, ovvero siamo tutti noi, non posso certo far finta di niente e guardare avanti consolandomi al pensiero di come sarà divertente ed interessante la prossima stagione.
E’ vero che al centro del dibattito dovrebbero esservi i test invernali e le ambizioni dei piloti, ma se davvero “ci sono cose più importanti di cui occuparsi”, perché questo non è valso per Liberty Media? Perché hanno deciso di agire così? E, soprattutto, perché dovremmo stare tutti zitti? Perché dovremmo prendere per vera la “narrazione” femminista propinataci a tradimento (fino a ieri, erano gli articoli ben più dotti e argomentati che richiamavano al legame incancellabile fra Eros e Thanatos a tenere banco sulle pagine di Autosprint difendendo la presenza delle “grid girls”) da Giorgio Terruzzi? Condita fra l’altro di menzogne (sempre di origine femminista) che mi permetterò nei capitoli successivi di smascherare una ad una!
Anche l’abusata frase “il futuro è davanti a noi”, non argomenta alcunché. Se il tempo della storia è sferico, il passato, lungi dall’essere qualcosa “da consegnare agli archivi”, può invece, come insegna chiunque studi il mito, fungere da meta e modello per il futuro. Senza scomodare gli studi di Dumezil sui miti degli Indoeuropei (immagini di quello che eravamo in funzione di quello che vogliamo diventare), e rimanendo alla Formula 1, non è forse vero che tutti noi abbiamo come archetipo di “corsa” il GP di Francia del 1979 del duello a suon di ruotate e tagli di tracciato (altro che le decisioni di Pirro e compagnia!) fra Arnoux e Villeneuve e come archetipo di “qualifica” le gomme larghe, gli alettoni grandi come tavole da pranzo e i 1000 cavalli dei turbo anni 80 che si sfidavano per pochissimi, effimeri (e per questo poetici come poetica è ogni “conquista dell’inutile”) giri della morte? Nessuno di noi vuole “ripetere esattamente” le stesse gare e le stesse qualifiche. Altrimenti basterebbe riguardarsi le registrazioni. Tutti o quasi, però, vorremmo qualifiche e gare nuove, moderne, ma con lo stesso genere di agonismo “vintage”. Non è forse vero che, come qualità archetipiche del pilota, molto più della “professionalità” estremizzata e razionale di un Jackie Stewart e della capacità “calcolatrice” di un Alain Prost, riconosciamo piuttosto la “follia aviatoria” mai doma di Villeneuve, il sorriso bellissimo e malinconico di Francois Cevert poche ore prima di morire a Mosport (“un uomo deve saper scegliere fra sicurezza di annoiarsi ed il rischio di divertirsi”), l’ossessione per la perfezione spinta a volte all’irrazionalità (vedi Montecarlo 1988, dove dare un giro a Prost non sarebbe servito) di Ayrton Senna? Questo non significa che vogliamo tutti corse pericolose esattamente come quelle di trenta e passa anni fa, ma solo che le moderne corse sicure riprendano da quelle la “irragionevolezza” agonistica, la tendenza a “osare l’inosabile”, a “inventarsi l’impensabile”, la disposizione ad “amare ogni pericolo” e a “credere ad ogni tentativo assurdo di sorpasso”, le quali sole possono rendere un gran premio qualcosa di non simulabile a priori dai box o al calcolatore in fabbrica.
Tutto questo per dire che condannare una certa deriva “noiosa”, “standardizzata, “sterilizzata”, “politicamente corretta” delle gare (come, del resto, della vita), giustificata con sintagmi stereotipati quali “stare al passo coi tempi” non significa “passatismo” e “immobilismo”. Significa solo volere un’evoluzione storica diversa prendendo gli esempi giusti e non quelli sbagliati (considerati “inevitabili” solo perché più recenti).
Che l’uomo di oggi sia il “più progredito di sempre”, migliore, ad esempio, dell’uomo del Rinascimento, è una tipica “idea moderna”, vale a dire un’idea falsa (provare a paragonare le canzonette di Sanremo e le feste in discoteca di oggi con le “Stanze per la giostra” alla corte medicea per credere all’istante, se non basta il raggelante contrasto fra lo stereotipato – quello sì - linguaggio, privo di aggettivi espressivi e ricco di emoticons, utilizzato dai “millennials”, con la capacità di generare immagine e suoni dalle parole propria di quei “ragazzi del Cinquecento” che per diletto imitavano Petrarca).
Il fatto (ovviamente positivo, ben lungi da me parole come “neo-luddismo”, “conservatorismo“, “de-crescita”) che l’uomo di oggi possa vantare mirabilie tecnologiche ormai quasi da fantascienza (merito degli ingegneri moderni, non dei moderni professori di lettere, filosofia, sociologia o scienze politiche, e magari quegli ingegneri, come nel caso del sottoscritto, hanno preferito la scienza alle lettere proprio per non doversi sorbire le continue menate “progressiste” dei suddetti accademici al servizio del “senso storico”) non cancella la piccolezza degli “ignoranti specializzati” prodotti dal sistema made-in-usa di oggi rispetto al genio multidisciplinare di un Leonardo, né compensa la grettezza del neo-moralismo femminista di cui stiamo parlando rispetto alla libera morale di un Rinascimento in cui convivevano senza contraddizione cortigiane e regine, poeti sensibili alla follia come il Tasso e condottieri spietatamente grandiosi come Cesare Borgia, Cristianesimo e Paganesimo, dotti profondissimi e poetesse sublimi come Gaspara Stampa.
Insomma, se l’uomo rinascimentale era una Ferrari 250 GTO, una Ford GT40, una Porsche 917, noi non siamo certo la Ferrari Enzo, la Ford GT ultima versione, e neppure una “semplice” Porsche 991 GT3 RS. Non siamo, cioè, l’evoluzione moderna di ciò che un tempo fu rombante e glorioso. Siamo, invece, la rinuncia dell’uomo moderno alla grandezza ed alla “passione”. Siamo, piuttosto, delle piccole utilitarie coreane, degli ibridi in tutti i sensi delle costose ma svalutabili SUV che come grandezza conoscono solo l’aumento degli ingombri, degli elettrodomestici su quattro ruote il cui unico fine è andare da A a B senza disconnettersi dai social, delle silenziose e pesanti berline che per “accendere la passione” hanno bisogno di un impianto stereo che simuli doppiette e borbottii allo scarico: falsi come una birra analcolica!
Non c’è mai stato “uno schieramento per il progresso” ed uno “per la reazione”, un tipo umano moderno contrapposto ad un tipo arcaico, come racconta la favola progressista. Ci sono invece sempre stati nella storia schieramenti in lotta fra loro, tipi umani diversi e inconciliabili che generavano storia proprio scontrandosi. E chi emergeva appariva tautologicamente “più moderno” e “più progredito”. Dopo la prima guerra mondiale, gli stati nazionali parevano agli occhi dei “progressisti” più “moderni” degli imperi sovranazionali sconfitti, che però, con il senno di poi, oggi sarebbero (per la capacità di unire grandi spazi, di far convivere diversi popoli, di preservare differenti identità senza appiattirle) assai più “adeguati ai tempi” in un periodo in cui ogni nazione è necessariamente “troppo piccola” per le “sfide della globalizzazione”. 
Anche per quanto riguarda il tipo umano, non vi è nessun modello assoluto cui tendere (espressioni come “uomini e donne progrediti” mi fanno sorridere): il termina “progredito” è solo una temporanea lode per chi momentaneamente sembra prevalere, a prescindere dall’effettiva raffinatezza dei propri “valori” (d’altronde, quali valori potrebbe raccontare di avere l’attuale tipo umano dominante, quello mercantile, anzi, speculatore, i cui unici criteri sono l’utile e il tempo e per cui, ad esempio, in concetto di eternità non ha alcun significato?). Anzi, se è vero, come ci ricordava Eraclito, che Polemos è padre di tutte le cose, essere vivi significa proprio combattere per affermare quel tipo umano di cui ci si sente rappresentanti, non accettare passivamente i valori di tipologie umane inconciliabili con la nostra solo perché, attualmente, hanno potere economico e culturale e quindi risonanza mediatica. Se essere evoluto significa accettare la tirannia del femminismo e rinnegare la mia natura, se essere moderno significa non poter appagare (anzi, non poter neppure esprimere) il naturale bisogno di bellezza femminea (non poter avere le grid-girls da guardare prima di un gran premio, non potersi rivolgere alla sacerdotesse di Venere prostituta per evitare la prostituzione psichica del corteggiamento, eccetera) e dover sottoporre ogni atto e pensiero della vita (anzi, oggi pure ogni motto di spirito) a un giudizio politicamente corretto in senso femminil-femminista, allora preferisco non evolvere. Essere uomini significa a questo punto combattere perché sia cancellata dalla terra l’associazione fra evoluzione e femminismo.
Nella fattispecie delle grid-girls, io vedo semplicemente una lobby femminista, la Women’s Sport Trust, che viene ascoltata da una lobby dello show-business, Liberty Media, per compiacere un’altra lobby (quella di Hollywood) nel momento del cosiddetto “caso Weinstein”, ovvero il “casus belli” utilizzato dalla propaganda femminista mainstream per dare la caccia alle streghe ad ogni uomo in quanto tale (in quanto “soggetto disiante” e “costretto a conquistare”, come spiegherò meglio in seguito). Sul perché le lobbies finanziarie citate fin dall’inizio abbiano interesse a propagandare tale visione del mondo non ho ovviamente risposte precise (forse, semplicemente, per avere un mondo in cui –altro che sindacati – si possa licenziare chiunque in qualunque momento con un’accusa montata ad arte di molestie? Forse per distruggere, con la teoria del gender, ogni identità naturale, in questo caso sessuale, degli individui, regnando poi su una massa amorfa di individui senza più neanche l’istinto e con bisogni solo consumistici? Forse per rendere impossibili i rapporti uomo-donna, a iniziare dal primo corteggiamento, e ridurre così definitivamente - altro che “piano Kalergi” – la natalità degli occidentali? Continuare nelle ipotesi porterebbe fuori tema, e approfondirle senza prove scadrebbe nel complottismo). Quello che posso rilevare senza tema di smentita è che:
·         tale propaganda è in atto ovunque, dalla scuola alla televisione, dal cinema allo sport;
·         essa fa presa su molte donne (mano a mano che statisticamente la popolazione femminile, più o meno felicemente, invecchia), cui, una volta viste sfiorire le proprie grazie (ammesso e non concesso ne abbiano mai effettivamente avute) non pare vero possedere uno strumento “culturale” per tentare di cancellare dalla vista giovane e belle rappresentanti dell’eterno femminino, gettando oltretutto colpe e discredito sul genere maschile “reo” di guardare e desiderare (della serie: “come l’invidia fra donne diventa moralismo contro gli uomini”, pare la riedizione contemporanea di tutte quelle morali sorte per invidia, a cominciare da quella “degli schiavi” denunciata da Nietzsche);
·         ora coinvolge pure (e non temo di essere smentito) un giornalista di Autosprint che fino all’altro ieri credevo indipendente e stimabile.
Cosa ha spinto Teruzzi ad uscire dal seminato e a scrivere qualcosa che potrebbe essere uscito dalla penna di Laura Boldrini? Una minaccia dall’alto (compensazione per articoli precedenti troppo “filo-maschili” di colleghi?) o una convinzione interna? Nel primo caso, sarebbe solo uno dei tanti pennivendoli. Nel secondo, cadrebbe in una categoria simile a quella degli esterofili fustigati da Dante, per il quale, chi parla male dell’identità cui appartiene (in quel caso la patria fiorentina, in questo caso il “mondo delle corse maschilista”) è mosso o da cechitade di discrezione (incapacità di discernere il vero dal falso) o da cupidigia di vanagloria (ricerca di consenso e apprezzamento da parte dell’altro, in questo caso delle tanto decantate ed esaltate “Donne”, ironicamente con la maiuscola, dato l’abisso che separa certe melanzane femminil-femministe, di cui la terza carica dello stato è degno emblema istituzionale, da “Monna Vanna e Monna Lagia e Colei ch’è nel numer de le Trenta”).
In ogni caso, è dovere degli uomini liberi abbattere la tirannia, per cui anche noi sportivi dobbiamo, nel nostro picciol mondo (chè sì picciol non è se ha attirato le attenzioni delle lobbies), combatterla dialetticamente, se si serve dell’hegelismo.

3.       IL FEMMINISMO COME FORMA CONTEMPORANEA E POLITICAMENTE CORRETTA DI TOTALITARISMO
Hegel (cui, lo ricordiamo, il contemporaneo Schopenhauer, ben conscio di come la realtà umana non sia fatta di figure dello spirito, ma di uomini e donne in carne ed ossa, mossi innanzitutto da quella “volontà di vivere” da studiare forse con la biologia piuttosto che non con le speculazioni idealiste, scagliava le sue urla da sotto le finestre dell’università, indignato per come la filosofia stesse barattando la verità in cambio della vanità accademica e dell’ambizione politica) ha avuto fortuna al di là del proprio secolo “superbo e sciocco”.
Per tutto il Novecento, ha alimentato culturalmente quasi tutti i totalitarismi (sicuramente, e con grande evidenza, il marxismo-leninismo, probabilmente, anche se in maniera più indiretta e parziale, pure fascismo e nazismo) e continua ancora oggi a fornire un’arma dialettica alle forme ultime del totalitarismo: il politicamente corretto ed il femminismo mainstream. E’ ovvio, infatti, che, se basta l’accusa di “essere contro il progresso” per squalificare qualunque idea, qualunque posizione politica, qualunque stile di vita, non si conformi a quanto è stato imposto con tale nome, non serve più confutare le idee in un dibattito filosofico, prendere le decisioni democraticamente, e convincere l’altro senza usare coercizione, ma si può procedere con i metodi spicci del totalitarismo: messa a tacere del dissenso (), imposizione dall’alto (e qui non faccio esempi in politica per non uscire dal tema suscitando un vespaio, ma ce ne sarebbero assai…), divieti coercitivi (). Il tutto vantando pure un “nobile fine”.
Il Terruzzi, che ha usato questo modo di argomentare, dovrebbe ricordarsi che è proprio di tutti i totalitarismi mangiarsi fette di libertà in nome di un futuro bene superiore. Quanto mi spinge a definire l’ultimo femminismo come una forma di totalitarismo è proprio la sua pretesa (comune a tutto quanto di totalitario abbiamo conosciuto nel novecento) di cambiare antropologicamente l’uomo, perché l’uomo quale è nella realtà effettuale, con le sue bassezze ed i suoi slanci, le sue pulsioni e le sue idealità, i suoi vizi e le sue virtù, sarebbe “sbagliato” di fronte ad una presunta “necessità storica superiore” di cui il vostro giornalista pare voler convincere noi lettori. Non è difficile vedere in questa pretesa totalitaria la “Hybris” di chi, proclamatosi laico, in realtà si crede Dio: da quale cielo di purezza si può mai dire che la natura terrestre dell’uomo, buona o cattiva che sia, sia “da rettificare”?
La Chiesa ha fatto questo per secoli proprio per poter far sentire tutti in colpa e tiranneggiarli con minacce ultraterrene (oltrechè con più terreni roghi). Un certo femminismo (il quale, più che di donne, è fatto di interessi lobbistici), se non ve ne siete accorti, sta facendo questo con l’uomo, con mezzi più sottili, per lo stesso fine. Vuole che ogni uomo si senta in colpa (o “sbagliato”) in ogni momento, per qualunque potenziale motivo, a prescindere da qualunque effettiva intenzione o colpa, non per quello che fa, ma per quello che è, ad esempio, perché è soggetto al desiderio della bellezza, all’impulso dell’attrazione, alla necessità di agire per condurla a buon fine. Ad altro non mira il considerare potenzialmente molestia un semplice sguardo (questo è successo già dieci anni fa in quest’Italia definita “maschilista”, non nella cultura liberticida ma coerente del burqua, ma nella stessa “cultura” in cui resta “diritto”, per la donna, mostrare le grazie volute per il tempo che vuole e nel modo che vuole, per capriccio, moda vanità, interesse economico-sentimentale o gratuito sfoggio di preminenza erotica, per un bisogno naturale, in fondo, non meno “animale” né più “raffinato o spirituale” del nostro deprecato “guardare da porci”), potenzialmente “violenza” (o comunque “costume di cui vergognarsi”) qualunque rapporto “do ut des” in cui la forza contrattuale dell’uomo sia finalmente “non nulla” grazie a quanto, in cambio degli agognati favori, può offrire alla donna  (sia esso l’accesso, tramite unione/fidanzamento/matrimonio, ad uno stile di vita superiore, la promessa, tramite una posizione di prestigio/potere nella società, di una facile carriera in un mondo all’apparenza dorato, o, tramite il “sacro antichissimo culto di Venere prostituta”, soldi immediati e facili).
Tutto questo è “brutto costume da cancellare”? Beh, nella mia visione è l’unico costume possibile, stando le cose quale esse sono nella biologia, posto che non si voglia vivere perennemente infelici ed inappagati (nonché potenzialmente tiranneggiabili, come tutti i bisognosi) nella sfera sessuale e da lì, tramite i ben noti meccanismo della psicanalisi, in tutto.
E anche se fosse “brutto”, perché dovrebbe essere vietato e dannato, se vi è, al momento, consensualità fra adulti? Lo stato liberale regola a posteriori i fenomeni sociali tenendo fermi i diritti fondamentali di ciascuno ed il concreto bene pubblico, senza curarsi di giudicarli moralmente (altrimenti sarebbe uno stato etico), mentre lo stato totalitario pretende invece di indirizzarli secondo un presunto “bene superiore”.
Molto significativo il fatto che (qui come in altri contesti) l’opinione delle dirette interessate non sia stata ascoltata e, in nome della “figura della donna” (sinistramente simile, come strumento di giustificazione di atti e pensieri totalitari, ad una delle “figure dello spirito” di hegeliana memoria) al posto delle ragazze della griglia in carne ed ossa, si siano lasciate decidere persone estranee sorte a “tutela dei diritti e dell’immagine delle donne”. Come se si dovesse tutelare un minore. Come se le grid-girls non fossero ragazze maggiorenni e consenzienti. Tutto in nome della “lotta alla violenza”. Ricordo solo un periodo storico in cui il discrimine fra violenza e non-violenza prescindeva dal consenso della donna. Ed era il primo periodo patriarcale, in cui avere un rapporto con la “propria donna” non era mai reato, mentre averlo con quella di un altro lo era sempre, a prescindere dal fatto che i rapporti fossero violenti o consensuali. Ora il femminismo sta tornando a questo. Perfettamente in linea con quanto in ambito totalmente diverso (ma avente in comune con la questione in oggetto il discorso sul corpo femminile, sulla sessualità maschile e sull’immagine delle donne) si è fatto nei paesi filo-femministi occidentali (vedi la Francia, culla europea del femminismo “giacobino” che con mio disappunto vedo nel 2018 rientrare nel mondiale) sul tema della prostituzione: resa reato per l’uomo a prescindere dalla condizione di maggiore età e di libero arbitrio della donna disposta concedersi in un rapporto occasionale (il che non significa, come vorrebbero le critiche femministe ed i sessantottini, “privo di motivazione”, ma “liberamente deciso” dentro quella sfera di autonomia che, in caso ad esempio di reato, non priverebbe l’autore della responsabilità penale: quindi le motivazioni economiche o di “immaturità giovanile” vi rientrano pienamente, non essendosi mai visto che delinquere per bisogno o brama di soldi o per imitazione di modelli sbagliati garantiscano l’impunità ad autori adulti di reati), senza per nulla ascoltare le proteste delle associazioni di prostitute autodeterminate (ma solo lobbies europee che, partendo da dati faziosamente interpretati e con il concorso di “commissioni” epurate dai ricercatori scientificamente onesti non disposti ad assoggettarsi a priori al dogma del “sono tutte schiave”, stilano documenti da far approvare, senza alcun tipo non dico di democrazia rappresentativa, ma almeno di effettiva discussione, ad un parlamento di passacarte). Sempre con il solito ritornello “è una forma di violenza contro le donne” (come se, appunto, la violenza non fosse determinata, come deve essere in una concezione individualista e libertaria della sessualità, dalla mancanza di consenso, ma dalla difformità del rapporto rispetto ad un “modello” politicamente corretto).
E’ infinitamente scorretto scrivere “non voglio tirare in ballo la violenza sulle donne” e poi implicitamente argomentare che le grid girls andrebbero abolite perché soddisfano da un punto di vista visivo e “rappresentativo” gli stessi desideri sessuali che, se pervertiti dall’eccesso e dalla violenza, conducono a dei reati. Quando non più il singolo autore del reato viene ritenuto unico responsabile, ma tutti i suoi simili vengono coinvolti in quanto “corresponsabili di un certo modo di vedere la donna”, quando non più il reato in sé viene perseguito, ma il primo desiderio da cui successivi sviluppi potrebbero far sorgere il crimine, si passa dalla responsabilità individuale (propria dello stato di diritto) a quella collettiva (caratterizzante la “giustificazione” di tutte le persecuzioni novecentesche), dalla civiltà giuridica alla distopia dello psicoreato (processo alle intenzioni).
E’ veramente aberrante che un giornalista (purtroppo Terruzzi non è il solo) arrivi ad argomentare contro il bisogno maschile di bellezza sostenendo fra le righe che tale visione del mondo (nel senso tedesco di Weltanshauung, oltre che nel senso concreto di “bella visione di ragazze sulle schermo”) sia in qualche maniera complice (o addirittura motore inconscio) di reati a sfondo sessuale. Con questo schema si potrebbe arrivare a condannare qualunque idea sulla politica, sul costume, sulla società, sulla vita, argomentando che “è pericolosa per la sicurezza pubblica”. E questo è sempre stato la motivazione con cui, dal terrore giacobino in poi, si sono giustificate tutte le tirannie (la polizia segreta della Germania Est si chiamava significativamente “Sicurezza di Stato”).
Ma cosa hanno paura, che un pilota possa arrivare dall’abitacolo a toccar il culo di una ragazza? Con il nuovo Halo non vi riuscirebbe neanche con braccia da scimmia! Bisogna dare l’esempio alle nuove generazioni? Allora vogliono semplicemente che un ragazzo percepisca come sbagliato e da correggere il fatto stesso di essere attratto dalla bellezza femminile e quindi di soffermarvi lo sguardo e di dirigervi le fole ad ogni occasione offerta da quel sogno chiamato giovinezza.
E se non bastasse tutto questo, si consideri cosa è scappato dalla penna di Terruzzi,  a proposito dell’educazione dei giovani: “deve essere chiaro cosa può essere fatto e cosa non può essere fatto, cosa può essere detto e cosa non può essere detto e, soprattutto, pensato”. E’ arrivato a giustificare la limitazione non solo della libertà personale (“non può essere fatto”, riferito non si sa bene a cosa, ma detto a proposito della vicenda delle grid-girls nella quale non ci sono soprusi e quindi reati, ma solo “rappresentazioni” che “non piacciono” a donne non coinvolte), non solo della libertà di parola (“non può essere detto”, strano a dirsi in un’Italia dove in altri ambiti, il “diritto di parola” di certi giornalisti arriva spesso incontrastato ai limiti dell’insulto, della diffamazione, della montatura ad arte), ma pure della facoltà di pensare con la propria testa (“non può essere pensato”: una frase così categorica non ha precedenti, se non da parte di Parmenide a proposito del “nulla che non può essere” e quindi neanche “pensato”).
Ben triste la fine del “fronte storico progressista”. Nato durante l’Illuminismo con l’idea di introdurre il “pensiero critico”, è arrivato ora ad imporre il “pensiero unico”. Basta tacciare un’idea dissonante di “essere contro la storia” per cancellarla (assieme alle attitudini, ai comportamenti, persino agli istinti naturali, ad essa associabili) come “non essere” senza neppure uno straccio di argomentazione puntuale (ovvero non genericamente riconducibile ad una vaga accusa di “complicità”, come fa Terruzzi a proposito del non meglio precisato “maschilismo” delle corse). Fino a ieri, uno stato liberale di diritto era razionale perchè, prima di vietare qualcosa, doveva dimostrare la sua correlazione con un danno oggettivo, con responsabili ben individuabili e vittime che fossero persone reali (non “figure dello spirito”). Oggi basta che qualcuno (anzi, qualcuna), si “senta offesa come donna” (quindi, si badi bene, non oggettivamente lesa nei diritti individuali, ma vagamente “dispiaciuta” da una “rappresentazione” arbitrariamente definita “offensiva”, che però, nei fatti, non la coinvolge) perché si arrivi al divieto, alla censura, addirittura, come ho denunciato prima, allo “psico-reato”.
Altro che “confronto democratico”! Eh noi, caro Terruzzi, qui, se, al di là della retorica occidentale, siamo ancora in un “mondo libero”, io penso, parlo e agisco. Lascia ai tuoi figli divieti, censure e, addirittura, controllo della mente!
Non sarei un libero pensatore se non accettassi che altri avessero visioni del mondo diverse dalla mia. Quello che non posso ammettere è che una narrazione che non condivido venga posta a motivazione di cambiamenti di leggi e costumi cui vengo legalmente o socialmente costretto ad adeguarmi. Quello che non posso accettare è che la narrazione femminista “mainstream” venga presentata come progresso storico e che in nome di esso si arrivi a dannare e condannare (per ora solo mediaticamente, ma gli sviluppi in ambito legale, lavorativo e quotidiano potrebbero essere drammatici) il desiderio naturale mio e di praticamente tutti i miei simili (nella “caccia alle streghe” innescata a Hollywood si stanno perseguendo anche attori famosi omosessuali). Questa non è più questione di differenti opinioni e divergenti visioni del mondo. Qui è questione di dire la verità o mentire su una realtà biologica o, almeno, etologica. Qui è questione di lasciare che una visione del mondo di parte (come è necessariamente quella femminista) imponga a tutti la propria “narrazione”, i propri costumi, la propria morale. Qui è questione di scegliere la dittatura del politicamente corretto o la libertà del cosiddetto “maschilismo” (ovvero, per esclusione ormai, dato che il termine è sempre più usato dalla propaganda femminista a prescindere dal suo significato originale di “svaluazione/oppressione” della donna, tutto quanto, semplicemente, non è femminismo demagogico). Il desiderio di natura dell’uomo per il corpo della donna è un fatto (nemmeno un costume, come pretenderebbero i banditori di una sociologia basata sui fumi della propaganda di un certo pseudo-egalitarismo, ma proprio un dato scientifico, come sa qualunque biologo e qualunque etologo). “Costume”, anzi “malcostume” è proprio, invece, l’opinione morale femminista secondo la quale equivarrebbe a “degradare la donna” (valutazione extrascientifica). Il vecchio Bernie ha parlato di "eccesso di ipocrisia". Io credo si debba parlare invece apertamente di eccesso di menzogna (se non scientifica, almeno civile e morale).
Che mirare e disiare la bellezza (in questo caso simboleggiata dall'eterno femminino, la cui contemporanea espressione si incarna nelle cosiddette "grid girls") equivalga a ridurre la donna ad un oggetto è una menzogna aperta (significativamente sostenuta dalla più moderna forma di manipolazione della realtà rappresentata dal femminismo demagogico e da tutti i suoi servi, funzionali alla dittatura del "Pensiero Unico", vero e proprio totalitarismo del corrente secolo segnato ormai in ogni campo della vita dalla tirannide della finanza senza patria ma con sede in USA).
Essa è infatti in contrasto non solo con le verità della Natura e della Poesia (il disio naturale per il corpo della donna ha la stessa naturalità delle stelle scorrenti del cielo, delle spiagge luminose del mare, dell'avvento della primavera, della fiera che insegue la femmina nei boschi chi sa dove, e dell'altre espressioni della "voluptas cinetica" cantata da Lucrezio nel "de rerum natura" e risulta al contempo il motore immoto di ogni creazione di immagini e suoni tramite la parola chiamata "Poesia", da quando Jacopo da Lentini inventò la metrica perfetta del sonetto a quando il Petrarca la colorò del suo stile puro e rarefatto senza eguali nel mondo, da quando Dante, Guido e Lapo, scegliendo la bella donna quale immagine della conoscenza divina, inondarono l'aria del "dolce stilnovo ch'i odo" a quando D'Annunzio, godendo delle grazie di "dive" più moderne, mostrò le estreme possibilità musicali e oniriche del verso, da quando il Poliziano, organizzatore di feste per "Il Magnifico", riuscì a dipingere la nostalgia per il paradiso terrestre, che ogni uomo è destinato con il crepuscolo della giovinezza, tramite le sfumature di colore dell'erba verde che "sotto i dolci passi, bianca, gialla vermiglia e azzurra fassi",a quando il Tasso inumidì le Rime del più tenue, languido e caldo dei pianti: "qual rugiada, qual pianto, qual lacrime eran quelle che sparger dal notturno manto e dal candido volto delle stelle? Fur segni forse della tua partita, vita de la mia vita?"), ma pure con l'esperienza di vita quotidiana, poiché proprio l'essere poste sul piedistallo della bellezza (generata sovente dall'illusione del nostro desiderio), permette alle donne reali sia di costringere noi a fare sempre qualcosa per essere notati e apprezzati (non solo in quella occidentale maschera di servitù imposta a tutti gli uomini verso tutte le donne, chiamata corteggiamento, di cui tutto l'Oriente ride come ne avrebbero riso i Greci, ma in tutte quelle situazioni nelle quali una fanciulla, proprio perchè disiata nelle lunghe chiome, nel claro viso, nelle forme suadenti ed in tutte le grazie "ch'è bello tacere", con la rapidità del fulmine e l'intensità del tuono, si trova in una situazione se non altro psicologica di vantaggio, e non di svantaggio, nei confronti della controparte maschile, impossibilitata, a meno di non parlare di personaggi ricchi e famosi, a compensare in desiderabilità e potere la bellezza con doti parimenti apprezzabili ed immediatamente evidenti, e quindi inevitabilmente sottoposta alla tensione di un esame e costretta a scervellarsi per capire come parlare per compiacere e come agire per mostrare il meglio di sè o quanto si suppone possa essere percepito come tale, per trovare un modo di rendere evidenti ed apprezzate eventuali doti di sentimento o intelletto potenzialmente gradite, per avere un'incerta speranza di "star di paro" alla bella donna, il tutto mentre questa può rilassarsi, compiacersi e scegliere se divertirsi "con" lui o "di" lui), sia di tirarsela infinitamente (come può, in effetti, sempre permettersi un fine rispetto ai mezzi per raggiungerlo: altro che "riduzione ad oggetto", questa è "elevazione a fine" e le femministe riescono a lamentarsi persino dei privilegi femminili!), poiché, anche senza essere “ombrelline”, anche senza averne le grazie (ché quando esse mancano, supplisce, come in ogni aspetto poetico della vita, l'illusione del disio), esse, in ogni modo (dal più legittimamente personale al più gratuitamente vanaglorioso, quando non studiatamente perfido), tempo (dal più fugace e casuale incontro al più lungo e sentimentale rapporto) e luogo (dalle discoteche agli uffici), sfruttano (sovente pure senza limiti, remore nè regole) il privilegio di essere universalmente mirate, amorosamente disiate e socialmente accettate per la "bellezza" (senza dover obbligatoriamente mostrare certe doti o compiere particolari imprese, cui sono costretti invece i cavalieri, i quali senza esse restano puro nulla socialmente trasparente e negletto dal sesso opposto).

4.       RETROPENSIERI “RETROGRADI” E “MASCHILISTI”? NO, WELTANSCHAUUNG ALTERNATIVA!
Nel mio sentimento della realtà (chè non vale meno di quello che le donne hanno la pretesa di far valere anche in ambito legale), la donna non rappresenta né la “povera oppressa” della narrazione femminista, né “l’animale inferiore” dell’uguale ed opposta narrazione maschilista. Preferisco basarmi sulla realtà biologica ed etologica, piuttosto che sui pregiudizi morali e sul sentito dire, su quanto posso sperimentare dalla vita e dagli istinti, piuttosto che su quanto mi viene “raccontato” come “storia” (da quando Giulio Cesare, parte in causa, si è finto terza persona per scrivere il “De Bello Gallico”, storia e fake news rischiano sempre di divenire sinonimi) e “insegnato” come “bene” e “progresso” dalla sedicente “cultura” ufficiale.
La donna gode del privilegio (di natura, e quindi di cultura) di ricevere il sorriso degli astanti, il desiderio subitaneo ed incondizionato dell’altro sesso, l’apprezzamento e l’accettazione di tutti al primo sguardo, per quello che è, per la sua grazia, la sua leggiadria, la sua essenza mondana, in una parola per la “bellezza” (anche quando essa manca, vi supplisce quasi sempre l’illusione generata dal desiderio), senza bisogno di fare obbligatoriamente qualcosa, di compiere particolari imprese (cui sono invece costretti i “cavalieri”), di mostrare questa o quella dote nella speranza di “fare colpo” su qualcuno in particolare o di emergere nella considerazione generale, proprio perché le è stato assegnato il privilegiato e confortevole ruolo di “selezione della vita” (ben simboleggiato dall’immagine dell’ovulo che può ben aspettare l’arrivo dello spermatozoo più veloce e resistente fra tutti quelli attratti senza bisogno di muoversi), senza il quale nessuna specie potrebbe preservarsi, ma con il quale i desideri umani di libertà e felicità hanno un rapporto necessariamente problematico.
All’uomo è invece dato l’opposto-complementare, assai più ingrato e disagevole, ruolo di “propagazione” della vita (disiare la bellezza con la rapidità del fulmine e l’intensità del tuono, non appena questa si mostra nelle grazie ch’è bello tacere, mirarla, seguirla e cercare di ottenerla in modo da permettere alla controparte femminile di selezionare fra i tanti chi eccelle nelle doti volute perché qualificanti la specie) e quindi, se vuole ottenere lo stesso sorriso del mondo, la stessa desiderabilità amorosa, lo stesso apprezzamento dal sesso opposto, la stessa accettazione sociale, deve COSTRUIRE socialmente il proprio ruolo.
Se non vi riesce, non solo rimarrà infelice e inappagato nella sfera sessuale, costretto a confidare i propri teneri sensi alle leopardiane vaghe stelle dell’orsa (poiché, anche se fosse fisicamente bello come un grid-boy, non avrebbe mai e poi mai lo stesso “privilegio della bellezza” della controparte femminile, non contentandosi questa punto della fisicità, ma pretendendo mille altre doti, alcune delle quali soggettive, come quelle di sentimento o intelletto non visibili al primo sguardo, e richiedenti tempi e modi particolari per essere fatte sensibili, oltreché orecchie e menti predisposte ad apprezzarle, e molte delle quali, oggettive, inscindibili da quanto fa conseguire posizioni di primato o prestigio sociale), ma sarà pure socialmente “apolide”, non potendo contare su quel modo proprio della donna di influire sulle cose e sugli uomini tramite quanto in essi vi è di più profondo e irrazionale, per mezzo di ruoli quali madre, confidente, amante che nessuna società, per quanto misogina, potrà mai abolire e per effetto dei quali, come ben notò persino Rousseau, l’effetto del loro sesso sul nostro è, per natura, molto maggiore di quello inverso (almeno in assenza di compensazioni).
E tutto questo non perché le donne siano più “cattive” (non lo sono, statisticamente né più né meno degli uomini) o “più stronze” (non lo sono più di quanto, a condizioni invertite, lo sarebbe la media degli uomini che può approfittare di una debolezza altrui), ma perché, se non si ha nulla di inter-soggettivamente valido ed immediatamente apprezzabile da offrire per pareggiare la bellezza (o, ancora se vogliamo essere precisi, la sua “illusione nascente dal nostro desiderio”), non si può aver alcuna realistica speranza, nel mondo dei fatti (i rapporti “spirituali”, come quello fra San Francesco e Santa Chiara, basati sulla fantomatica “gratuità”, esulano da questa trattazione, trovandosi meglio in mezzo a dissertazioni su miti, leggende e sogni infranti), di essere accettati, né come potenziali padri della futura prole (ché anche in natura, senza una posizione sociale paterna elevata, non potrà avere vita felice) né come occasionali compagni di godimento (ché, per dirla con il Schopenhauer della “metafisica dell’amore sessuale”, non è la mente, ma l’istinto a scegliere, per cui, anche quando una donna non è interessata a procreare, sceglierà sempre e comunque con gli istintivi criteri con cui lo farebbe una sua omologa di altra specie, alla faccia della mitologia sessantottina del “sesso libero”).
Tutto questo non è semplice “stereotipo” (magari lo fosse!) da abbattere con l’educazione, la cultura, l’esempio. Esso si rileva, infatti, in ogni specie. I desideri di natura non dipendono da un contratto sociale, sono invarianti per “civiltà”, sono esenti dalla “evoluzione storica” (conoscono solo quella naturale, ma il tempo fuori scala per l’effimero individuo). Non vale a nulla cercare di “moralizzarlo”. In quanto natura, ciò è, per usare le parole di Nietzsche, “grande e immorale per tutta l’eternità”
Dove possono iniziare a subentrare gli stereotipi, le considerazioni morali, i buoni propositi, è il momento in cui si pensa se e come bilanciare tutto ciò.
Ammetto che in natura molte specie non hanno compensazioni e lasciano i maschi al loro destino. E’ il caso delle api, dove i fuchi, costretti comunque a inseguire la regina per sperare di riprodursi, sono uccisi da essa dopo l’accoppiamento se vincono, o vengono lasciati morire di fame se perdono. E’ il caso anche degli elefanti, dove, se questi sapessero poetare, ci racconterebbero di pene peggiori di quelle dantesche, vissute continuamente nella continua frustrazione del disio per via del branco matriarcale e nella solitudine dopo la cacciata. Significativamente, donne particolarmente perfide e uomini completamente stupidi giustificherebbero la trasposizione di tale preminenza femminile nell’amore sessuale al mondo umano con la banale argomentazione che “in natura funziona”. Meno perfidia femminile e meno stupidità maschile dovrebbero lasciar comprendere la questione di fondo persa di vista da tale giustificazione: la “natura matrigna” ha a cuore puramente la propagazione e la conservazione della vita, mentre il mondo umano dovrebbe pure preoccuparsi della felicità e della libertà degli individui (fini sconosciuti alla natura), o, almeno, della loro possibilità di vivere “sopportabilmente” (il maggior grado di coscienza rende nell’uomo intollerabili molti mali  quotidianamente “sopportati” da altri animali”). Anche senza tirare in ballo motivazioni ”comunitarie a anagogiche“ che richiamino alla capacità di “gettarsi nella storia” da parte di popoli mitologicamente patrilineari (i quali sono prevalsi su quelli, altrettanto mitologicamente, matrilineari, anche quando questi – vedi  lo scontro fra Romani ed Etruschi - potevano vantare tecnologie più avanzate, denotando con ciò una superiore coesione sociale, una superiore propensione a dare senso, valore e bellezza all’esistenza, una migliore attitudine, cioè, ad usare la “visione spirituale” per ordinare la società e fare delle invenzioni tecnologiche strumenti per salti di livello qualitativo dell’umano) e che volentieri non tirerei in ballo, se la mia controparte dialettica non allegasse ad ogni più sospinto la propria mitologia “matriarcale” (giungendo, nei casi estremi di “nazifemminismo”, ad esaltare le società “insectidi” e a parlare apertamente di “mondo senza maschi”), è, per chi dà ancora un senso alla parola, una questione di “equità” (intesa non come uguaglianza, ma come bilanciamento di poteri e scelte) fra consimili.
Anche le prime società umane, di matrice matriarcale cara alle femministe, probabilmente erano qualcosa di simile alle società di elefanti: ogni potere materiale e morale era femminile, e in ogni momento il caro “compagno” poteva essere “licenziato” senza possibilità di reintegrazione. Non sappiamo come fosse lo stato degli uomini in quel periodo, ma a giudicare da quanto posso ricordare del primo periodo scolare, ove in qualunque momento potevo essere sgridato per qualunque motivo da donne, a cui spettava a capriccio la definizione di bene e male e che se la potevano avere a male per ogni mia battuta da fanciullo (e quindi ancora necessariamente innocente) non ho alcuna curiosità di scoprirlo (né di sostenere la deriva di leggi e costumi per cui il confine fra lecito e illecito viene sempre meno stabilito oggettivamente a priori e lasciato invece soggettivamente al giudizio ex-post della presunta vittima).
Tutto cambia con il passaggio dalla preistoria alla storia (e questo dovrebbe far riflettere i progressisti sostenitori dell’endiadi femminile=progresso). Tutte le civiltà propriamente storiche ad oggi conosciute hanno studiato mezzi più o meno efficaci, più o meno condivisibili, ma sempre percepiti come necessari (anzi, in casi come quello romano addirittura fondamento di ogni diritto e di ogni civiltà) per porre in mano virili non solo, retoricamente, la guida “comunitaria” e “anagogica” (secondo il principio tradizionale, e quindi sempre mitologico, della “vita spirituale ed ascendente data dal padre, cui si accedeva spesso per prova e rito iniziatico da parte di una ristretta cerchia di aristocratici”, percepita come “vera vita”, contrapposta “all’esistenza puramente corporale e conservativa data dalla madre, e comune a tutti gli uomini indistintamente, anche plebei” -  ovvio che tale concezione virile e guerriera non poteva non prediligere il sesso che, già come spermatozoo, fa coincidere vita e vittoria), ma più pragmaticamente, la possibilità di vivere liberi e felici.
Tutte le mirabili strutture dell’arte come della religione, del pensiero come della società, della politica come della storia, ingiustamente chiamate oppressione dal femminismo, sono state edificate dai più forti e saggi fra gli uomini non già per opprimere (non è l’obiettivo dei savi), ma per impedire a tutti gli uomini di essere troppo oppressi a causa di quei 5/6 di imbecilli – la percentuale è sempre di Schopenhauer - che in ogni tempo (anche oggi, vero Terruzzi?) si lascerebbero in tutto e per tutto tiranneggiare dalle donne e di avere anzi le stesse possibilità di scelta e la stessa forza contrattuale (in quanto davvero conta dinnanzi alla Natura, alla Discendenza ed alla Felicità Individuale) date alla donna dai privilegi naturali di cui si è discusso.
Parlando di periodi di cui si ha traccia provata, e tralasciando le origini semi-mitologiche in cui un assoluto annichilimento del genere femminile fa da paio poco credibile assieme a Romolo che ascende al cielo o ai numi che partecipano attivamente alle battaglie, l’effetto del cosiddetto “patriarcato” (fra virgolette, perché, in questa accezione, ben poco rimane del significato “eroico” originario indoeuropeo cui si è sopra accennato) è stato principalmente quello di non lasciare senza freno la pretesa onnipotenza della donna nelle questioni di scelta del partner e di discendenza. Ciò non va inteso come costrizione ad accoppiarsi con un uomo non gradito, ma come possibilità per l’uomo, tramite le costruzioni sociali di cui sopra, di mostrarsi ed effettivamente di essere, assai gradito alla donna desiderata. Dal buon partito che permette alla ragazza di uscire di casa, al cavaliere che appare bello perché salva la dama da un pericolo, ogni uomo di buona volontà aveva una via socialmente accettata (senza la stigma di oggi) e ben codificata (senza appunto il rischio di essere bollati come “molestatori”) per “bilanciare la bellezza”. Sia detto fra parentesi. Si può anche sorridere di tutto questo, ma cosa ci offre in cambio il mondo moderno e progredito delle femministe e di Liberty Media? Nulla. Forse solo i pompini disattesi di Madonna. In attesa dunque che ci si offra un’alternativa accettata dal politicamente corretto, ben facciamo a puntare sull’unico valore intersoggettivamente riconosciuto (il denaro e l’immagine che ne deriva) e a sognare ad occhi aperti quelle fanciulle di bellezza tanto alta e nova da poter altrimenti essere solo sognate sotto un plenilunio e che fino a ieri hanno popolato le griglie.
Il mondo liberale ha scelto una via di mezzo, fra non-compensazione preistorica ed iper-compensazione storica: dando a tutti (almeno in teoria) la possibilità di costruire la propria vita e scegliere il lavoro migliore in rapporto a sacrifici e obiettivi, ha permesso alle donne che lo volessero di svolgere gli stessi lavori degli uomini, e agli uomini che lo sentissero come necessario, di fare carriera e denaro per circondarsi di belle donne. In tale libertà di scelta rientrano pure le grid girls, che hanno scelto il mestiere di sacerdotesse della Bellezza senza costrizioni e senza sentirsi “sminuite” o “offese”.
Come tutte le vie di mezzo, però, tale mondo è suscettibile di oscillare troppo in un senso o nell’altro. Se le femministe si lamentano di presunte “discriminazioni culturali” (e fra queste mettono le grid girls, almeno stando alle boiate di Claire Williams: “spero che questa scelta porti più ragazze a lavorare con noi”; prima di sostenere l’inopportunità delle grid girls, dovrebbe riflettere  sulla “puttanaggine” della scelta di preferire i rubli di Sirotkin al talento di Kubica!) che impedirebbero di avere il disiato (da loro, ma giustamente temuto da me) 50 e 50 in ogni ambito, io mi lamento di quote rose ed iniziative culturali con il fine di favorire le donne (e quindi, in un mondo a risorse limitate, penalizzare gli uomini) proprio nei mestieri, nelle posizioni, ed oggi pure negli sport, grazie ai quali gli uomini possono individualmente e meritocraticamente ottenere con lo studio, il lavoro, la dedizione, il sacrificio (e, necessariamente, la fortuna)  i mezzi per avere “pari opportunità” di scelta, di potere e di apprezzamento nella sfera erotico-sentimentale rispetto alle donne.
Se non vi è ovunque un 50 e 50 percento fra i sessi, non sempre è colpa di discriminazioni nascoste nel lavoro o rappresentate nello sport: certi mestieri richiedenti sacrifizi, rinunce e fatiche fin dallo studio universitario, e implicanti poi limitazioni di tempi e modi di vita sono probabilmente ricercati, perseguit e scelti dagli uomini con più frequenza e intensità non perché le donne siano meno capaci (versione maschilista) o perché ne siano scoraggiate/impedite (versione femminista), ma semplicemente perché sono principalmente gli uomini ad averne estrema necessità, pena vedere frustrati i propri sogni non solo e non tanto lavorativi ed economici, ma soprattutto psico-amorosi e vitali.
Per le donne studiare, lavorare, fare carriera è una delle scelte possibili (anche se il femminismo fa finta sia l’unica), mentre per noi è un obbligo (giacchè senza “superlavoro” e “superguadagno” non potremmo mai godere stabilmente della presenza di “supergnocche”, o ricevere tutti i giorni un “super-apprezzamento” sociale, mentre le nostre controparti femminili, anche disoccupate o senza titolo di studio, potrebbero con le loro grazie, selezionare fra i trecentosessantacinque pretendenti giornalieri – non sono di meno, altrimenti non potrebbero lamentarsi delle molestie quotidiane - quello che per aspetto fisico, sentimento o intelletto o posizione sociale le attrae di più, e, comunque riceverebbero sorrisi e complimenti e benvenuti in ogni luogo di lavoro e divertimento, e potrebbero in ogni unione contare sulla forza “contrattuale” data dalle disparità dei bisogni psico-sessuali). Questa è la verità (naturale). Il resto è conseguenza (umana).
Le femministe, partendo dal dogma dell'uguaglianza e dall'irrealtà del “Gaist” hegeliano, credono che qualcuno o qualcosa sia necessariamente colpevole della mancata realizzazione del perfetto egalitarismo nei fatti (e, quando non trovano il capro espiatorio, arrivano agli eccessi isterici delle accuse random hollywoodiane e delle campagne “moralizzatrici” nello sport e nella pubblicità); io, osservando le verità della natura e la realtà degli istinti, comprendo che le ingiustamente vituperate “disuguaglianze sociali” fra i generi sono la conseguenza non di una discriminazione , bensì di un previlegio, ovvero del tentativo necessario, matto e a volte disperatissimo, dell'uomo di bilanciare il privilegio  naturale femminile  con lo studio, il lavoro, la posizione di potere, prestigio, preminenza. Mistificando il nostro umano bilanciamento sociale dei loro privilegi naturali come “discriminazione”, giustificano le “discriminazioni positive” per rendere ancora più difficile, se non impossibile, a noi, raggiungere “pari opportunità” di vivere liberi e felici, nella realtà del “mondo come volontà”, non nell’apparenza del “mondo come rappresentazione”.
Ecco perché Nietzsche scriveva “il femminismo contiene una tale dose di stupidità tipicamente maschile di cui ogni donna ben riuscita, che è sempre una donna intelligente, dovrebbe vergognarsi”. Sembra quasi che il visionario professore di Basilea abbia potuto prevedere più di un secolo prima le aberrazioni del femminismo attuale. E dire che non ha potuto leggere né le stupidaggini di Laura Boldrini e di Giorgio Terruzzi, né le puntuali ed intelligenti osservazioni della “grid-girl” Veronica (la cui “ottima riuscita” come donna è resa evidente dalle foto pubblicate sull’ultimo numero di Autosprint: la capacità di “intus legere” la realtà della cose, centrando subito la questione dell’utile economico delle lobbies, né è solo la conferma).

5.       DISCRIMINAZIONI? NO, COMPENSAZIONI: PILOTI E GRID GIRLS COME METAFORE DELLA NASCITA DELLA VITA
E’ inutile che il dogma politicamente corretto di Women’s Sport Trust mi predichi “«il pubblico di molti eventi sportivi è portato ad ammirare gli uomini forti e di talento che prendono parte alle competizioni, mentre il ruolo delle donne nelle stesse è basato solo sul loro aspetto fisico». Secondo il Women’s Sport Trust è importante che le donne non siano considerate un semplice «abbellimento» nelle manifestazioni sportive, cosa che rafforza dei vecchi stereotipi e dà alle ragazze un esempio sbagliato delle cose a cui aspirare.
Il mio più profondo istinto e le mie intime esperienze mi convincono con verità più vive che, se una fanciulla ha la bellezza per essere mirata, disiata ed accettata al primo sguardo, da tutti, e a prescindere da tutto – e questo non è affatto messo in discussione né dal femminismo, né da Liberty Media, né tantomeno dalla società moderna (la quale, ahimè, non può prescindere dalla biologia) – allora è santamente giusto, o perlomeno moralmente equo, che i garzoncelli abbiano qualcosa di parimenti efficace per essere immediatamente ammirati , desiderati da tutte e accettati socialmente, a prescindere dalle eventuali doti di sentimento o intelletto di apprezzamento soggettivo ed arbitrario (e perciò inadatti ad essere “moneta” in quell’asta delle offerte per la più bella a cui, dietro le mentite spoglie del cosiddetto “romanticismo”, si riduce ogni corteggiamento non velleitario). E se ciò, almeno a livello rappresentativo, si può trovare, oltre che nel lavoro, pure nello sport, allora è assolutamente positivo ed altamente educativo per ambo i sessi, altro che sbagliato! Sbagliato è continuare ad illudere i ragazzi che, anche senza raggiungere particolari livelli di prestigio o preminenza sociali, potranno avere occasione di conquistare i cuori o comunque i favori temporanei di tante belle fanciulle. Sbagliato è anche provare ad illudere le ragazze (ma queste sono meno ingenue) che il loro carrierismo femminista possa in qualche modo renderle più desiderabili (quando, al contrario, i tempi stressanti di certi “superlavori” rendono difficile seguire stili di vita salutari, i quali solo possono garantire il perpetuarsi nel tempo di quella bellezza senza la quale nessun uomo, che non sia tanto falso da poter mentire anche nell’istinto, potrà mai sentirsi appagato nella sfera dell’amore sessuale).
Che le fanciulle siano immediatamente disiate per la bellezza è un dato naturale, vero ben al di là delle griglie di partenza e sfruttabile dalle stesse anche senza dover tenere ombrelli. Se si potesse eliminare questo iniquo privilegio, ci penseremmo noi uomini per primi, nel nostro interesse (come in effetti si tenta, da tanto tempo ed in vano, di fare in certo mondo arabo).  Supporre che possa essere cancellato semplicemente oscurandone la rappresentazione televisiva è poco credibile. Credo quindi che la campagna femminista sia, per l'ennesima volta, mirata semplicemente a distruggere la nostra capacità di compensazione, a renderci la vita invivibile, senza più modo di fronteggiare quel “privilegio della bellezza” che esse fingono “superficiale” e “trascurabile rispetto al potere maschile” semplicemente per poterlo usare senza limiti, remore, né regole. Non siamo noi uomini ad averlo creato. Ne subiamo semplicemente le conseguenze. Ed allora abbiano creato le compensazioni. Come la gloria sportiva, che rende riconoscibili e idolatrati al primo sguardo più della più bella fra le belle, come la religione della velocità e del pericolo, che rende gli adepti più divini delle dive, come l'eroismo motoristico, che trasfigura i cavalieri del rischio rendendoli simili  ad amatissimi principi che sconfiggono draghi e salvano fanciulle. Tutto ciò si sublima nell'immagine rituale del campione che bacia la bella prima di sfidare la morte, il tempo e la vertigine e ne riceve il bacio all'arrivo, se vittorioso.
Chi pretende di abolire tutto questo per “rispetto alla parità” dovrebbe prima abolire il motivo per cui non c'è affatto parità in partenza fra i sessi. Poiché però neanche le femministe propongono leggi per costringere le donne a farsi avanti nella metà dei casi di corteggiamento, o per impedire alle stesse di usare la bellezza per appagare i bisogni d'autostima, di accettazione e di riconoscimento, per legittimo interesse personale, sociale o sentimentale, dentro e fuori l'amore, per avere quello che vogliono dal partner che vogliono, o anche solo per semplice desiderio naturale e vanità, non posso accettare che si impongano censure a quanto negli anni, nei secoli, nei millenni, noi uomini abbiamo saputo costruire per contrapporci a tutto ciò.
Vadano a raccontare a qualcun altro che “è un innocuo contropotere”. Nascendo da un desiderio di natura, non può che precedere, e non già seguire, qualunque tipo di ordine sociale. Quindi è il vituperato “maschilismo”, semmai, ad essere il (sempre più innocuo, dato che ormai si sono ridotte a combatterne un preteso residuo simbolico) “contropotere”. Agendo nel “Mondo come volontà” dei più profondi bisogni esistenziali, sessuali e psichici,  per i quali uomini e donne prendono le scelte nel “mondo come rappresentazione” del denaro, del lavoro, dei ruoli sociali (gli esseri viventi non sono spinti direttamente, come fa credere il “materialismo storico”, dalle regole e dalle apparenze razionali di soldi, lavoro, e potere, ma, semmai, scelgono di ricercare soldi, lavoro e potere come mezzi per raggiungere l'appagamento dei ben più intimi e atavici bisogni di sentirsi riconosciuti, apprezzati, desiderati, ammirati: chi, come la donna ha spesso già l'appagamento di questi senza passare per quelli, ha un privilegio, non uno svantaggio), è molto più pervasivo di quanto viene visto come “vero potere” (che in realtà, come visto, è solo un tentativo più o meno efficace di compensazione).
Se sono diverse (a priori, e non per meriti/demeriti dei singoli) le posizioni di partenza, è profondamente ingiusto volere poi uguaglianza nelle condizioni di gara, se sono diversi i bisogni e quindi gli obiettivi da raggiungere, è altamente iniquo pretendere parità all’arrivo. Poiché sono gli spermatozoi a “partire più indietro”, anzi, sono gli unici a dover partire, mentre gli ovuli sono già nati all’arrivo, uguaglianza (nel diritto alla libertà ed alla felicità) significa lasciare che siano i primi a ricevere (o a costruirsi spontaneamente) maggiori risorse, energie e stimoli per correre; se sono gli spermatozoi a dover correre all’ovulo e non viceversa (e nel caso della competizione automobilistica, la rappresentazione è più che emblematica), allora equità significa non imporre “limiti di velocità” ai primi (come sono di fatto le quote rosa o altre leggi e costumi che limitano gli uomini) e non lamentarsi se le rappresentazioni pubbliche come lo sport incitano più i primi che non il secondo a “correre”.
Se io sono naturalmente, ineludibilmente ed irrefrenabilmente attratto dalle lunghe chiome, dal claro viso, dall’alta figura che bella e lontana la fa mentre la si mira come luna in cielo, dalle membra scolpite come da un divino artefice, dal ventre piatto e levigato, dalla pelle liscia ed indorata come di sabbia baciata dall’onda, dalle chilometriche gambe di modella, e dall’altre grazie che, per dirla con Dante, è “bello tacere”, ed ho profondo e naturale bisogno, tanto nel corpo quanto nella psiche, di sentirmi disiato, ammirato e accettato da chi incarna tale bellezza per qualcosa di altrettanto poeticamente bello, immediatamente percepibile e socialmente luminoso, allora non dico mi si debba spingere a forza una modella nel letto, ma almeno allevare in un contesto nel quale, tanto materialmente quanto psicologicamente, abbia possibilità concrete (ovviamente se l’eccellenza e la costanza nello studio temprate nelle discipline più severe me ne rendono meritevole, e se la delicatezza d’animo e la raffinatezza di spirito, coltivate nelle letture più profonde e grandiose mi rendono sufficientemente degno di cercare di accostare alla bellezza corporale e mortale della donna quella non corporale e non mortale della poesia da essa ispirata) di non apparire ridicolo soltanto per osare un approccio.
Non certo nel contesto lavorativo in cui si introducono quote rosa “perché ci sono troppi uomini”. Come se non fosse un merito essere riusciti, nonostante l’istruzione in mano a donne spesso pure femministe, a sopravvivere alla noia e alla demoralizzazione per emergere poi, al liceo ed all’università, in discipline scientifiche! Come se, quando sono le donne ad essere più brave a scuola e ad emergere in altre discipline (ad esempio lettere e giornalismo), queste non fossero esaltate, e non si desse merito ai loro risultati scolastici “migliori di quelli dei maschi” (il cui minore risultato viene attribuito a minori qualità e non ad eventuali discriminazioni psico-sociali anti-maschili).
Non certo nel contesto psicologico attuale, prodotto dalla cultura ufficiale (dalla quale tutto quanto è, più o meno ragionevolmente, visto come “femminile”, è presentato quale “bello”, “buono”, “pacifico”, “moderno”, “evoluto”, “raffinato”, ”complesso”, mentre tutto ciò che viene più o meno fondatamente sentito come maschile viene visto quale “brutto”, “cattivo”, “violento”, “vecchio”, “primitivo”, “rozzo”, “semplice”) e dall’immaginario hollywoodiano (nel quale i personaggi maschili sono troppo spesso raffigurati o come “molesti”, “bruti”, “violentatori” da punire nel modo più profondo, vasto e doloroso e umiliante possibile, dal calcio nelle palle all’omicidio, o come mezzi ritardati psichici resi ancor più ingenui dal desiderio, pezzi di legno davanti a cui permettersi di tutto, pupazzi da sollevare nell’illusione e gettare nella delusione)! Come se non fosse stata scritta da Torquato Tasso la “Gerusalemme liberata”, nella quale, a contraltare dell’eroe maschile Tancredi (costretto allo stereotipo dalla necessità di conformare la trama principale alla storia reale delle Crociate e i tratti umani ai precetti della Controriforma) appaiono diverse figure femminili (più libere e variegate proprio perché non costrette ad avere un ruolo preciso nella “grande storia”), nelle quali (si pensi alla figura di Erminia ed alla sua passione nascosta) il poeta nasconde le più tenui, delicate, languide, complesse fino al chiaroscuro, sfaccettature del proprio animo (meglio di quanto potrebbero mai fare mille bloggers intimiste), e le più illuminanti, sconvolgenti, a tratti pure moderne (si pensi alla figura di Clorinda guerriera) descrizioni dell’animo femminile (prima di quanto abbia potuto fare il femminismo storico)! Come se il vertice della storia in questa parte di mondo, figlia della Grecia e di Roma, rispetto a cui noi contemporanei appariamo “gnomi sulle spalle dei giganti” non solo per la grandezza delle opere che ancora noi possiamo ammirare, non fosse stato edificato da corpi e menti maschili, come se quei popoli fondatori di città e civiltà di cui le stesse donne (in misura quantitativamente molto maggiore di quanto non facciano gli uomini, se pensiamo all’insegnamento scolastico) continuano (ironicamente?) a studiare e a far studiare, ad amare e far amare l’eredità di pensiero, di monumenti e di leggi, i costumi, la lingua, la letteratura, gli insegnamenti, le idee e le vicende storiche e persino gli dèi, fossero stati composti di altri che di uomini! Non amo la retorica, ma la mia capacità di sopportazione della propaganda femminista ha raggiunto ormai il limite estremo. Non desidererei lanciarmi in dichiarazione che, fuori contesto, potrebbero davvero apparire “maschiliste”, ma il livello raggiunto dal martellamento mediatico avverso necessita ben di una compensazione!
Se non si può cambiare la struttura naturale nella quale spetta sempre e solo ai maschi il dovere della cosiddetta conquista (dalle fiere che devono con certa fatica ed incerto successo inseguire la femmina fuggente chi sa dove, agli usignoli che devono continuamente spandere armonia fino a morire di languore, dai pavoni che devono diffondere la bellezza colorata dalle loro ruota per sperare di essere notati dall’amata ai cervi che devono riservare ogni forza ed ogni abilità nell’incornarsi fra loro per cogliere l’unica opportunità di essere premiati amorosamente), né la sua conseguenza sociale (per la quale, in certi locali notturni, laddove i ragazzi devono pagare e passare una selezione, le coetanee entrano gratis fra grandi sorrisi, ed in ogni luogo e tempo della vita qualunque fanciulla, avente una sia pur lontana simiglianza con qualcosa in grado di suscitare un sia pur minimo palpito di desiderio, è circondata da un corteo di amici-ammiratori pronti a tutto per un sorriso, da una corte di cavalieri serventi disposti a dare tutto in pensieri parole e opere per la sola speranza, da una fila di mendicanti d’amore in perenne attesa della sportula da colei da un cui sì e da un cui no dipendono il paradiso o l’inferno), allora non devono essere cambiate neppure le naturalmente ed umanamente conseguenti compensazioni sociali, (per le quali, nella realtà del lavoro, in certe posizioni non vi è parità uomo-donna, e, nella rappresentazione dello sport, il campione famoso ed apprezzato per capacità e coraggio è attorniato di fanciulle sfolgoranti primieramente per la bellezza)!
Ad una mia amica che sosteneva le pene amorose dover comunque essere sopportate dai maschi in quanto naturali, io auguro che, essendo naturale pure il mal di denti, le venga estratto un molare malato senza la “innaturale” anestesia! La perfidia femminile di queste argomentazioni (è naturale, quindi sopportabile) è evidente dalla constatazione che “l’umano consorzio”, per dirla alla Leopardi, dovrebbe avere quale precipuo fine proprio il tutelare gli individui dal “duolo” che “spontaneo sorge” e, più in generale, permettergli di appagare i bisogni naturali con quante meno difficoltà possibili fra quelle altrimenti postegli contro dalla “Natura Matrigna”. Naturale sarebbe anche lasciare morire i fanciulli più deboli e gli adulti malati “per selezione”. Civile è invece proteggere quelli e curare questi. In natura chi non sa procurarsi il cibo muore di fame. Nel mondo civile, chi svolge il proprio ruolo in società può comprare il cibo con il proprio lavoro. Ecco perché anche il bisogno naturale di bellezza e piacere dei sensi deve, se necessario, poter essere appagato a pagamento. Chi vorrebbe vietare la prostituzione e lasciare il corteggiamento (che, sia detto di passaggio, è prostituzione psichica dell’uomo con ricompensa incerta) come unica possibilità, è ridicolo come chi volesse costringere gli affamati a sedurre una fornaia per potersi sfamare (anziché aprire il portafoglio e comprare il pane con civile accordo). Riconoscere e non reprimere i desideri naturali non deve implicare sottomettersi a disagi, fatiche e privazioni evitabili grazie alla civiltà storica, né tantomeno ai capricci della “dama di turno”. Chi vuole giustificare la naturale preminenza femminile nella sfera psico-sessuale con ragionamenti del tipo “peggio per i maschi se sono naturalmente svantaggiati in quel campo”, dovrebbe essere messa a tacere con repliche del tenore “allora peggio per voi se siete più deboli fisicamente e chiunque può abusare di voi”. Come c’è la cavalleria per tutelare le donne da chi volesse usare violenza per strappare favori senza consenso, così deve esistere un opposto-complementare accordo per permettere ai maschi più deboli e bisognosi nella sfera psico-sessuale di non essere maltrattabili con perfidia o “tiranneggiabili per fame” in quel campo. Ecco perché la propaganda del femminismo maistream, il quale mira a rendere invivibile la vita agli uomini, mette tutto ciò (dalla prostituzione adulta e consenziente agli “stereotipi di genere” che producono “disuguaglianze sul lavoro”) nel calderone del termine “discriminazione”. Il nome infamante serve a non far riflettere sulla cosa in sé (chè, altrimenti, se ne vedrebbero l’umanità e l’equità).
Non mi stupisce l’insistente menzogna femminista del voler far apparire come risultato di una discriminazione “maschilista” l’effetto di un privilegio naturale femminile, facendo perfidamente apparire in colpa quegli stessi uomini che fin da fanciulli, proprio per non subirlo, hanno iniziato ad avviarsi all’eccellenza nello studio meritandosi una superiore posizione lavorativa (da cui bilanciare con cultura, denaro e potere l’arma della bellezza muliebre).
Quello che non finisce mai di stupirmi è la stupidità di una così gran parte degli uomini moderni (ivi compresi, non l’avrei mai detto, insospettabili giornalisti di Autosprint) del permettere alle femmine contemporanee di mantenere la propria posizione di naturale preminenza nelle sfere dell’amore sessuale, dei rapporti sentimentali, delle scelte riproduttive, nello stesso periodo in cui reclamano pari diritti e pari rappresentanza in tutte quelle sfere (dall’arte alla politica, dal lavoro allo sport) che sono state nei secoli costruite dall’uomo proprio per bilanciare tale preminenza.

6.       CONTESTAZIONI PUNTO PER PUNTO ALLE MENZOGNE BOLDRINIANE DI GIORGIO TERRUZZI
Ora che, come vogliono le regole della campagna elettorale, le differenti visioni del mondo  (che prendono qui il posto degli schieramenti politici) si sono chiarite e dichiarate, si può procedere alla contestazione punto per punto delle argomentazioni del Teruzzi.

Quando Giorgio Teruzzi parla di corse maschilista, deve riflettere sul fatto che:
1) Forse la preponderanza di maschi fra spettatori, piloti ed ingegneri dipende semplicemente dal fatto che tutti noi, prima ancora di nascere, eravamo naturalmente “corridori” (spermatozoi) e che, se siamo nati, è perché “quella volta” abbiamo vinto (e voler la miss all’arrivo ad accogliere il pilota con un bacio è un rivivere quell’archetipo di vita-vittoria); si chiama natura, non maschilismo;
2) Forse, anche, molti ragazzi dedicano l’anima all’automobilismo, e, se non hanno la fortuna e i soldi per correre, passano i w/e guardando gare e le notti sognando auto, proprio perché, nella vita sociale con le coetanee, sono trattati con malcelata sufficienza quando non aperto disprezzo da fanciulle di bellezza quasi mai alta ma di comportamento sempre altezzoso (le quali così si possono atteggiare solo e soltanto per la penuria tipicamente italiana di vera bellezza femminile e la dote tipicamente italica di tirarsela vedendosi circondate di tanti maschi focosamente amanti di ogni minima parvenza di beltà), non avendo ancora doti e strumenti per ribaltare i rapporti di forza contrattuale o per cercare altrove altre e meno finte bellezze, si rifugiano nelle auto per comprensibile momentanea disperazione (ed in tal caso, le bellezze siderali svettanti in griglia hanno il positivo effetto di mostrare alle melanzane quanto veramente siano distanti dal modello di beltà dei cui privilegi iniquamente abusano e di indurle a riconsiderare le loro pretese); si chiama stronzaggine femminile, non maschilismo;
3) Se anche il mondo dei motori apparisse davvero così maschilista nella sostanza dei rapporti fra i generi e nel colpo d’occhio sulla griglia, al giudizio del politicamente corretto femminil-femminista, perché dovremmo voler correggerci? Essendo maschile la maggioranza degli appassionati, dei praticanti, e dei protagonisti tanto tecnici per sportivi, perché dovremmo lasciar decidere alle donne, ultime arrivate con già pretese di dettar legge? E addirittura lasciare decidere non alle addette ai lavori (come le stesse grid girls), non alle pilotesse (come Susie Stoddard che terrebbe le grid girls), ma a donne di lobbies che magari non guardano neanche i gran premi? In democrazia decide la maggioranza. E anche negli stati non-democratici, decide la casta dei fondatori e dei guardiani, non la “gente nova” dai “subiti guadagni” di dantesca memoria. Ci permettiamo forse noi di cambiare le regole dei gruppi femministi che per discutere escludono gli uomini? Chiediamo forse noi appassionati di cambiare qualcosa nel grigiore delle riunioni politicamente corrette cui le donne partecipano? A me certi ambienti non piacciono e quindi cerco di starne alla larga. Si chiama scelta personale. Se alle donne non piace il mondo dei motori perché maschilista, possono benissimo non guardare i gran premi. Sarebbe una perdita numericamente molto meno rilevante di quella dei ragazzi che magari iniziano a guardare le griglia per le grid girls. Quindi lasciare le grid girls è razionalismo democratico, non maschilismo;
Quando Giorgio Teruzzi parla di violenza, si deve ricordare che:
1)      I cosiddetti “grandi numeri” della violenza nascono da “sondaggi” nei quali alla voce “violenza” viene conteggiata qualunque risposta positiva a domande del genere  “ha mai alzato la voce?“, “ha mai mostrato disprezzo per le tue opinioni?”, “ti ha mai rifiutato qualcosa”, o “ti ha mai criticata”, cui qualunque persona non abbia vissuto soltanto nella cella di un commento potrebbe dire “sì” pur senza avendo subito nulla di oggettivamente violento dall'altro sesso. Se le stesse domande e gli stessi criteri di definizione lasca, arbitraria ed unilaterale di violenza (senza peraltro alcun obbligo di riscontro o possibilità per la controparte di ribattere) fossero concessi anche agli uomini, si scoprirebbe che, magari non due uomini su tre, ma proprio tre su tre hanno subito violenza fisica o psicologica dalle donne.
2)      Parlando di fatti decisamente più gravi e dimostrabili, non vi è alcuna “emergenza femminicidio”. I dati basati sulla realtà non registrano da decenni alcun aumento delle uccisioni di donne da parte di uomini. I giornali ne parlano solo perché, da qualche anno, c'è la volontà di vedere ogni singolo caso come parte di un intento “collettivo” maschile di “genocidio”. Certo, umanamente, anche un caso soltanto è "troppo". Lo stesso però potrebbe essere detto di ogni omicidio, anzi, di ogni reato. Gli omicidi sono sempre "troppi", ma se da anni sono assestati su un minimo statisticamente "fisiologico" (343, l’anno scorso, su milioni di abitanti), non si può gridare all'allarme sicurezza solo perchè non sono ridotti a zero. Lo stesso dicasi per i furti. Parlare di "escalation" quando i dati non si discostano dallo storico serve solo a creare insicurezza a fini politici. Tutti ci auguriamo che nessuno ruba o uccida. Nessuno giustifica il furto o l'omicidio in alcun modo, nè ne sminuisce la gravità. Il fatto però che, nonostante questo, furto ed omicidio non siano spariti del tutto “in anni e anni di parole”, non autorizza nessuno a sostenere che gli Italiani "abbiano una sospetta complicità con i ladri" o "siano portatori di una cultura in parte omicida". Questo sarebbe, ancora una volta, lo schema di ragionamento "medievale" che punta a far sentire in colpa le persone "collettivamente" (per l'inevitabile "peccato" che segna il genere umano) in modo da far poi loro accettare qualunque sopruso e qualunque assurdità come "redenzione". E l'ultimo femminismo, Boldrini in testa, sta facendo proprio questo contro gli uomini. Utilizzando alcuni episodi di cronaca nera come "paradigmatici" (quando, numeri alla mano, sono l'eccezione, non la regola), si sta montando una campagna diffamatoria contro il genere maschile, tentando di giustificare con essa futuri provvedimenti contrari al diritto ed alla ragione (come, ad esempio, con la scusa di "proteggere prima le vittime", dare a qualunque donna il potere di mandare in galera qualunque uomo con la sola parola dell'accusa, anche prima ed anche senza riscontri oggettivi e testimonianze terze della presunta "violenza", come già avviene in certi caso nell'anglosfera) e per far accettare in toto, senza possibilità di replica, riflessione e dibattimento, la “narrazione femminista” di cui si è discusso nei capitoli precedenti (chi non è d'accordo con essa è tacciato di maschilismo, di complicità con i violenti, di collusione con la "cultura della violenza").
3)      Il fatto che il cosiddetto femminicidio sia una montatura non vuol dire che reati contro le donne non esistano, ma semplicemente che sono spesso la spia non di una particolare "malvagità" maschile, bensì di una umana incapacità di tollerare la perfidia femminea unita all'oppressione femminista. Si usa spesso snocciolare cifre di omicidi e degli omicidi/suicidi per passione. Le cifre non sono bilanciate. Si riporta il marito che (magari prima di vedersi costretto a vivere privato degli affetti e dei beni, della casa, delle ricchezze e dei figliuoli, e dunque delle ragioni e dei mezzi per vivere) uccide la moglie, ma non si riporta il ragazzo che, caduto nella trappola amorosa della "dama" di turno, si impicca per disperazione sentimentale. La violenza è nel mondo, e per ovvi motivi gli uomini tendono ad usare quella fisica, le donne quella psicologica, ma non è scontato quale delle due sia più grave. Dipende dai casi. Inoltre non ci si può stupire se con l’inganno si genera quasi la follia nell’animo altrui e le reazioni sono inconsulte. Non vi è infatti il diritto di molestare nel sesso il prossimo con la menzogna o la falsa illusione (sia essa fisica o psicologica), né per gli uomini né per le donne. Se ammettete l'irrazionalità nel comportamento umano dovete ammetterla in amendue i sessi, non solo dove vi fa comodo. Fra uno che spara e una che suscita ad arte la disperazione per indurre al suicidio non trovo differenza. Distinguerei poi i delitti fra fidanzati e amanti, il cui movente è solo passionale puramente, da quelli fra coniugi, in cui subentrano molti altri fattori, quali la necessità di sopravvivere economicamente, di non farsi defraudare degli averi e dei figli, di doversi ricostruire una vita, di veder distrutto tutto quello per cui si era lavorato e sofferto (la famiglia, i beni, la casa ecc., l'avvenire sereno in famiglia, la vecchiaia consolatrice ecc.). Nel primo caso, spesso, il tutto è accompagnato sovente dal suicidio (per cui è il classico esempio di ciò che si dice "omicidio altruista"): si tratta di una dimostrazione di quanto detto da Nietzsche: "le donne sembrano sentimentali, gli uomini invece lo sono. Gli uomini sembrano crudeli, le donne invece lo sono". Se noi uomini fossimo davvero crudeli di una superficialità da rieducare, come vuole il femminismo, non potremmo essere portati alla disperazione da motivi sentimentali. Nessuno ucciderebbe o si suiciderebbe se considerasse l'amore come puro divertimento sessuale e la donna un mero “oggetto di desiderio”, come siamo accusati di fare. Se davvero spesso gli uomini non possono rassegnarsi alla perdita dell'amata (come non vi si sono rassegnati i poeti da Tibullo a Petrarca) è invece solo e soltanto perché quanto per le donne, alla fine, è solo un mezzo per ottenere apprezzamenti, appagamenti di vanità, sicurezza per la prole, bella vita per sè, regali, mantenimenti o anche solo momenti psicologicamente piacevoli, per gli uomini è davvero, parafrasando il Tasso, "vita de la loro vita", un'essenza e un senso vitale senza i quali la vita stessa perde significato e al di là dei quali resta solo la possibilità di uccidere o essere uccisi. Se solo gli omicidi commessi per mano maschile fossero maggiori di quelli compiuti da donne, allora si potrebbe (volendo rimanere ciechi alle motivazioni di chi di fatto viene in occidente dalle donne vampirizzato con beneficio di legge) ancora ammettere per ipotesi la tesi della "violenza maschile". Poichè invece, parallelamente, anche i suicidi amorosi sono maggiori da parte degli uomini, allora si deve concludere in favore della mia tesi. E far passare per maggiore malvagità quanto è invece maggiore e più profonda sentimentalità significa avere nel cuore non il chiaro di luna, bensì il NERO DI SEPPIA. Nel secondo caso, invece, il tema amoroso non è sempre quello scatenante. Come detto, vi sono altri elementi decisivi. Lo vedo quasi come un distruggere pria di essere distrutti, una sorta di "muoia Sansone con tutti i filistei (le filistee?)". Spesso si tratta di una lotta per la sopravvivenza, di una vendetta per non subire la distruzione della propria famiglia, della propria identità, della propria vita, della propria dignità, del proprio onore. La vita dell'uomo separato è troppo spesso simile a quella dell'esule: senza famiglia, privato degli averi, della casa, dei mezzi di spostamento, spesso inviso all'ambiente sociale, lontano dai figli, vaga in cerca di una nuova vita, di un tetto e di un lavoro (anche umile o faticoso) che gli permetta di pagare i debiti (magari un mutuo contratto per la casa ora non più sua) e gli alimenti. Vi è chi prende tutto con dignità e con filosofia e con entusiasmo ricomincia daccapo (anzi, da meno quello che deve pagare della vita precedente), e chi invece concepisce tutto questo come un'insanabile ingiustizia (perché, se i sessi sono pari, i figli e la casa finiscono sempre alla donna, e la colpa quasi sempre a lui? Perché i capricci e le difficoltà psicologiche della donna sono sempre giustificate, con frasi del genere "è insoddisfatta della vita di coppia, della noia casalinga o del doppio lavoro ecc., del disinteresse del marito, si sente oppressa, soffocata ecc." e quelle dell'uomo, come le scappatelle, no?) alla quale si ribella nel solo modo possibile (una volta che la legge e la società gli sono contro): quello del tirannicida alfieriano (o, se vogliamo, del terrorista). Poichè però si tratta di migliaia di casi su milioni di cittadini e di cittadine, e che, per dirla chiaramente, anche ammettendo la percentuale di “stronze” attorno ad un prudenziale dieci percento, resta infinitesima la probabilità anche per la più stronza fra le stronze di venire uccisa, violentata, o anche solo picchiata per vendetta, è un'impostura parlare di “violenza maschile contro le donne” e tanto più di  “femminicidio”.
4)      il numero delle donne uccise è minore di quello degli uomini che muoiono sul lavoro (e quindi per il profitto di una società che continua, come in un non troppo lontano passato in cui le donne venivano esentate, per esempio, dal servizio militare, a considerare quello maschile come “sesso sacrificabile”) o assassinati (da altri uomini e non da donne, certo, ma comunque all’interno di episodi criminali nei quali rimangono invischiati con probabilità maggiore dell’altro sesso proprio perché, al contrario, come spiegato più volte, delle donne, non hanno modo di ottenere ruolo sociale e considerazione amorosa se non raggiungono una certa posizione e un certo guadagno: e quando le condizioni oggettive o le capacità soggettive non permettono di ottenere tali obiettivi legalmente, non restano alternative all’accettazione del rischio insito nelle attività malavitose).
5)      Il numero di donne che subiscono violenza dagli uomini è un infinitesimo di ordine superiore rispetto a quello degli uomini la cui vita può essere distrutta in qualunque momento dalle donne. Non sono le donne potenzialmente meno assassine degli uomini, lo sono (per forza di cose) in maniera diversa: possono (per tutti i motivi variabili dall’irragionevolezza momentanea all'interesse economico-sentimentale, dal rancore generalizzato al patologico bisogno di sentirsi vittime, dalla vendetta arbitraria al gratuito sfoggio di preminenza sociale) distruggere (materialmente, moralmente, socialmente, economicamente, giudiziariamente, psicologicamente o anche fisicamente) la vita di chi vogliono (fino ucciderlo o a renderlo un morto vivente) senza doversi esporre in prima persona, ma semplicemente inducendo un altro uomo ad uccidere per loro o (sfruttando a fini personali le leggi a senso unico su aborto, divorzio e violenza sessuale) inducendo l'intera società ad essere l'esecutrice della volontà di assassinare socialmente la vittima designata. La vita di un uomo preso di mira da “stalking giudiziario” femminista può divenire simile a quella dell'esule ottocentesco, privato di famiglia, casa, roba, depredato di ogni avere, allontanato dai figli e dagli affetti materiali e morali, derubato di ogni possibilità materiale e morale di rifarsi una vita e di ogni residua speranza di felicità, a volte pure della libertà e della salute con accuse false o strumentalmente esagarate ad arte (conducenti alla galera preventiva grazie a stupidità cavalleresca e demagogia femminista applicate alla giurisprudenza, per la quale si può finire in galera sulla sola parola di una donna anche prima e anche senza riscontri oggettivi e testimonianze terze della presunta "violenza").  Ho visto tante situazioni in cui i mariti vengono bersagliati dalle ex-mogli in ogni modo umanamente immaginabile, vivono quasi peggio dell'esule ottocentesco (alcuni dormono davvero in macchina perché non riescono a pagare l'affitto, tanti svolgono lavori faticosi con straordinari impossibili per pagare alimenti impossibili, tanti cambiano lavoro e città) e devono subire umiliazioni (pubbliche e private) di ogni sorta (dagli schiaffi ai quali non possono replicare per non essere accusati di violenza, alla calunnia con amici e tribunali), accuse false e infamanti (di default quella di violenza, spesso accompagnate da altre invenzioni più fantasiose riguardo ad abitudini sessuali, comportamenti e fatti privati in famiglia), falsità e malignità (mettere i figli contro e sparlare con i conoscenti dando al marito la colpa di tutto), soprusi ed angherie, pignoramenti improvvisi e ingiustificati, veri e propri espropri (di auto e di case), e il tutto in maniera perfettamente legale e protetta dalla mentalità femminista e dalla società galante, che persino un uomo mite e pacifico come me (una volta ferito nell'intimo e in quello che doveva essere un aspetto di dolcezza) potrebbe trasformarsi in un efferato killer.
6)      le presunte "violenze" potrebbero essere non arbitrari e unilaterali strumenti di oppressione di un carnefice su una vittima, ma mezzi di offesa/difesa all'interno di un rapporto conflittuale in cui ciascuno, per interesse, tirannia ed ottenimento della preminenza, usa (con poche remore, regole e limitazioni) le armi che ha, e in cui l'uso magari da parte della donna della violenza psicologica al posto di quella fisica non dimostra maggiore bontà bensì maggiore perfidia, non denota un essere vittima ma un diverso modo di essere carnefice. Se si parla di violenza verbale o psicologica, le donne (al contrario di quanto accade nello scontro fisico) non hanno certo per natura meno armi, anzi (le disparità di desideri nell'amore sessuale e quelle psicologiche, legate alla predisposizione all'esser madri, e quindi a manipolare anime pur mo' nate, le permetterebbero di sfruttare dipendenze erotiche e affettive e a fine di tirannia, ricatto, prepotenza, vanità), e per legge e costumi hanno la possibilità del vittimismo e della violenza della legge (o di quella da agire per interposta persona: vedi mandanti di varia natura, non ultima quella che aizza i figli contro il padre), quindi non ha senso considerarle meno violente a priori (come implica , anche perchè, come mostrano certe statistiche di cui non si parla, con i bambini, più deboli, lo sono spesso anche fisicamente (e statisticamente più degli uomini) e soprattutto l'esperienza quotidiana mostra che ad alzare la voce e a criticare il partner in pubblico o anche a tirare oggetti e ad alzare le mani per prime (confidando in cavalleria, o timore della legge, e colpo a tradimento o scorretto) le donne superano spesso gli uomini;
7)      Specie all'interno di legami sentimentali degenerati in litigi, contese e ripicche, le testimonianze possono essere completamente inventate o esagerate ad arte (per capriccio, vendetta, ricatto, interesse di risarcimento o gratuita volontà di distruzione della vita dell'altro). Già così si rischia sulla sola parola della donna, anche prima e anche senza riscontri oggettivi e testimonianze terze della presunta violenza, di essere allontanati dalla casa, dai figli e costretti a sostenere i rischi e i costi di un processo per violenza (per non dire per pedofilia su false accuse), e se l'ex trova un'amica pronta a testimoniare (di aver visto anche solo uno schiaffo), pure di essere arrestati prima del processo. Vorreste forse tu e i tuoi amichetti femministi filo-boldriniani, la “legge integrale” spagnola, per cui si può addirittura finire in galera come criminali, privati di ogni bene, di ogni libertà, di ogni rispettabilità sociale e di ogni speranza materiale e morale di ricostruirsi una vita, non solo senza prove ma pure senza processo?
Quando Giorgio Teruzzi parla di molestie, deve tenere presente che:
1) i “casi che non cessano di emergere” nascono semplicemente dall’ultima moda delle attrici di Hollywood un po’ stagionate e un po’ bisognose di soldi, notorietà e vendetta, di accusare ex-post chi a suo tempo ha concesso loro una corsia preferenziale di carriera in cambio di favori particolari, facendo passare per abuso quanto è stato a suo tempo un do ut des (di cui oggi, riscosse tutti i vantaggi in fama e guadagni, fingono di pentirsi riscoprendo una “dignità” che rima piuttosto con menzogna, ipocrisia, caccia alle streghe);
2) per quanto molesto o insistente sia un approccio, sarà sempre meno molesto e meno pressante della condizione stessa di chi è obbligato a farsi avanti alla cieca (senza sapere cosa e come sarà gradito, dovendo scervellarsi per divinare quale eventuale dote o aspetto di sé debba far emergere dal primo contatto, e implorare il cielo per avere una minima occasione di rendere sensibili quelle proprie sfumature di sentimento o intelletto con cui essere potenzialmente, se non apprezzato, almeno distinto dalla massa degli altri pretendenti giornalieri, con il rischio invece di essere irriso, posto in ridicolo, trattato come uno fra i tanti, un banale scocciatore, o addirittura additato ed accusato di “molestare”) e della consapevolezza di doverlo fare sempre, ovunque e comunque (legge dei grandi numeri) per avere una non infinitesima speranza di riuscita (provando tutte le volte l’illusione e la delusione);
3) non si può accettare che possa a posteriori, e su arbitraria e soggettiva definizione demandata alla “sensibilità” della presunta vittima, essere classificato fra le “molestie” qualunque sguardo, detto, atto o toccata non abbia altra colpa se non manifestare (in maniera vagamente poetica o decisamente prosaica, in modo psicologicamente raffinato o fisicamente semplice, con modalità aristocraticamente letteraria o volgarmente schietta, l’interesse dell’uomo per il corpo della donna e magari comunicare (più o meno consciamente, più o meno ironicamente, più o meno direttamente), specie se da parte delle donne si continua, in massa, a pretendere comunque che sia sempre e solo l’uomo a fare la prima mossa (già è problematico vincere l’irrazionale timidezza del farsi avanti, già è faticoso dover inventarsi dal nulla un tentativo non velleitario, già è difficile superare il razionale pessimismo del calcolo delle probabilità, che, se anche solo il primo tentativo è a rischio di denuncia, allora tanto vale davvero dedicarsi solo alle puttane) e considerando che (per insondabili motivi di interesse –aumento del proprio valore economico-sentimentale per via del numero degli ammiratori - o di gratuita vanità – godere delle pene e delle incertezze altrui) raramente esse si degnano di non essere ambigue, ma anzi sovente usano il diniego o il forse per testare l’effettivo interesse dell’uomo e costringerlo a soffrire ed offrire sempre di più in ogni termina materiale e morale (esse si sbaglia intendendo un no per un sì mascherato da contrasto madonna-messere di Cielo d’Alcamo, si rischia la denuncia, ma se si sbaglia in senso in verso, prendendo per no vero un diniego momentaneo posto ad arte, si ha la sicurezza di essere disprezzati come “non abbastanza pazienti” e “pavidi nel corteggiamento”);
Quando Giorgio Teruzzi parla di battute sessiste e offensive, dovrebbe vedere anche che:
1) anche la più volgare delle battute a sfondo sessuale, contiene un fondo di complimento, se non altro nel fatto stesso di denunciare un sincero, profondo ed istintivo desiderio naturale per le grazie della donne che la volgarità certo abbruttisce e a volte nasconde, ma sicuramente non cancella; al contrario, quando battute femminile volgono a farci apparire “sfigati”, e quando respingimenti alle nostra advances sono effettuati con studiata perfidia di corpo e d’anima, plateale
2) le donne non si scusano mai, ma continuano a ridere quando, seguendo la moda della televisione e del cinema, e di certa pubblicità denigratoria antimaschile (che nessuna Boldrini si è mai preoccupata di censurare) si permettono su di noi battute del genere “voi uomini siete lenti” (per noi appassionati di velocità, offesa sanguinosa ben oltre il suo valore di pregiudizio di genere sul nostro modo di pensare e di vivere) o “ormai non servite più a niente” – e sono battute dette con intento; di conseguenza io, se per caso offendessi qualcuna con una battuta osè o sessista senza volerlo, non sentirei certo il dovere di scusarmi;
3) la principale forma di molestia-violenza femminile ai nostri danni, di cui non solo le donne non si scusano mai, da di cui anzi rivendicano il diritto ad esercitare, ovvero il “fare la stronza” (ossia suscitare ad arte il disio solo per compiacersi della sua negazione e di come questa, resa massimamente beffarda, dolorosa e umiliante da una studiata e raffinata perfidia, possa gettare nell'inferno della delusione dopo le promesse del paradiso della concessione; attirare direttamente o indirettamente chi non si è affatto interessate a conoscere bensì soltanto a respingere, deridere intimamente o pubblicamente facendolo sentire uno fra i tanti, un banale scocciatore; mostrare le proprie forme fra vesti discinte solo per porsi su un piedistallo di irraggiungibilità, per generare frustrazione negli astanti, per farli sentire nullità di fronte ad una bellezza non compensabile, per maltrattarli se tentano un qualunque approccio; usare sguardi, movenze, e svestimenti per indurre a farsi avanti chi si vuole soltanto disprezzare, rendere ridicolo a se stesso e agli altri, ferire nell'intimo e irridere nel disio in maniera traumatica e indelebile, trattare da molesto e far sentire privo di qualità come uno straccio da gettare; sfruttare le debolezze erotico-sentimentali per infliggere dolore fisico e mentale, per provocare disagi da sessuali ad esistenziali, per realizzare sbranamento economico-sentimentali o comunque psicologici; usare insomma l'arma della bellezza per ingannare, irridere, ferire, umiliare, come e peggio di quanto un bullo farebbe della forza fisica verso un ragazzo più debole) è ormai nell'occidente femminista divenuto comune tanto sui luoghi di lavoro quanto in quelli di divertimento, tanto nei rapporti più fugaci e occasionali quanto in quelli più lunghi e sentimentali. Qui quale simbolica iniziativa culturale o sportiva possiamo intraprendere per educare le nuove donne a non “stronzeggiare” così? Minacciamo loro di togliere George Clooney dai teleschermi?
Quando Giorgio Teruzzi parla di “figli da educare”, dovrebbe assolutamente tener presente che:
1) Chi ha oggi un figlio maschio, non può augurarsi che Quella sottospecie di stato di natura rappresentato dall'età scolare (nella quale, mentre sulle coetanee già fiorisce la bellezza, ai maschi non è ancora data la possibilità di conseguire e mostrare doti con cui essere parimenti disiati amorosamente, accettati socialmente, ammirati immediatamente e quindi, in attesa delle ricchezze e dei poteri cui aspireranno con merito o fortuna da adulti, vivono “giorni orrendi in così verde etade” se non troppo stupidi per capire la situazione dietro il velo di maya dell'amore pseudouniversale predicato dalle insegnanti) duri a vita, con delle presunte insegnanti in diritto di dirgli sempre cosa è bene e cosa è male dall'alto di una presunta superiorità morale o di una presunta maggiore maturità e delle belle fanciulle in potere di irriderlo (nel pubblico o nel privato), ferirlo (nella psiche, nel sentimento, nel disio) o tiranneggiarlo (nell'erotismo o nella vita) grazie a una desiderabilità non compensabile. Leopardi ha scritto verità immortali ed incancellabili su come si comportano le “melanzane”, soprattutto verso chi ha intelligenza e sensibilità. E' evidente da come l'hanno trattato. E poi si lamentano di chi diventa (o si finge) stupidi e insensibili! C'è sì da agire su ragazzi e ragazze, ma non nel senso auspicato dal femminismo e propagandato da Hollywood e Liberty Media.
2) Hanno un effetto devastante sulla psiche e l’autostima dei giovani maschi quelle pubblicità “glamour” nelle quali la figura dell’uomo, denudata anche fisicamente, è ridotta a quella di un pupazzo da sollevare nell’illusione e gettare nella delusione con il massimo dell’umiliazione e del dolore possibili, addirittura (vedi quella della Breil di qualche anno fa) da gettare, ad esempio, da un’auto in corsa (a differenza delle tanto vituperate pubblicità “degradanti” per la donna rappresentata come un’oca bella, nelle quali comunque rimane al sesso femminile il privilegio dell’apprezzamento per la bellezza e del desiderio della fisicità, qui il nudo è veramente umiliante proprio perché non ha valenza erotica e al sesso maschile non resta nulla per ricevere un minimo di stima, di interesse, di ragion d’essere: solo disprezzo, rancore, inganni e perfidia), nonché tutta quella cultura tanto “ufficiale” quanto “informale” la quale, a volte con interpretazioni giornalistiche estemporanee di notizie originariamente scientifiche (vedi gli studi sul cervello presunto “multitasking”), a volte con dati parziali (si dice che le ragazze sono mediamente più brave a scuola, ma non si fa menzione del dato sulla varianza – la maggior varianza fra i maschi fa sì che fra noi ci sia sì il maggior numero di somari, ma pure il maggior numero di menti eccellenti – verità che è costata il posto, qualche anno fa, al rettore di Harvard) a volte proprio partendo dal nulla (tipo “le donne sono rock”), non perde mai occasione per mostrare le donne “superiori” in tutto (anche perché, laddove si mostrano invece superiori gli uomini, interviene il femminismo più politically correct a parlare di discriminazioni).
3) Ormai le metastasi del politicamente corretto sono penetrate tanto in profondità nell’istruzione che anche in corsi a livello universitario, con la scusa di parlare in Inglese, si ascoltano “istruttivi e divertenti programmi comici” dell’anglosfera in cui le due principali battute vorrebber non troppo ironicamente convincere che (contrapposta a quella piena, raffinata complessa e bla bla bla della donna) la mente dell’uomo sia una scatola vuota (come se, dal vuoto di questa vita umana (data, guarda caso, dalle donne), non fossero stati proprio gli uomini a creare le principali consolazioni dell’esser nati: l’arte, la matematica, le religioni spirituali, e, non ultime, da ormai più di un secolo a questa parte, le automobili da corsa) e un futuro progredito debba possa soltanto essere a guida femminile (come se, nella realtà storica, non fossero stati al contrario i popoli patriarcali – la Grecia Omerica, la Roma Repubblicana, l’India Vedica, la Persia Iranica, la Germania Sacra e Imperiale - secondo quei principi etico-spirituali virili, aristocratici e guerrieri, di cui riecheggiano l’Iliade, l’Eneide, la Baghavad Gita, i poemi persiani l’Edda, il Beowulf, a segnare, in fasi, luoghi e tempi diversi, il passaggio dal tutto indifferenziato di un’umanità una-e-primordiale – egalitaria, matriarcale e senza classi- alle strutture, alle gerarchie ed alle identità propriamente storiche - senza le quali nulla, di quanto, nel bene e nel male, rende unica la nostra specie, avrebbe mai potuto esistere, senza le quali nulla di quanto siamo, come popoli e nazioni, avrebbe potuto differenziarsi, senza le quali la storia stessa non avrebbe avuto nulla di diverso dalla zoologia - ad ordinare, insomma, il chaos in kosmos e a prevalere sistematicamente, in ogni scontro di civiltà, sui popoli matriarcali, non solo con le armi, ma anche e soprattutto con la maggiore coesione sociale e la più decisa volontà di destino, petto alla quale, sia detto per inciso, gli strumenti della cultura e della tecnologia sono sempre agiti e giammai agiscono, come accade invece con noi, uomini moderni dalla piccola politica e dalla debole volontà, che ci lasciamo cambiare – ma dovrei dire degenerare antropologicamente - senza consapevolezza né controllo da facebook e dallo smartphone, altro che “evoluti”!).

0.       INTRODUZIONE
Un giornalista sportivo dovrebbe, intelligentemente, limitarsi a dissertare dello sport di cui è appassionato ed esperto, evitando di intraprendere discussioni su storia, filosofia, politica e costume, perché, in primis, fa perdere tempo al lettore su argomenti diversi da quelli per cui è stato acquistato il giornale, in secundis rischia di indispettirlo propinandogli, sotto l’aurea etichetta “informazione”, una certa visione del mondo a cui ogni libero pensatore ha tutto il diritto di non aderire ed infine rischia, proprio su quest’ultimo aspetto, di essere platealmente confutato dai lettori, i quali non sono tutti superficiali scolaretti cui si può insegnare come “verità” (e pure col tono della ramanzina) una narrazione del tutto arbitraria pur se, ahimè, oggi universalmente diffusa presso i media mainstream (leggasi: controllati da certi ambienti vicini alla finanza da sempre senza patria ma oggi con sede in USA).

1.       LA PEGGIOR MITOLOGIA PROGRESSISTA FA BRECCIA IN QUELLO CHE FU UN GIORNALE DA CORSA
La mitologia del “progresso storico” (che non va affatto confuso, come si tende a fare da due secoli, con il fatto del progresso scientifico, sviluppatosi, semmai, “nonostante”, e non “grazie a”, il primo), quale è riuscito a sopravvivere alle smentite tanto della grande storia (abbiamo visto tutti dove hanno condotto le utopie del “sol dell’avvenire”) quanto della piccola attualità quotidiana (ove tutto si può dire delle donne tranne che siano le “creature svantaggiate ed oppresse” quale emergerebbe dalla grande menzogna femminista di cui la presidente della Camera è solo l’ultima strillante, piagnucolosa, “coccodrillesca” epigona), si fonda sull’assunto hegeliano secondo il quale tempo della storia sarebbe una linea retta sulla quale le varie “figure dello spirito” sarebbero fatalmente destinata a muoversi “a senso unico”, secondo un “inevitabile” sviluppo “fenomenologico”, verso un altrettanto inevitabile “fine ultimo”.
Nella visione del mondo che sento come mia (in parte ispirata dal principale “allievo” di Schopenhauer: Friedrich Nietzsche), invece, il tempo della storia è sferico, e in ogni momento l’uomo può decidere se proseguire tornando sempre sullo stesso punto o virare cambiando direzione ed esplorando nuovi spazi. E la “decisione” (spesso nemmanco consapevole) non è determinata da nulla di “teleologico” (per chi sa cosa significhi: finalistico, stabilito dalla pre-scienza divina), ma è puramente casuale (come casuale, ah Epicuro, è il mondo) e dipende, di volta in volta, dal risultato dello scontrarsi o del congiungersi di diverse forze puramente umane e puramente storiche.
Ne consegue che per me non c’è nessuno “sviluppo storico”, nessuna sedicente “evoluzione umana” da seguire “necessariamente”. Specie se si tratta di convincermi a cancellare, dannare e condannare la parte più intima e vera di me (che, Nietzsche docet, è sempre sicuro e ben radicato istinto, mai “superficiale” e “fallace” “ragione”).
Quando parla di “evoluzione autentica”, Giorgio Teruzzi dimentica la grande lezione nietzscheana secondo la quale l’autenticità non può risedere nella cosiddetta “Ragione”, intesa come i(la quale, per il semplice fatto di prendere uno sviluppo lineare e logico in qualcosa di intimamente circolare, anzi labirintico, e necessariamente ricco di contraddizioni, come il pensiero e l’animo umani, ha sempre un fondo di mistificazione e tradimento, ben sintetizzato nel motto “ogni parola scritta è una menzogna”), né, più in generale, in costruzioni culturali, ideali o ideologiche (le quali, tanto più pretendono di dare ordine al mondo e senso alla vita, tanto più mistificano l’uno e tradiscono l’ altra), bensì in sani, profondi ed infallibili istinti.
Anche il termine stesso di “evoluzione”, se vuole avere un significato non mistificatorio, deve ricondursi agli “antichi” istinti (i quali dalla nascita della vita permettono a questa, specie per specie, di mantenersi, diffondersi, selezionarsi, perpetuarsi ed accrescersi), piuttosto che alle “moderne” facoltà umane (sedicenti “superiori”, ma in realtà, proprio perché più recenti nella scala temporale dell’evoluzione, ancora fallibilissime).
Sebbene certe “teorie gender” (esse sì, antiscientifiche, in quanto negatrici della dimostrabilissima distinzione biologica fra i sessi) vogliano far credere il contrario, il naturale desiderio dell’uomo per il corpo della donna è natura, non cultura. Anzi, è una delle poche variabili umane a non poter mutare per contratto sociale, uno dei pochi esempi di “valore umano universale” (ovvero accumunante i popoli più diversi alle più diverse latitudini). E’ quanto di più profondo e vero (o vogliamo dire “autentico”?) esista al mondo. Proprio il sorgere del pensiero “con una così chissà cosa farei”, di cui Teruzzi “ci” (o “si”?) accusa come di una deviazione o di una colpa, ha tutta naturalità di un fiore che sboccia pei campi, di una cascata che irrompe alla calura, dell’avvento della primavera o (se vogliamo citare Oscar Wilde per non essere tacciati di omofobia) del “riflesso sull’onda lucente del mare notturno di quella conchiglia d’argento che chiamiamo luna”.
Per questo pretendere da tutti noi di “non sentirsi autorizzati, alla vista di una bella donna, a pensare che, con una così, chissà cosa farei” significa voler far sentire in colpa l’uomo non per quello poi che fa o che dice, ma per quello che prima (mosso dal più profondo ed autentico dei propri desideri), pensa e sogna, ovvero per quello che è. Poiché nessun uomo potrà evitare, prima di tutto e a prescindere da tutto, di desiderare una creatura come la “grid girl”, appena il suo sorriso, rosso di promesse e di misteri, la sua figura, alta e statuaria come la perfezione di una divinità, le sue chiome al vento e tutte quelle grazie che, come direbbe Dante, “è bello tacere”, si fanno sensibili agli occhi, e poiché sempre, nel suo pensiero, parlerà per primo il desiderio (se tale primato non fosse “natura”, nessun maschio di nessuna specie si muoverebbe per primo, con tutti i disagi, le fatiche e i rischi, a volte mortali, conseguenti) e con esso la fantasia (senza la quale l’umanità non conoscerebbe la Poesia), la “mancata autorizzazione” a pensare “cosa farei” ha il solo scopo di farlo sentire in colpa per quello che è intimamente (e non potrà mai cessare di essere finché non accetterà di mentire a se stesso, di farsi altro da sé, di essere “inautentico”) e la sola conseguenza di rendergli alla lunga insopportabili o se stesso (con ovvie conseguenze autodistruttive su vita, psiche e autostima) o le stesse donne (rispetto alle quali sarà separato da una muraglia di ipocrisie, di sensi di colpa, di inibizioni, di comprensibili rancori nei confronti di coloro che lo vogliono dannare, punire o comunque disprezzare solo perché, nel modo più immediato, intenso e sincero, le sta apprezzando e proprio perché le sta apprezzando, senza avere ancora modo di farsi parimenti apprezzare, altro che “emancipazione condivisa”!).
Che la prima conseguenza, a parole, sia una battuta volgare piuttosto che un sonetto petrarchesco, e che eventuali successive conseguenze, nei fatti, portino a tentare un abuso piuttosto che ad offrire gentilmente qualcosa che la controparte ha la libertà di accettare o rifiutare, con cui si calcola di “bilanciare” la bellezza (tramite, magari, ciò verso cui quella donna è mossa da bisogno, desiderio, apprezzamento e brama pari a quanto da noi provato per le sue grazie) è cosa, questa sì, dipendente dalla cultura, dal gusto, dall’intelligenza e dal “progresso mentale” dei singoli uomini. Non è decisa in partenza dal dannato e condannato “pensare con quella lì cosa farei”.
Supporre a priori che capiti sempre la prima delle alternative elencate è, questo sì, un pregiudizio di genere (antimaschile). Ed utilizzarlo per convincerci a reprimere persino nel pensiero e nella fantasia il nostro desiderio naturale, come vuole fare il femminismo mainstream è, prima ancora che impossibile, totalmente inaccettabile e sbagliato. Difatti:
1.       L’immediatezza e l’intensità con cui il desiderio dei sensi sorge in noi non appena le grazie ch’è bello tacere si fanno sensibili danno ad esso l’insopprimibilità di un bisogno, e come tale, non può essere cancellato da “mancata autorizzazione” né tantomeno da giudizi morali negativi;
2.       Se anche si volessero utilizzare giudizi morali, non essendo una nostra scelta quella di essere soggetti a mirare, disiare, seguire e cercare di ottenere la bellezza nella vastità multiforme delle creature femminine non appena queste mostrano le loro grazie, non può nemmeno essere ascritta come nostra colpa (noi ne subiamo, semmai le conseguenze, e, come proverò di descrivere qualche capitolo più avanti, cerchiamo di bilanciarle al meglio delle nostre umane, troppo umane, possibilità);
3.       Tale bisogno di bellezza, tale disio dei sensi, non riduce, di per sé, la figura della donna ad oggetto (come correttamente rilevato dalla “grid girl” Veronica qualche pagina dopo su Autosprint, laddove una ragazza manifesta un consenso, non si può parlare di “mercificazione”, perché solo un soggetto, e giammai una merce, può esprimere consenso), ma, semmai, la eleva a fine dell’agire dell’uomo (essere oggetti di desiderio pone le donne sul piedistallo della bellezza, da cui, peraltro, come avrò modo di evidenziare in seguito, dimostrano di aver ben poca voglia di scendere);
4.       La questione della “donna-oggetto” è un’impostura anche solo da un punto di vista puramente grammaticale, poiché qualunque azione implica un soggetto ed un complemento oggetto. Se vogliono interagire fra loro, uomini e donne devono accettare di alternarsi fra l’essere soggetti e oggetti gli uni delle altre: non mi pare che, l’alternanza sfavorisca la donna. L’essere oggetto di desiderio al primo contatto visivo è proprio quanto permette (anticipo qui: troppo spesso e troppo unilateralmente) alla donna di essere soggetto della scelta, nelle successive eventuali fasi del rapporto. Mi pare quindi che certe donne (belle) si stiano lamentando di un privilegio, mentre altre (men belle) stiano utilizzando il giudizio morale come espressione di invidia e rancore, o - il sospetto è sempre più forte - come ultima arma disperata per costringerci (con la condanna morale e – tutte le volte in cui è possibile - anche penale, del nostro desiderio di bellezza) a corteggiarle controvoglia, a dare cioè ad esse tutto quanto, di materiale o sentimentale, vorremmo invece riservare alle “giovin donne e belle” (che ci attraggono naturalmente e che esse vorrebbero far sparire dal nostro raggio visivo e d’azione);
5.       Quasi tutto quello che di bello e di sublime esiste al mondo, tutti quei sogni soavi, quelle incantate parvenze che, condensate in immagini e suoni attraverso la parola e il verso, il mondo chiama poesia, è sorto dalla fantasia di uomini fecondati da quel “pensiero” che, secondo Teruzzi, “non può essere pensato”, anzi, sono proprio la sublimazione artistica del “con una così che cosa farei”. Ad altro non pensò Guinicelli, quando, effondendo le rime del “Dolce Stilnovo ch'i'odo” incipiò l'autentica poesia italica, ad altro non sospirò Petrarca, quando creò con suoni e i ritmi l'atmosfera pura e rarefatta dei suoi immortali sonetti, forgiando lo stile perfetto senza uguali nel mondo, ad altro non mirava Boccaccio, quando, narrando le storie che restituirono l'Italia alla religione delle Lettere e della Bellezza, riportò nella nascente prosa italiana quello stile ampio ed armonioso proprio del grande eloquio Latino e degno del nome di Concinnitas.  Ne fossero coscienti o meno, ne fossero socialmente o intellettualmente liberi o meno, anche quando hanno parlato di altro, anche quando hanno creduto di vedere nella donna solo un’immagine simbolica di idee eteree e divine, hanno in realtà parlato di lei, hanno scritto ciò che il desiderio per lei, magari nascosto, magari inibito da ideologie e religioni, ha ispirato (per dirla ancora con Nietzsche: “in un uomo d’intelletto, il grado e la specie della sua sessualità si elevano fino ai vertici del suo spirito”).
E’ no, caro Terruzzi, no che non sono disposto a “rinunciarmi a sentire autorizzato, alla vista di una bella donna, a pensare chissà con una così cosa farei”. Non sono disposto né a rinunciare al mio desiderio ed alla sua espressione più schietta, né ad accettare che esso, con le fantasie ed i pensieri conseguenti, sia una colpa! Non ne condivido i motivi, non posso accettarne le conseguenze, non vedo alcun diritto altrui ad impormelo.
“Cosa faremmo?”, “Con una così chissà cosa faremmo”? Intendi forse: “allungare le mani”, “abusare”, “trattare come un essere subordinato”?  Perché non comporre un immortale inno, compiere un’impresa cavalleresca, offrire doni, ori e bella vita per avere una speranza di essere a nostra volta apprezzati?
Anche l’associazione maschile=maschilista denota il totalitarismo femminil-femminista interiorizzato da “gente moderna” come Teruzzi. Un tempo si distinguevano i due aggettivi. Maschile era (e, tanto legittimamente quando orgogliosamente, deve continuare ad essere) l’amare e disiare la bella donna al primo sguardo (a prescindere ad altre eventuali virtù che pure vi possono essere ma, per essere apprezzate, necessitano di tempi, modi e conoscenze approfondite), come si fa con una poesia, la cui immediata fulgente bellezza si fa sensibile (agli occhi dell’anima prima che a quelli della mente, alle corde dell’inconscio prima che al vaglio della ragione) al primo risuonare delle parole, anche senza parafrasi, analisi del testo, contestualizzazioni.
Maschilista è sempre stato (e sempre deve rimanere) soltanto l’atteggiamento di chi considera la donna un essere inferiore, di chi vorrebbe tenerla sottomessa, di chi ritiene proprio diritto addirittura allungare le mani, o di chi comunque pensa che basti raccontare due cretinate, fare due battute di dubbia ironia e certa volgarità, per costringere qualunque donna a concedersi.
Un gentiluomo, proprio perché non la considera inferiore, non la desidera sottomessa, non la ritiene stupida, e non prende nemmeno in considerazione l’idea di usarle violenza, sa di dover offrire alla donna di cui sta disiando la bellezza qualcosa di altrettanto intersoggettivamente valido ed immediatamente apprezzabile, sa di dover fare qualcosa per non trovarsi per tutta la vita a “fare all’amore col telescopio”.
Ben sapendo di essere, nel migliore dei casi, come la prosa del Boccaccio, ampia ed armoniosa, e quindi necessitante di tempo e spazio per esplicarsi, e di non risultare agli occhi dell’amata come un verso nemmeno se fosse bello come un “grid boy”, sa di dover offrire un valido motivo per far desiderare ed accettare alla donna un incontro solus ad solam in cui avere almeno l’occasione di rendere sensibili quelle doti di sentimento e intelletto, di apprezzamento soggettivo ed arbitrario, che non possono essere visibili al primo sguardo, ma si esprimono soltanto nei dialoghi non banali, nella condivisione di suggestioni letterarie o filosofiche, nel flusso bidirezionale di “colloqui, sogni e taciti pensieri”, attraverso la scelta dei vocaboli, la modulazione della voce, il tempo dato al corteggiamento, che non possono rendersi sensibili nei fugaci incontri della vita moderna, ma senza le quali non si potrà mai sperare di essere scelti o accettati in qualunque tipo di rapporto intimo.
Gli idealisti continuano a pensare che il “valido motivo” per suscitare un primo interesse nella donna possa ancora essere il “cor gentil” cui “rempaira sempre amore”, e sperano sempre di potersi procurare occasioni di incontro accostando alla bellezza corporale e mortale della donna quella non corporale e non mortale della poesia eternatrice con cui, secondo il mito rivelato dal Foscolo nell’Ode all’Amica Risanata, Diana, Bellona e Venere da donne mortali sarebbero divenute dee pel canto dei poeti e con cui in generale, le fanciulle disiate come quella raffigurata sull’Urna Greca della lirica di Keats, da fanciulle terrene soggette alla corruzione del tempo e della morte, potrebbero restare, al pari delle stelle e delle nature siderali, eternamente uguali a sé, eternamente belle (“she cannot fade, though thou hast not thy bliss,/ for ever wilt thou love, and she be fair!”).
I pragmatici ritengono al contrario che un motivo valido in questo “superbo e sciocco” universo consumista e turbocapitalista, cui i concetti di sacro e di eterno sono totalmente estranei, e in cui anche arte e letteratura sono puro commercio, non possa escludere l’offerta o perlomeno la tacita promessa (tramite magari l’ostentazione “social”) di regali costosi, viaggi da sogno, tenore di vita superiore a quello attuale della ragazza, quando non (con tutti i casi intermedi), denaro o altre utilità economiche, promesse di carriera o comunque possibilità di entrare (magare anche solo nei weekend) in un mondo “esclusivo” e “cool”.
Nessuno dei due casi è maschilismo. Sempre che non si voglia includere tale parola qualunque dissenso dalla narrazione femminista attuale.
Vedo, infatti, che queste distinzioni sono divenute desuete. Il desiderio propriamente maschile è tacciato di per sé di maschilismo. Di conseguenza si considerano già a priori le fantasia ed i pensieri del desiderio come “molestie” e i tentativi non velleitari della ragione di realizzare il desiderio stesso come “violenza”. Allora non ci si può più sorprendere di alcun “grande numero” sulle “violenze” o le “molestie”. Con tali onnicomprensive definizioni, possono essere trovati tutti gli interi da zero ad infinito. Ed ogni uomo è accusabile in quanto tale.
Con il condannare il pensiero, con il pretendere che anche un pensiero possa essere illecito, con il sottoporre il pensiero stesso ad una necessità di autorizzazione, tu stai confermando il mio giudizio sul femminismo attuale che degenera in totalitarismo, sulla “tutela della donna” (volutamente minuscola qui) che scivola nella corsa allo “psicoreato”.

2.       LA STORIA NON E’ UN TRACCIATO E IL SUO TEMPO NON E’ LINEARE
A Carlo Vanzini, che, per rendere meno amara la “medicina” del divieto di “grid girls” prescritta dall’articolo di Terruzzi, inizia l’articolo successivo con la scontata immagine del “pilota che deve guardare solo in avanti”, si può ben rispondere che la storia non è una pista. Una pista presuppone un progettista che l’abbia voluta tale e quale è e dei costruttori che l’abbiano realizzata. A meno di non voler supporre progetti ed interventi divini nella storia, quindi, questa dovrebbe essere paragonata non già ad un tracciato, bensì ad uno spazio aperto e condiviso, ad una piazza, insomma, dove auto, pedoni e ciclisti sono liberi di circolare in ogni direzione. E se chi guida l’auto prende una direzione che minaccia di investire una persona a me cara, io ho tutto il diritto (e tutto il dovere), se non di fargli fare retromarcia (il termine “indietro” piace poco ai moderni), almeno di farlo sterzare! Poichè la “cara persona” di cui parlo altri non è (come ho tentato di spiegare al capitolo precedente) se non l’uomo in quanto maschio mammifero senziente, in quanto espressione vivente della volontà che la vita ha di propagarsi tramite il desiderio subitaneo (opposto-complementare dell’impulso di selezione della vita incarnato dall’attitudine femminile ad apparire belle e disiabili per scegliere fra tutti chi eccelle nelle doti volute perché qualificanti la specie), in quanto ragazzo mosso da una grande in quanto adolescente non ancora totalmente corrotto dalla “ri-educazione” femminista, in quanto fanciullo ancora capace di chiamare le cose con il loro nome e di essere mosso da ingenuo trasporto verso la bellezza (non mediato dalle ideologie, non travisato dal “dover essere”), in quanto poeta della grande passione (sia essa quella per le belle fanciulle, sia essa quella per le auto da corsa) che non conosce censure, non accetta divieti e non si vincola ad obblighi di giustificazioni razionali o utilitaristiche, in quanto, insomma “appassionato”, ovvero siamo tutti noi, non posso certo far finta di niente e guardare avanti consolandomi al pensiero di come sarà divertente ed interessante la prossima stagione.
E’ vero che al centro del dibattito dovrebbero esservi i test invernali e le ambizioni dei piloti, ma se davvero “ci sono cose più importanti di cui occuparsi”, perché questo non è valso per Liberty Media? Perché hanno deciso di agire così? E, soprattutto, perché dovremmo stare tutti zitti? Perché dovremmo prendere per vera la “narrazione” femminista propinataci a tradimento (fino a ieri, erano gli articoli ben più dotti e argomentati che richiamavano al legame incancellabile fra Eros e Thanatos a tenere banco sulle pagine di Autosprint difendendo la presenza delle “grid girls”) da Giorgio Terruzzi? Condita fra l’altro di menzogne (sempre di origine femminista) che mi permetterò nei capitoli successivi di smascherare una ad una!
Anche l’abusata frase “il futuro è davanti a noi”, non argomenta alcunché. Se il tempo della storia è sferico, il passato, lungi dall’essere qualcosa “da consegnare agli archivi”, può invece, come insegna chiunque studi il mito, fungere da meta e modello per il futuro. Senza scomodare gli studi di Dumezil sui miti degli Indoeuropei (immagini di quello che eravamo in funzione di quello che vogliamo diventare), e rimanendo alla Formula 1, non è forse vero che tutti noi abbiamo come archetipo di “corsa” il GP di Francia del 1979 del duello a suon di ruotate e tagli di tracciato (altro che le decisioni di Pirro e compagnia!) fra Arnoux e Villeneuve e come archetipo di “qualifica” le gomme larghe, gli alettoni grandi come tavole da pranzo e i 1000 cavalli dei turbo anni 80 che si sfidavano per pochissimi, effimeri (e per questo poetici come poetica è ogni “conquista dell’inutile”) giri della morte? Nessuno di noi vuole “ripetere esattamente” le stesse gare e le stesse qualifiche. Altrimenti basterebbe riguardarsi le registrazioni. Tutti o quasi, però, vorremmo qualifiche e gare nuove, moderne, ma con lo stesso genere di agonismo “vintage”. Non è forse vero che, come qualità archetipiche del pilota, molto più della “professionalità” estremizzata e razionale di un Jackie Stewart e della capacità “calcolatrice” di un Alain Prost, riconosciamo piuttosto la “follia aviatoria” mai doma di Villeneuve, il sorriso bellissimo e malinconico di Francois Cevert poche ore prima di morire a Mosport (“un uomo deve saper scegliere fra sicurezza di annoiarsi ed il rischio di divertirsi”), l’ossessione per la perfezione spinta a volte all’irrazionalità (vedi Montecarlo 1988, dove dare un giro a Prost non sarebbe servito) di Ayrton Senna? Questo non significa che vogliamo tutti corse pericolose esattamente come quelle di trenta e passa anni fa, ma solo che le moderne corse sicure riprendano da quelle la “irragionevolezza” agonistica, la tendenza a “osare l’inosabile”, a “inventarsi l’impensabile”, la disposizione ad “amare ogni pericolo” e a “credere ad ogni tentativo assurdo di sorpasso”, le quali sole possono rendere un gran premio qualcosa di non simulabile a priori dai box o al calcolatore in fabbrica.
Tutto questo per dire che condannare una certa deriva “noiosa”, “standardizzata, “sterilizzata”, “politicamente corretta” delle gare (come, del resto, della vita), giustificata con sintagmi stereotipati quali “stare al passo coi tempi” non significa “passatismo” e “immobilismo”. Significa solo volere un’evoluzione storica diversa prendendo gli esempi giusti e non quelli sbagliati (considerati “inevitabili” solo perché più recenti).
Che l’uomo di oggi sia il “più progredito di sempre”, migliore, ad esempio, dell’uomo del Rinascimento, è una tipica “idea moderna”, vale a dire un’idea falsa (provare a paragonare le canzonette di Sanremo e le feste in discoteca di oggi con le “Stanze per la giostra” alla corte medicea per credere all’istante, se non basta il raggelante contrasto fra lo stereotipato – quello sì - linguaggio, privo di aggettivi espressivi e ricco di emoticons, utilizzato dai “millennials”, con la capacità di generare immagine e suoni dalle parole propria di quei “ragazzi del Cinquecento” che per diletto imitavano Petrarca).
Il fatto (ovviamente positivo, ben lungi da me parole come “neo-luddismo”, “conservatorismo“, “de-crescita”) che l’uomo di oggi possa vantare mirabilie tecnologiche ormai quasi da fantascienza (merito degli ingegneri moderni, non dei moderni professori di lettere, filosofia, sociologia o scienze politiche, e magari quegli ingegneri, come nel caso del sottoscritto, hanno preferito la scienza alle lettere proprio per non doversi sorbire le continue menate “progressiste” dei suddetti accademici al servizio del “senso storico”) non cancella la piccolezza degli “ignoranti specializzati” prodotti dal sistema made-in-usa di oggi rispetto al genio multidisciplinare di un Leonardo, né compensa la grettezza del neo-moralismo femminista di cui stiamo parlando rispetto alla libera morale di un Rinascimento in cui convivevano senza contraddizione cortigiane e regine, poeti sensibili alla follia come il Tasso e condottieri spietatamente grandiosi come Cesare Borgia, Cristianesimo e Paganesimo, dotti profondissimi e poetesse sublimi come Gaspara Stampa.
Insomma, se l’uomo rinascimentale era una Ferrari 250 GTO, una Ford GT40, una Porsche 917, noi non siamo certo la Ferrari Enzo, la Ford GT ultima versione, e neppure una “semplice” Porsche 991 GT3 RS. Non siamo, cioè, l’evoluzione moderna di ciò che un tempo fu rombante e glorioso. Siamo, invece, la rinuncia dell’uomo moderno alla grandezza ed alla “passione”. Siamo, piuttosto, delle piccole utilitarie coreane, degli ibridi in tutti i sensi delle costose ma svalutabili SUV che come grandezza conoscono solo l’aumento degli ingombri, degli elettrodomestici su quattro ruote il cui unico fine è andare da A a B senza disconnettersi dai social, delle silenziose e pesanti berline che per “accendere la passione” hanno bisogno di un impianto stereo che simuli doppiette e borbottii allo scarico: falsi come una birra analcolica!
Non c’è mai stato “uno schieramento per il progresso” ed uno “per la reazione”, un tipo umano moderno contrapposto ad un tipo arcaico, come racconta la favola progressista. Ci sono invece sempre stati nella storia schieramenti in lotta fra loro, tipi umani diversi e inconciliabili che generavano storia proprio scontrandosi. E chi emergeva appariva tautologicamente “più moderno” e “più progredito”. Dopo la prima guerra mondiale, gli stati nazionali parevano agli occhi dei “progressisti” più “moderni” degli imperi sovranazionali sconfitti, che però, con il senno di poi, oggi sarebbero (per la capacità di unire grandi spazi, di far convivere diversi popoli, di preservare differenti identità senza appiattirle) assai più “adeguati ai tempi” in un periodo in cui ogni nazione è necessariamente “troppo piccola” per le “sfide della globalizzazione”. 
Anche per quanto riguarda il tipo umano, non vi è nessun modello assoluto cui tendere (espressioni come “uomini e donne progrediti” mi fanno sorridere): il termina “progredito” è solo una temporanea lode per chi momentaneamente sembra prevalere, a prescindere dall’effettiva raffinatezza dei propri “valori” (d’altronde, quali valori potrebbe raccontare di avere l’attuale tipo umano dominante, quello mercantile, anzi, speculatore, i cui unici criteri sono l’utile e il tempo e per cui, ad esempio, in concetto di eternità non ha alcun significato?). Anzi, se è vero, come ci ricordava Eraclito, che Polemos è padre di tutte le cose, essere vivi significa proprio combattere per affermare quel tipo umano di cui ci si sente rappresentanti, non accettare passivamente i valori di tipologie umane inconciliabili con la nostra solo perché, attualmente, hanno potere economico e culturale e quindi risonanza mediatica. Se essere evoluto significa accettare la tirannia del femminismo e rinnegare la mia natura, se essere moderno significa non poter appagare (anzi, non poter neppure esprimere) il naturale bisogno di bellezza femminea (non poter avere le grid-girls da guardare prima di un gran premio, non potersi rivolgere alla sacerdotesse di Venere prostituta per evitare la prostituzione psichica del corteggiamento, eccetera) e dover sottoporre ogni atto e pensiero della vita (anzi, oggi pure ogni motto di spirito) a un giudizio politicamente corretto in senso femminil-femminista, allora preferisco non evolvere. Essere uomini significa a questo punto combattere perché sia cancellata dalla terra l’associazione fra evoluzione e femminismo.
Nella fattispecie delle grid-girls, io vedo semplicemente una lobby femminista, la Women’s Sport Trust, che viene ascoltata da una lobby dello show-business, Liberty Media, per compiacere un’altra lobby (quella di Hollywood) nel momento del cosiddetto “caso Weinstein”, ovvero il “casus belli” utilizzato dalla propaganda femminista mainstream per dare la caccia alle streghe ad ogni uomo in quanto tale (in quanto “soggetto disiante” e “costretto a conquistare”, come spiegherò meglio in seguito). Sul perché le lobbies finanziarie citate fin dall’inizio abbiano interesse a propagandare tale visione del mondo non ho ovviamente risposte precise (forse, semplicemente, per avere un mondo in cui –altro che sindacati – si possa licenziare chiunque in qualunque momento con un’accusa montata ad arte di molestie? Forse per distruggere, con la teoria del gender, ogni identità naturale, in questo caso sessuale, degli individui, regnando poi su una massa amorfa di individui senza più neanche l’istinto e con bisogni solo consumistici? Forse per rendere impossibili i rapporti uomo-donna, a iniziare dal primo corteggiamento, e ridurre così definitivamente - altro che “piano Kalergi” – la natalità degli occidentali? Continuare nelle ipotesi porterebbe fuori tema, e approfondirle senza prove scadrebbe nel complottismo). Quello che posso rilevare senza tema di smentita è che:
·         tale propaganda è in atto ovunque, dalla scuola alla televisione, dal cinema allo sport;
·         essa fa presa su molte donne (mano a mano che statisticamente la popolazione femminile, più o meno felicemente, invecchia), cui, una volta viste sfiorire le proprie grazie (ammesso e non concesso ne abbiano mai effettivamente avute) non pare vero possedere uno strumento “culturale” per tentare di cancellare dalla vista giovane e belle rappresentanti dell’eterno femminino, gettando oltretutto colpe e discredito sul genere maschile “reo” di guardare e desiderare (della serie: “come l’invidia fra donne diventa moralismo contro gli uomini”, pare la riedizione contemporanea di tutte quelle morali sorte per invidia, a cominciare da quella “degli schiavi” denunciata da Nietzsche);
·         ora coinvolge pure (e non temo di essere smentito) un giornalista di Autosprint che fino all’altro ieri credevo indipendente e stimabile.
Cosa ha spinto Teruzzi ad uscire dal seminato e a scrivere qualcosa che potrebbe essere uscito dalla penna di Laura Boldrini? Una minaccia dall’alto (compensazione per articoli precedenti troppo “filo-maschili” di colleghi?) o una convinzione interna? Nel primo caso, sarebbe solo uno dei tanti pennivendoli. Nel secondo, cadrebbe in una categoria simile a quella degli esterofili fustigati da Dante, per il quale, chi parla male dell’identità cui appartiene (in quel caso la patria fiorentina, in questo caso il “mondo delle corse maschilista”) è mosso o da cechitade di discrezione (incapacità di discernere il vero dal falso) o da cupidigia di vanagloria (ricerca di consenso e apprezzamento da parte dell’altro, in questo caso delle tanto decantate ed esaltate “Donne”, ironicamente con la maiuscola, dato l’abisso che separa certe melanzane femminil-femministe, di cui la terza carica dello stato è degno emblema istituzionale, da “Monna Vanna e Monna Lagia e Colei ch’è nel numer de le Trenta”).
In ogni caso, è dovere degli uomini liberi abbattere la tirannia, per cui anche noi sportivi dobbiamo, nel nostro picciol mondo (chè sì picciol non è se ha attirato le attenzioni delle lobbies), combatterla dialetticamente, se si serve dell’hegelismo.

3.       IL FEMMINISMO COME FORMA CONTEMPORANEA E POLITICAMENTE CORRETTA DI TOTALITARISMO
Hegel (cui, lo ricordiamo, il contemporaneo Schopenhauer, ben conscio di come la realtà umana non sia fatta di figure dello spirito, ma di uomini e donne in carne ed ossa, mossi innanzitutto da quella “volontà di vivere” da studiare forse con la biologia piuttosto che non con le speculazioni idealiste, scagliava le sue urla da sotto le finestre dell’università, indignato per come la filosofia stesse barattando la verità in cambio della vanità accademica e dell’ambizione politica) ha avuto fortuna al di là del proprio secolo “superbo e sciocco”.
Per tutto il Novecento, ha alimentato culturalmente quasi tutti i totalitarismi (sicuramente, e con grande evidenza, il marxismo-leninismo, probabilmente, anche se in maniera più indiretta e parziale, pure fascismo e nazismo) e continua ancora oggi a fornire un’arma dialettica alle forme ultime del totalitarismo: il politicamente corretto ed il femminismo mainstream. E’ ovvio, infatti, che, se basta l’accusa di “essere contro il progresso” per squalificare qualunque idea, qualunque posizione politica, qualunque stile di vita, non si conformi a quanto è stato imposto con tale nome, non serve più confutare le idee in un dibattito filosofico, prendere le decisioni democraticamente, e convincere l’altro senza usare coercizione, ma si può procedere con i metodi spicci del totalitarismo: messa a tacere del dissenso (), imposizione dall’alto (e qui non faccio esempi in politica per non uscire dal tema suscitando un vespaio, ma ce ne sarebbero assai…), divieti coercitivi (). Il tutto vantando pure un “nobile fine”.
Il Terruzzi, che ha usato questo modo di argomentare, dovrebbe ricordarsi che è proprio di tutti i totalitarismi mangiarsi fette di libertà in nome di un futuro bene superiore. Quanto mi spinge a definire l’ultimo femminismo come una forma di totalitarismo è proprio la sua pretesa (comune a tutto quanto di totalitario abbiamo conosciuto nel novecento) di cambiare antropologicamente l’uomo, perché l’uomo quale è nella realtà effettuale, con le sue bassezze ed i suoi slanci, le sue pulsioni e le sue idealità, i suoi vizi e le sue virtù, sarebbe “sbagliato” di fronte ad una presunta “necessità storica superiore” di cui il vostro giornalista pare voler convincere noi lettori. Non è difficile vedere in questa pretesa totalitaria la “Hybris” di chi, proclamatosi laico, in realtà si crede Dio: da quale cielo di purezza si può mai dire che la natura terrestre dell’uomo, buona o cattiva che sia, sia “da rettificare”?
La Chiesa ha fatto questo per secoli proprio per poter far sentire tutti in colpa e tiranneggiarli con minacce ultraterrene (oltrechè con più terreni roghi). Un certo femminismo (il quale, più che di donne, è fatto di interessi lobbistici), se non ve ne siete accorti, sta facendo questo con l’uomo, con mezzi più sottili, per lo stesso fine. Vuole che ogni uomo si senta in colpa (o “sbagliato”) in ogni momento, per qualunque potenziale motivo, a prescindere da qualunque effettiva intenzione o colpa, non per quello che fa, ma per quello che è, ad esempio, perché è soggetto al desiderio della bellezza, all’impulso dell’attrazione, alla necessità di agire per condurla a buon fine. Ad altro non mira il considerare potenzialmente molestia un semplice sguardo (questo è successo già dieci anni fa in quest’Italia definita “maschilista”, non nella cultura liberticida ma coerente del burqua, ma nella stessa “cultura” in cui resta “diritto”, per la donna, mostrare le grazie volute per il tempo che vuole e nel modo che vuole, per capriccio, moda vanità, interesse economico-sentimentale o gratuito sfoggio di preminenza erotica, per un bisogno naturale, in fondo, non meno “animale” né più “raffinato o spirituale” del nostro deprecato “guardare da porci”), potenzialmente “violenza” (o comunque “costume di cui vergognarsi”) qualunque rapporto “do ut des” in cui la forza contrattuale dell’uomo sia finalmente “non nulla” grazie a quanto, in cambio degli agognati favori, può offrire alla donna  (sia esso l’accesso, tramite unione/fidanzamento/matrimonio, ad uno stile di vita superiore, la promessa, tramite una posizione di prestigio/potere nella società, di una facile carriera in un mondo all’apparenza dorato, o, tramite il “sacro antichissimo culto di Venere prostituta”, soldi immediati e facili).
Tutto questo è “brutto costume da cancellare”? Beh, nella mia visione è l’unico costume possibile, stando le cose quale esse sono nella biologia, posto che non si voglia vivere perennemente infelici ed inappagati (nonché potenzialmente tiranneggiabili, come tutti i bisognosi) nella sfera sessuale e da lì, tramite i ben noti meccanismo della psicanalisi, in tutto.
E anche se fosse “brutto”, perché dovrebbe essere vietato e dannato, se vi è, al momento, consensualità fra adulti? Lo stato liberale regola a posteriori i fenomeni sociali tenendo fermi i diritti fondamentali di ciascuno ed il concreto bene pubblico, senza curarsi di giudicarli moralmente (altrimenti sarebbe uno stato etico), mentre lo stato totalitario pretende invece di indirizzarli secondo un presunto “bene superiore”.
Molto significativo il fatto che (qui come in altri contesti) l’opinione delle dirette interessate non sia stata ascoltata e, in nome della “figura della donna” (sinistramente simile, come strumento di giustificazione di atti e pensieri totalitari, ad una delle “figure dello spirito” di hegeliana memoria) al posto delle ragazze della griglia in carne ed ossa, si siano lasciate decidere persone estranee sorte a “tutela dei diritti e dell’immagine delle donne”. Come se si dovesse tutelare un minore. Come se le grid-girls non fossero ragazze maggiorenni e consenzienti. Tutto in nome della “lotta alla violenza”. Ricordo solo un periodo storico in cui il discrimine fra violenza e non-violenza prescindeva dal consenso della donna. Ed era il primo periodo patriarcale, in cui avere un rapporto con la “propria donna” non era mai reato, mentre averlo con quella di un altro lo era sempre, a prescindere dal fatto che i rapporti fossero violenti o consensuali. Ora il femminismo sta tornando a questo. Perfettamente in linea con quanto in ambito totalmente diverso (ma avente in comune con la questione in oggetto il discorso sul corpo femminile, sulla sessualità maschile e sull’immagine delle donne) si è fatto nei paesi filo-femministi occidentali (vedi la Francia, culla europea del femminismo “giacobino” che con mio disappunto vedo nel 2018 rientrare nel mondiale) sul tema della prostituzione: resa reato per l’uomo a prescindere dalla condizione di maggiore età e di libero arbitrio della donna disposta concedersi in un rapporto occasionale (il che non significa, come vorrebbero le critiche femministe ed i sessantottini, “privo di motivazione”, ma “liberamente deciso” dentro quella sfera di autonomia che, in caso ad esempio di reato, non priverebbe l’autore della responsabilità penale: quindi le motivazioni economiche o di “immaturità giovanile” vi rientrano pienamente, non essendosi mai visto che delinquere per bisogno o brama di soldi o per imitazione di modelli sbagliati garantiscano l’impunità ad autori adulti di reati), senza per nulla ascoltare le proteste delle associazioni di prostitute autodeterminate (ma solo lobbies europee che, partendo da dati faziosamente interpretati e con il concorso di “commissioni” epurate dai ricercatori scientificamente onesti non disposti ad assoggettarsi a priori al dogma del “sono tutte schiave”, stilano documenti da far approvare, senza alcun tipo non dico di democrazia rappresentativa, ma almeno di effettiva discussione, ad un parlamento di passacarte). Sempre con il solito ritornello “è una forma di violenza contro le donne” (come se, appunto, la violenza non fosse determinata, come deve essere in una concezione individualista e libertaria della sessualità, dalla mancanza di consenso, ma dalla difformità del rapporto rispetto ad un “modello” politicamente corretto).
E’ infinitamente scorretto scrivere “non voglio tirare in ballo la violenza sulle donne” e poi implicitamente argomentare che le grid girls andrebbero abolite perché soddisfano da un punto di vista visivo e “rappresentativo” gli stessi desideri sessuali che, se pervertiti dall’eccesso e dalla violenza, conducono a dei reati. Quando non più il singolo autore del reato viene ritenuto unico responsabile, ma tutti i suoi simili vengono coinvolti in quanto “corresponsabili di un certo modo di vedere la donna”, quando non più il reato in sé viene perseguito, ma il primo desiderio da cui successivi sviluppi potrebbero far sorgere il crimine, si passa dalla responsabilità individuale (propria dello stato di diritto) a quella collettiva (caratterizzante la “giustificazione” di tutte le persecuzioni novecentesche), dalla civiltà giuridica alla distopia dello psicoreato (processo alle intenzioni).
E’ veramente aberrante che un giornalista (purtroppo Terruzzi non è il solo) arrivi ad argomentare contro il bisogno maschile di bellezza sostenendo fra le righe che tale visione del mondo (nel senso tedesco di Weltanshauung, oltre che nel senso concreto di “bella visione di ragazze sulle schermo”) sia in qualche maniera complice (o addirittura motore inconscio) di reati a sfondo sessuale. Con questo schema si potrebbe arrivare a condannare qualunque idea sulla politica, sul costume, sulla società, sulla vita, argomentando che “è pericolosa per la sicurezza pubblica”. E questo è sempre stato la motivazione con cui, dal terrore giacobino in poi, si sono giustificate tutte le tirannie (la polizia segreta della Germania Est si chiamava significativamente “Sicurezza di Stato”).
Ma cosa hanno paura, che un pilota possa arrivare dall’abitacolo a toccar il culo di una ragazza? Con il nuovo Halo non vi riuscirebbe neanche con braccia da scimmia! Bisogna dare l’esempio alle nuove generazioni? Allora vogliono semplicemente che un ragazzo percepisca come sbagliato e da correggere il fatto stesso di essere attratto dalla bellezza femminile e quindi di soffermarvi lo sguardo e di dirigervi le fole ad ogni occasione offerta da quel sogno chiamato giovinezza.
E se non bastasse tutto questo, si consideri cosa è scappato dalla penna di Terruzzi,  a proposito dell’educazione dei giovani: “deve essere chiaro cosa può essere fatto e cosa non può essere fatto, cosa può essere detto e cosa non può essere detto e, soprattutto, pensato”. E’ arrivato a giustificare la limitazione non solo della libertà personale (“non può essere fatto”, riferito non si sa bene a cosa, ma detto a proposito della vicenda delle grid-girls nella quale non ci sono soprusi e quindi reati, ma solo “rappresentazioni” che “non piacciono” a donne non coinvolte), non solo della libertà di parola (“non può essere detto”, strano a dirsi in un’Italia dove in altri ambiti, il “diritto di parola” di certi giornalisti arriva spesso incontrastato ai limiti dell’insulto, della diffamazione, della montatura ad arte), ma pure della facoltà di pensare con la propria testa (“non può essere pensato”: una frase così categorica non ha precedenti, se non da parte di Parmenide a proposito del “nulla che non può essere” e quindi neanche “pensato”).
Ben triste la fine del “fronte storico progressista”. Nato durante l’Illuminismo con l’idea di introdurre il “pensiero critico”, è arrivato ora ad imporre il “pensiero unico”. Basta tacciare un’idea dissonante di “essere contro la storia” per cancellarla (assieme alle attitudini, ai comportamenti, persino agli istinti naturali, ad essa associabili) come “non essere” senza neppure uno straccio di argomentazione puntuale (ovvero non genericamente riconducibile ad una vaga accusa di “complicità”, come fa Terruzzi a proposito del non meglio precisato “maschilismo” delle corse). Fino a ieri, uno stato liberale di diritto era razionale perchè, prima di vietare qualcosa, doveva dimostrare la sua correlazione con un danno oggettivo, con responsabili ben individuabili e vittime che fossero persone reali (non “figure dello spirito”). Oggi basta che qualcuno (anzi, qualcuna), si “senta offesa come donna” (quindi, si badi bene, non oggettivamente lesa nei diritti individuali, ma vagamente “dispiaciuta” da una “rappresentazione” arbitrariamente definita “offensiva”, che però, nei fatti, non la coinvolge) perché si arrivi al divieto, alla censura, addirittura, come ho denunciato prima, allo “psico-reato”.
Altro che “confronto democratico”! Eh noi, caro Terruzzi, qui, se, al di là della retorica occidentale, siamo ancora in un “mondo libero”, io penso, parlo e agisco. Lascia ai tuoi figli divieti, censure e, addirittura, controllo della mente!
Non sarei un libero pensatore se non accettassi che altri avessero visioni del mondo diverse dalla mia. Quello che non posso ammettere è che una narrazione che non condivido venga posta a motivazione di cambiamenti di leggi e costumi cui vengo legalmente o socialmente costretto ad adeguarmi. Quello che non posso accettare è che la narrazione femminista “mainstream” venga presentata come progresso storico e che in nome di esso si arrivi a dannare e condannare (per ora solo mediaticamente, ma gli sviluppi in ambito legale, lavorativo e quotidiano potrebbero essere drammatici) il desiderio naturale mio e di praticamente tutti i miei simili (nella “caccia alle streghe” innescata a Hollywood si stanno perseguendo anche attori famosi omosessuali). Questa non è più questione di differenti opinioni e divergenti visioni del mondo. Qui è questione di dire la verità o mentire su una realtà biologica o, almeno, etologica. Qui è questione di lasciare che una visione del mondo di parte (come è necessariamente quella femminista) imponga a tutti la propria “narrazione”, i propri costumi, la propria morale. Qui è questione di scegliere la dittatura del politicamente corretto o la libertà del cosiddetto “maschilismo” (ovvero, per esclusione ormai, dato che il termine è sempre più usato dalla propaganda femminista a prescindere dal suo significato originale di “svaluazione/oppressione” della donna, tutto quanto, semplicemente, non è femminismo demagogico). Il desiderio di natura dell’uomo per il corpo della donna è un fatto (nemmeno un costume, come pretenderebbero i banditori di una sociologia basata sui fumi della propaganda di un certo pseudo-egalitarismo, ma proprio un dato scientifico, come sa qualunque biologo e qualunque etologo). “Costume”, anzi “malcostume” è proprio, invece, l’opinione morale femminista secondo la quale equivarrebbe a “degradare la donna” (valutazione extrascientifica). Il vecchio Bernie ha parlato di "eccesso di ipocrisia". Io credo si debba parlare invece apertamente di eccesso di menzogna (se non scientifica, almeno civile e morale).
Che mirare e disiare la bellezza (in questo caso simboleggiata dall'eterno femminino, la cui contemporanea espressione si incarna nelle cosiddette "grid girls") equivalga a ridurre la donna ad un oggetto è una menzogna aperta (significativamente sostenuta dalla più moderna forma di manipolazione della realtà rappresentata dal femminismo demagogico e da tutti i suoi servi, funzionali alla dittatura del "Pensiero Unico", vero e proprio totalitarismo del corrente secolo segnato ormai in ogni campo della vita dalla tirannide della finanza senza patria ma con sede in USA).
Essa è infatti in contrasto non solo con le verità della Natura e della Poesia (il disio naturale per il corpo della donna ha la stessa naturalità delle stelle scorrenti del cielo, delle spiagge luminose del mare, dell'avvento della primavera, della fiera che insegue la femmina nei boschi chi sa dove, e dell'altre espressioni della "voluptas cinetica" cantata da Lucrezio nel "de rerum natura" e risulta al contempo il motore immoto di ogni creazione di immagini e suoni tramite la parola chiamata "Poesia", da quando Jacopo da Lentini inventò la metrica perfetta del sonetto a quando il Petrarca la colorò del suo stile puro e rarefatto senza eguali nel mondo, da quando Dante, Guido e Lapo, scegliendo la bella donna quale immagine della conoscenza divina, inondarono l'aria del "dolce stilnovo ch'i odo" a quando D'Annunzio, godendo delle grazie di "dive" più moderne, mostrò le estreme possibilità musicali e oniriche del verso, da quando il Poliziano, organizzatore di feste per "Il Magnifico", riuscì a dipingere la nostalgia per il paradiso terrestre, che ogni uomo è destinato con il crepuscolo della giovinezza, tramite le sfumature di colore dell'erba verde che "sotto i dolci passi, bianca, gialla vermiglia e azzurra fassi",a quando il Tasso inumidì le Rime del più tenue, languido e caldo dei pianti: "qual rugiada, qual pianto, qual lacrime eran quelle che sparger dal notturno manto e dal candido volto delle stelle? Fur segni forse della tua partita, vita de la mia vita?"), ma pure con l'esperienza di vita quotidiana, poiché proprio l'essere poste sul piedistallo della bellezza (generata sovente dall'illusione del nostro desiderio), permette alle donne reali sia di costringere noi a fare sempre qualcosa per essere notati e apprezzati (non solo in quella occidentale maschera di servitù imposta a tutti gli uomini verso tutte le donne, chiamata corteggiamento, di cui tutto l'Oriente ride come ne avrebbero riso i Greci, ma in tutte quelle situazioni nelle quali una fanciulla, proprio perchè disiata nelle lunghe chiome, nel claro viso, nelle forme suadenti ed in tutte le grazie "ch'è bello tacere", con la rapidità del fulmine e l'intensità del tuono, si trova in una situazione se non altro psicologica di vantaggio, e non di svantaggio, nei confronti della controparte maschile, impossibilitata, a meno di non parlare di personaggi ricchi e famosi, a compensare in desiderabilità e potere la bellezza con doti parimenti apprezzabili ed immediatamente evidenti, e quindi inevitabilmente sottoposta alla tensione di un esame e costretta a scervellarsi per capire come parlare per compiacere e come agire per mostrare il meglio di sè o quanto si suppone possa essere percepito come tale, per trovare un modo di rendere evidenti ed apprezzate eventuali doti di sentimento o intelletto potenzialmente gradite, per avere un'incerta speranza di "star di paro" alla bella donna, il tutto mentre questa può rilassarsi, compiacersi e scegliere se divertirsi "con" lui o "di" lui), sia di tirarsela infinitamente (come può, in effetti, sempre permettersi un fine rispetto ai mezzi per raggiungerlo: altro che "riduzione ad oggetto", questa è "elevazione a fine" e le femministe riescono a lamentarsi persino dei privilegi femminili!), poiché, anche senza essere “ombrelline”, anche senza averne le grazie (ché quando esse mancano, supplisce, come in ogni aspetto poetico della vita, l'illusione del disio), esse, in ogni modo (dal più legittimamente personale al più gratuitamente vanaglorioso, quando non studiatamente perfido), tempo (dal più fugace e casuale incontro al più lungo e sentimentale rapporto) e luogo (dalle discoteche agli uffici), sfruttano (sovente pure senza limiti, remore nè regole) il privilegio di essere universalmente mirate, amorosamente disiate e socialmente accettate per la "bellezza" (senza dover obbligatoriamente mostrare certe doti o compiere particolari imprese, cui sono costretti invece i cavalieri, i quali senza esse restano puro nulla socialmente trasparente e negletto dal sesso opposto).

4.       RETROPENSIERI “RETROGRADI” E “MASCHILISTI”? NO, WELTANSCHAUUNG ALTERNATIVA!
Nel mio sentimento della realtà (chè non vale meno di quello che le donne hanno la pretesa di far valere anche in ambito legale), la donna non rappresenta né la “povera oppressa” della narrazione femminista, né “l’animale inferiore” dell’uguale ed opposta narrazione maschilista. Preferisco basarmi sulla realtà biologica ed etologica, piuttosto che sui pregiudizi morali e sul sentito dire, su quanto posso sperimentare dalla vita e dagli istinti, piuttosto che su quanto mi viene “raccontato” come “storia” (da quando Giulio Cesare, parte in causa, si è finto terza persona per scrivere il “De Bello Gallico”, storia e fake news rischiano sempre di divenire sinonimi) e “insegnato” come “bene” e “progresso” dalla sedicente “cultura” ufficiale.
La donna gode del privilegio (di natura, e quindi di cultura) di ricevere il sorriso degli astanti, il desiderio subitaneo ed incondizionato dell’altro sesso, l’apprezzamento e l’accettazione di tutti al primo sguardo, per quello che è, per la sua grazia, la sua leggiadria, la sua essenza mondana, in una parola per la “bellezza” (anche quando essa manca, vi supplisce quasi sempre l’illusione generata dal desiderio), senza bisogno di fare obbligatoriamente qualcosa, di compiere particolari imprese (cui sono invece costretti i “cavalieri”), di mostrare questa o quella dote nella speranza di “fare colpo” su qualcuno in particolare o di emergere nella considerazione generale, proprio perché le è stato assegnato il privilegiato e confortevole ruolo di “selezione della vita” (ben simboleggiato dall’immagine dell’ovulo che può ben aspettare l’arrivo dello spermatozoo più veloce e resistente fra tutti quelli attratti senza bisogno di muoversi), senza il quale nessuna specie potrebbe preservarsi, ma con il quale i desideri umani di libertà e felicità hanno un rapporto necessariamente problematico.
All’uomo è invece dato l’opposto-complementare, assai più ingrato e disagevole, ruolo di “propagazione” della vita (disiare la bellezza con la rapidità del fulmine e l’intensità del tuono, non appena questa si mostra nelle grazie ch’è bello tacere, mirarla, seguirla e cercare di ottenerla in modo da permettere alla controparte femminile di selezionare fra i tanti chi eccelle nelle doti volute perché qualificanti la specie) e quindi, se vuole ottenere lo stesso sorriso del mondo, la stessa desiderabilità amorosa, lo stesso apprezzamento dal sesso opposto, la stessa accettazione sociale, deve COSTRUIRE socialmente il proprio ruolo.
Se non vi riesce, non solo rimarrà infelice e inappagato nella sfera sessuale, costretto a confidare i propri teneri sensi alle leopardiane vaghe stelle dell’orsa (poiché, anche se fosse fisicamente bello come un grid-boy, non avrebbe mai e poi mai lo stesso “privilegio della bellezza” della controparte femminile, non contentandosi questa punto della fisicità, ma pretendendo mille altre doti, alcune delle quali soggettive, come quelle di sentimento o intelletto non visibili al primo sguardo, e richiedenti tempi e modi particolari per essere fatte sensibili, oltreché orecchie e menti predisposte ad apprezzarle, e molte delle quali, oggettive, inscindibili da quanto fa conseguire posizioni di primato o prestigio sociale), ma sarà pure socialmente “apolide”, non potendo contare su quel modo proprio della donna di influire sulle cose e sugli uomini tramite quanto in essi vi è di più profondo e irrazionale, per mezzo di ruoli quali madre, confidente, amante che nessuna società, per quanto misogina, potrà mai abolire e per effetto dei quali, come ben notò persino Rousseau, l’effetto del loro sesso sul nostro è, per natura, molto maggiore di quello inverso (almeno in assenza di compensazioni).
E tutto questo non perché le donne siano più “cattive” (non lo sono, statisticamente né più né meno degli uomini) o “più stronze” (non lo sono più di quanto, a condizioni invertite, lo sarebbe la media degli uomini che può approfittare di una debolezza altrui), ma perché, se non si ha nulla di inter-soggettivamente valido ed immediatamente apprezzabile da offrire per pareggiare la bellezza (o, ancora se vogliamo essere precisi, la sua “illusione nascente dal nostro desiderio”), non si può aver alcuna realistica speranza, nel mondo dei fatti (i rapporti “spirituali”, come quello fra San Francesco e Santa Chiara, basati sulla fantomatica “gratuità”, esulano da questa trattazione, trovandosi meglio in mezzo a dissertazioni su miti, leggende e sogni infranti), di essere accettati, né come potenziali padri della futura prole (ché anche in natura, senza una posizione sociale paterna elevata, non potrà avere vita felice) né come occasionali compagni di godimento (ché, per dirla con il Schopenhauer della “metafisica dell’amore sessuale”, non è la mente, ma l’istinto a scegliere, per cui, anche quando una donna non è interessata a procreare, sceglierà sempre e comunque con gli istintivi criteri con cui lo farebbe una sua omologa di altra specie, alla faccia della mitologia sessantottina del “sesso libero”).
Tutto questo non è semplice “stereotipo” (magari lo fosse!) da abbattere con l’educazione, la cultura, l’esempio. Esso si rileva, infatti, in ogni specie. I desideri di natura non dipendono da un contratto sociale, sono invarianti per “civiltà”, sono esenti dalla “evoluzione storica” (conoscono solo quella naturale, ma il tempo fuori scala per l’effimero individuo). Non vale a nulla cercare di “moralizzarlo”. In quanto natura, ciò è, per usare le parole di Nietzsche, “grande e immorale per tutta l’eternità”
Dove possono iniziare a subentrare gli stereotipi, le considerazioni morali, i buoni propositi, è il momento in cui si pensa se e come bilanciare tutto ciò.
Ammetto che in natura molte specie non hanno compensazioni e lasciano i maschi al loro destino. E’ il caso delle api, dove i fuchi, costretti comunque a inseguire la regina per sperare di riprodursi, sono uccisi da essa dopo l’accoppiamento se vincono, o vengono lasciati morire di fame se perdono. E’ il caso anche degli elefanti, dove, se questi sapessero poetare, ci racconterebbero di pene peggiori di quelle dantesche, vissute continuamente nella continua frustrazione del disio per via del branco matriarcale e nella solitudine dopo la cacciata. Significativamente, donne particolarmente perfide e uomini completamente stupidi giustificherebbero la trasposizione di tale preminenza femminile nell’amore sessuale al mondo umano con la banale argomentazione che “in natura funziona”. Meno perfidia femminile e meno stupidità maschile dovrebbero lasciar comprendere la questione di fondo persa di vista da tale giustificazione: la “natura matrigna” ha a cuore puramente la propagazione e la conservazione della vita, mentre il mondo umano dovrebbe pure preoccuparsi della felicità e della libertà degli individui (fini sconosciuti alla natura), o, almeno, della loro possibilità di vivere “sopportabilmente” (il maggior grado di coscienza rende nell’uomo intollerabili molti mali  quotidianamente “sopportati” da altri animali”). Anche senza tirare in ballo motivazioni ”comunitarie a anagogiche“ che richiamino alla capacità di “gettarsi nella storia” da parte di popoli mitologicamente patrilineari (i quali sono prevalsi su quelli, altrettanto mitologicamente, matrilineari, anche quando questi – vedi  lo scontro fra Romani ed Etruschi - potevano vantare tecnologie più avanzate, denotando con ciò una superiore coesione sociale, una superiore propensione a dare senso, valore e bellezza all’esistenza, una migliore attitudine, cioè, ad usare la “visione spirituale” per ordinare la società e fare delle invenzioni tecnologiche strumenti per salti di livello qualitativo dell’umano) e che volentieri non tirerei in ballo, se la mia controparte dialettica non allegasse ad ogni più sospinto la propria mitologia “matriarcale” (giungendo, nei casi estremi di “nazifemminismo”, ad esaltare le società “insectidi” e a parlare apertamente di “mondo senza maschi”), è, per chi dà ancora un senso alla parola, una questione di “equità” (intesa non come uguaglianza, ma come bilanciamento di poteri e scelte) fra consimili.
Anche le prime società umane, di matrice matriarcale cara alle femministe, probabilmente erano qualcosa di simile alle società di elefanti: ogni potere materiale e morale era femminile, e in ogni momento il caro “compagno” poteva essere “licenziato” senza possibilità di reintegrazione. Non sappiamo come fosse lo stato degli uomini in quel periodo, ma a giudicare da quanto posso ricordare del primo periodo scolare, ove in qualunque momento potevo essere sgridato per qualunque motivo da donne, a cui spettava a capriccio la definizione di bene e male e che se la potevano avere a male per ogni mia battuta da fanciullo (e quindi ancora necessariamente innocente) non ho alcuna curiosità di scoprirlo (né di sostenere la deriva di leggi e costumi per cui il confine fra lecito e illecito viene sempre meno stabilito oggettivamente a priori e lasciato invece soggettivamente al giudizio ex-post della presunta vittima).
Tutto cambia con il passaggio dalla preistoria alla storia (e questo dovrebbe far riflettere i progressisti sostenitori dell’endiadi femminile=progresso). Tutte le civiltà propriamente storiche ad oggi conosciute hanno studiato mezzi più o meno efficaci, più o meno condivisibili, ma sempre percepiti come necessari (anzi, in casi come quello romano addirittura fondamento di ogni diritto e di ogni civiltà) per porre in mano virili non solo, retoricamente, la guida “comunitaria” e “anagogica” (secondo il principio tradizionale, e quindi sempre mitologico, della “vita spirituale ed ascendente data dal padre, cui si accedeva spesso per prova e rito iniziatico da parte di una ristretta cerchia di aristocratici”, percepita come “vera vita”, contrapposta “all’esistenza puramente corporale e conservativa data dalla madre, e comune a tutti gli uomini indistintamente, anche plebei” -  ovvio che tale concezione virile e guerriera non poteva non prediligere il sesso che, già come spermatozoo, fa coincidere vita e vittoria), ma più pragmaticamente, la possibilità di vivere liberi e felici.
Tutte le mirabili strutture dell’arte come della religione, del pensiero come della società, della politica come della storia, ingiustamente chiamate oppressione dal femminismo, sono state edificate dai più forti e saggi fra gli uomini non già per opprimere (non è l’obiettivo dei savi), ma per impedire a tutti gli uomini di essere troppo oppressi a causa di quei 5/6 di imbecilli – la percentuale è sempre di Schopenhauer - che in ogni tempo (anche oggi, vero Terruzzi?) si lascerebbero in tutto e per tutto tiranneggiare dalle donne e di avere anzi le stesse possibilità di scelta e la stessa forza contrattuale (in quanto davvero conta dinnanzi alla Natura, alla Discendenza ed alla Felicità Individuale) date alla donna dai privilegi naturali di cui si è discusso.
Parlando di periodi di cui si ha traccia provata, e tralasciando le origini semi-mitologiche in cui un assoluto annichilimento del genere femminile fa da paio poco credibile assieme a Romolo che ascende al cielo o ai numi che partecipano attivamente alle battaglie, l’effetto del cosiddetto “patriarcato” (fra virgolette, perché, in questa accezione, ben poco rimane del significato “eroico” originario indoeuropeo cui si è sopra accennato) è stato principalmente quello di non lasciare senza freno la pretesa onnipotenza della donna nelle questioni di scelta del partner e di discendenza. Ciò non va inteso come costrizione ad accoppiarsi con un uomo non gradito, ma come possibilità per l’uomo, tramite le costruzioni sociali di cui sopra, di mostrarsi ed effettivamente di essere, assai gradito alla donna desiderata. Dal buon partito che permette alla ragazza di uscire di casa, al cavaliere che appare bello perché salva la dama da un pericolo, ogni uomo di buona volontà aveva una via socialmente accettata (senza la stigma di oggi) e ben codificata (senza appunto il rischio di essere bollati come “molestatori”) per “bilanciare la bellezza”. Sia detto fra parentesi. Si può anche sorridere di tutto questo, ma cosa ci offre in cambio il mondo moderno e progredito delle femministe e di Liberty Media? Nulla. Forse solo i pompini disattesi di Madonna. In attesa dunque che ci si offra un’alternativa accettata dal politicamente corretto, ben facciamo a puntare sull’unico valore intersoggettivamente riconosciuto (il denaro e l’immagine che ne deriva) e a sognare ad occhi aperti quelle fanciulle di bellezza tanto alta e nova da poter altrimenti essere solo sognate sotto un plenilunio e che fino a ieri hanno popolato le griglie.
Il mondo liberale ha scelto una via di mezzo, fra non-compensazione preistorica ed iper-compensazione storica: dando a tutti (almeno in teoria) la possibilità di costruire la propria vita e scegliere il lavoro migliore in rapporto a sacrifici e obiettivi, ha permesso alle donne che lo volessero di svolgere gli stessi lavori degli uomini, e agli uomini che lo sentissero come necessario, di fare carriera e denaro per circondarsi di belle donne. In tale libertà di scelta rientrano pure le grid girls, che hanno scelto il mestiere di sacerdotesse della Bellezza senza costrizioni e senza sentirsi “sminuite” o “offese”.
Come tutte le vie di mezzo, però, tale mondo è suscettibile di oscillare troppo in un senso o nell’altro. Se le femministe si lamentano di presunte “discriminazioni culturali” (e fra queste mettono le grid girls, almeno stando alle boiate di Claire Williams: “spero che questa scelta porti più ragazze a lavorare con noi”; prima di sostenere l’inopportunità delle grid girls, dovrebbe riflettere  sulla “puttanaggine” della scelta di preferire i rubli di Sirotkin al talento di Kubica!) che impedirebbero di avere il disiato (da loro, ma giustamente temuto da me) 50 e 50 in ogni ambito, io mi lamento di quote rose ed iniziative culturali con il fine di favorire le donne (e quindi, in un mondo a risorse limitate, penalizzare gli uomini) proprio nei mestieri, nelle posizioni, ed oggi pure negli sport, grazie ai quali gli uomini possono individualmente e meritocraticamente ottenere con lo studio, il lavoro, la dedizione, il sacrificio (e, necessariamente, la fortuna)  i mezzi per avere “pari opportunità” di scelta, di potere e di apprezzamento nella sfera erotico-sentimentale rispetto alle donne.
Se non vi è ovunque un 50 e 50 percento fra i sessi, non sempre è colpa di discriminazioni nascoste nel lavoro o rappresentate nello sport: certi mestieri richiedenti sacrifizi, rinunce e fatiche fin dallo studio universitario, e implicanti poi limitazioni di tempi e modi di vita sono probabilmente ricercati, perseguit e scelti dagli uomini con più frequenza e intensità non perché le donne siano meno capaci (versione maschilista) o perché ne siano scoraggiate/impedite (versione femminista), ma semplicemente perché sono principalmente gli uomini ad averne estrema necessità, pena vedere frustrati i propri sogni non solo e non tanto lavorativi ed economici, ma soprattutto psico-amorosi e vitali.
Per le donne studiare, lavorare, fare carriera è una delle scelte possibili (anche se il femminismo fa finta sia l’unica), mentre per noi è un obbligo (giacchè senza “superlavoro” e “superguadagno” non potremmo mai godere stabilmente della presenza di “supergnocche”, o ricevere tutti i giorni un “super-apprezzamento” sociale, mentre le nostre controparti femminili, anche disoccupate o senza titolo di studio, potrebbero con le loro grazie, selezionare fra i trecentosessantacinque pretendenti giornalieri – non sono di meno, altrimenti non potrebbero lamentarsi delle molestie quotidiane - quello che per aspetto fisico, sentimento o intelletto o posizione sociale le attrae di più, e, comunque riceverebbero sorrisi e complimenti e benvenuti in ogni luogo di lavoro e divertimento, e potrebbero in ogni unione contare sulla forza “contrattuale” data dalle disparità dei bisogni psico-sessuali). Questa è la verità (naturale). Il resto è conseguenza (umana).
Le femministe, partendo dal dogma dell'uguaglianza e dall'irrealtà del “Gaist” hegeliano, credono che qualcuno o qualcosa sia necessariamente colpevole della mancata realizzazione del perfetto egalitarismo nei fatti (e, quando non trovano il capro espiatorio, arrivano agli eccessi isterici delle accuse random hollywoodiane e delle campagne “moralizzatrici” nello sport e nella pubblicità); io, osservando le verità della natura e la realtà degli istinti, comprendo che le ingiustamente vituperate “disuguaglianze sociali” fra i generi sono la conseguenza non di una discriminazione , bensì di un previlegio, ovvero del tentativo necessario, matto e a volte disperatissimo, dell'uomo di bilanciare il privilegio  naturale femminile  con lo studio, il lavoro, la posizione di potere, prestigio, preminenza. Mistificando il nostro umano bilanciamento sociale dei loro privilegi naturali come “discriminazione”, giustificano le “discriminazioni positive” per rendere ancora più difficile, se non impossibile, a noi, raggiungere “pari opportunità” di vivere liberi e felici, nella realtà del “mondo come volontà”, non nell’apparenza del “mondo come rappresentazione”.
Ecco perché Nietzsche scriveva “il femminismo contiene una tale dose di stupidità tipicamente maschile di cui ogni donna ben riuscita, che è sempre una donna intelligente, dovrebbe vergognarsi”. Sembra quasi che il visionario professore di Basilea abbia potuto prevedere più di un secolo prima le aberrazioni del femminismo attuale. E dire che non ha potuto leggere né le stupidaggini di Laura Boldrini e di Giorgio Terruzzi, né le puntuali ed intelligenti osservazioni della “grid-girl” Veronica (la cui “ottima riuscita” come donna è resa evidente dalle foto pubblicate sull’ultimo numero di Autosprint: la capacità di “intus legere” la realtà della cose, centrando subito la questione dell’utile economico delle lobbies, né è solo la conferma).

5.       DISCRIMINAZIONI? NO, COMPENSAZIONI: PILOTI E GRID GIRLS COME METAFORE DELLA NASCITA DELLA VITA
E’ inutile che il dogma politicamente corretto di Women’s Sport Trust mi predichi “«il pubblico di molti eventi sportivi è portato ad ammirare gli uomini forti e di talento che prendono parte alle competizioni, mentre il ruolo delle donne nelle stesse è basato solo sul loro aspetto fisico». Secondo il Women’s Sport Trust è importante che le donne non siano considerate un semplice «abbellimento» nelle manifestazioni sportive, cosa che rafforza dei vecchi stereotipi e dà alle ragazze un esempio sbagliato delle cose a cui aspirare.
Il mio più profondo istinto e le mie intime esperienze mi convincono con verità più vive che, se una fanciulla ha la bellezza per essere mirata, disiata ed accettata al primo sguardo, da tutti, e a prescindere da tutto – e questo non è affatto messo in discussione né dal femminismo, né da Liberty Media, né tantomeno dalla società moderna (la quale, ahimè, non può prescindere dalla biologia) – allora è santamente giusto, o perlomeno moralmente equo, che i garzoncelli abbiano qualcosa di parimenti efficace per essere immediatamente ammirati , desiderati da tutte e accettati socialmente, a prescindere dalle eventuali doti di sentimento o intelletto di apprezzamento soggettivo ed arbitrario (e perciò inadatti ad essere “moneta” in quell’asta delle offerte per la più bella a cui, dietro le mentite spoglie del cosiddetto “romanticismo”, si riduce ogni corteggiamento non velleitario). E se ciò, almeno a livello rappresentativo, si può trovare, oltre che nel lavoro, pure nello sport, allora è assolutamente positivo ed altamente educativo per ambo i sessi, altro che sbagliato! Sbagliato è continuare ad illudere i ragazzi che, anche senza raggiungere particolari livelli di prestigio o preminenza sociali, potranno avere occasione di conquistare i cuori o comunque i favori temporanei di tante belle fanciulle. Sbagliato è anche provare ad illudere le ragazze (ma queste sono meno ingenue) che il loro carrierismo femminista possa in qualche modo renderle più desiderabili (quando, al contrario, i tempi stressanti di certi “superlavori” rendono difficile seguire stili di vita salutari, i quali solo possono garantire il perpetuarsi nel tempo di quella bellezza senza la quale nessun uomo, che non sia tanto falso da poter mentire anche nell’istinto, potrà mai sentirsi appagato nella sfera dell’amore sessuale).
Che le fanciulle siano immediatamente disiate per la bellezza è un dato naturale, vero ben al di là delle griglie di partenza e sfruttabile dalle stesse anche senza dover tenere ombrelli. Se si potesse eliminare questo iniquo privilegio, ci penseremmo noi uomini per primi, nel nostro interesse (come in effetti si tenta, da tanto tempo ed in vano, di fare in certo mondo arabo).  Supporre che possa essere cancellato semplicemente oscurandone la rappresentazione televisiva è poco credibile. Credo quindi che la campagna femminista sia, per l'ennesima volta, mirata semplicemente a distruggere la nostra capacità di compensazione, a renderci la vita invivibile, senza più modo di fronteggiare quel “privilegio della bellezza” che esse fingono “superficiale” e “trascurabile rispetto al potere maschile” semplicemente per poterlo usare senza limiti, remore, né regole. Non siamo noi uomini ad averlo creato. Ne subiamo semplicemente le conseguenze. Ed allora abbiano creato le compensazioni. Come la gloria sportiva, che rende riconoscibili e idolatrati al primo sguardo più della più bella fra le belle, come la religione della velocità e del pericolo, che rende gli adepti più divini delle dive, come l'eroismo motoristico, che trasfigura i cavalieri del rischio rendendoli simili  ad amatissimi principi che sconfiggono draghi e salvano fanciulle. Tutto ciò si sublima nell'immagine rituale del campione che bacia la bella prima di sfidare la morte, il tempo e la vertigine e ne riceve il bacio all'arrivo, se vittorioso.
Chi pretende di abolire tutto questo per “rispetto alla parità” dovrebbe prima abolire il motivo per cui non c'è affatto parità in partenza fra i sessi. Poiché però neanche le femministe propongono leggi per costringere le donne a farsi avanti nella metà dei casi di corteggiamento, o per impedire alle stesse di usare la bellezza per appagare i bisogni d'autostima, di accettazione e di riconoscimento, per legittimo interesse personale, sociale o sentimentale, dentro e fuori l'amore, per avere quello che vogliono dal partner che vogliono, o anche solo per semplice desiderio naturale e vanità, non posso accettare che si impongano censure a quanto negli anni, nei secoli, nei millenni, noi uomini abbiamo saputo costruire per contrapporci a tutto ciò.
Vadano a raccontare a qualcun altro che “è un innocuo contropotere”. Nascendo da un desiderio di natura, non può che precedere, e non già seguire, qualunque tipo di ordine sociale. Quindi è il vituperato “maschilismo”, semmai, ad essere il (sempre più innocuo, dato che ormai si sono ridotte a combatterne un preteso residuo simbolico) “contropotere”. Agendo nel “Mondo come volontà” dei più profondi bisogni esistenziali, sessuali e psichici,  per i quali uomini e donne prendono le scelte nel “mondo come rappresentazione” del denaro, del lavoro, dei ruoli sociali (gli esseri viventi non sono spinti direttamente, come fa credere il “materialismo storico”, dalle regole e dalle apparenze razionali di soldi, lavoro, e potere, ma, semmai, scelgono di ricercare soldi, lavoro e potere come mezzi per raggiungere l'appagamento dei ben più intimi e atavici bisogni di sentirsi riconosciuti, apprezzati, desiderati, ammirati: chi, come la donna ha spesso già l'appagamento di questi senza passare per quelli, ha un privilegio, non uno svantaggio), è molto più pervasivo di quanto viene visto come “vero potere” (che in realtà, come visto, è solo un tentativo più o meno efficace di compensazione).
Se sono diverse (a priori, e non per meriti/demeriti dei singoli) le posizioni di partenza, è profondamente ingiusto volere poi uguaglianza nelle condizioni di gara, se sono diversi i bisogni e quindi gli obiettivi da raggiungere, è altamente iniquo pretendere parità all’arrivo. Poiché sono gli spermatozoi a “partire più indietro”, anzi, sono gli unici a dover partire, mentre gli ovuli sono già nati all’arrivo, uguaglianza (nel diritto alla libertà ed alla felicità) significa lasciare che siano i primi a ricevere (o a costruirsi spontaneamente) maggiori risorse, energie e stimoli per correre; se sono gli spermatozoi a dover correre all’ovulo e non viceversa (e nel caso della competizione automobilistica, la rappresentazione è più che emblematica), allora equità significa non imporre “limiti di velocità” ai primi (come sono di fatto le quote rosa o altre leggi e costumi che limitano gli uomini) e non lamentarsi se le rappresentazioni pubbliche come lo sport incitano più i primi che non il secondo a “correre”.
Se io sono naturalmente, ineludibilmente ed irrefrenabilmente attratto dalle lunghe chiome, dal claro viso, dall’alta figura che bella e lontana la fa mentre la si mira come luna in cielo, dalle membra scolpite come da un divino artefice, dal ventre piatto e levigato, dalla pelle liscia ed indorata come di sabbia baciata dall’onda, dalle chilometriche gambe di modella, e dall’altre grazie che, per dirla con Dante, è “bello tacere”, ed ho profondo e naturale bisogno, tanto nel corpo quanto nella psiche, di sentirmi disiato, ammirato e accettato da chi incarna tale bellezza per qualcosa di altrettanto poeticamente bello, immediatamente percepibile e socialmente luminoso, allora non dico mi si debba spingere a forza una modella nel letto, ma almeno allevare in un contesto nel quale, tanto materialmente quanto psicologicamente, abbia possibilità concrete (ovviamente se l’eccellenza e la costanza nello studio temprate nelle discipline più severe me ne rendono meritevole, e se la delicatezza d’animo e la raffinatezza di spirito, coltivate nelle letture più profonde e grandiose mi rendono sufficientemente degno di cercare di accostare alla bellezza corporale e mortale della donna quella non corporale e non mortale della poesia da essa ispirata) di non apparire ridicolo soltanto per osare un approccio.
Non certo nel contesto lavorativo in cui si introducono quote rosa “perché ci sono troppi uomini”. Come se non fosse un merito essere riusciti, nonostante l’istruzione in mano a donne spesso pure femministe, a sopravvivere alla noia e alla demoralizzazione per emergere poi, al liceo ed all’università, in discipline scientifiche! Come se, quando sono le donne ad essere più brave a scuola e ad emergere in altre discipline (ad esempio lettere e giornalismo), queste non fossero esaltate, e non si desse merito ai loro risultati scolastici “migliori di quelli dei maschi” (il cui minore risultato viene attribuito a minori qualità e non ad eventuali discriminazioni psico-sociali anti-maschili).
Non certo nel contesto psicologico attuale, prodotto dalla cultura ufficiale (dalla quale tutto quanto è, più o meno ragionevolmente, visto come “femminile”, è presentato quale “bello”, “buono”, “pacifico”, “moderno”, “evoluto”, “raffinato”, ”complesso”, mentre tutto ciò che viene più o meno fondatamente sentito come maschile viene visto quale “brutto”, “cattivo”, “violento”, “vecchio”, “primitivo”, “rozzo”, “semplice”) e dall’immaginario hollywoodiano (nel quale i personaggi maschili sono troppo spesso raffigurati o come “molesti”, “bruti”, “violentatori” da punire nel modo più profondo, vasto e doloroso e umiliante possibile, dal calcio nelle palle all’omicidio, o come mezzi ritardati psichici resi ancor più ingenui dal desiderio, pezzi di legno davanti a cui permettersi di tutto, pupazzi da sollevare nell’illusione e gettare nella delusione)! Come se non fosse stata scritta da Torquato Tasso la “Gerusalemme liberata”, nella quale, a contraltare dell’eroe maschile Tancredi (costretto allo stereotipo dalla necessità di conformare la trama principale alla storia reale delle Crociate e i tratti umani ai precetti della Controriforma) appaiono diverse figure femminili (più libere e variegate proprio perché non costrette ad avere un ruolo preciso nella “grande storia”), nelle quali (si pensi alla figura di Erminia ed alla sua passione nascosta) il poeta nasconde le più tenui, delicate, languide, complesse fino al chiaroscuro, sfaccettature del proprio animo (meglio di quanto potrebbero mai fare mille bloggers intimiste), e le più illuminanti, sconvolgenti, a tratti pure moderne (si pensi alla figura di Clorinda guerriera) descrizioni dell’animo femminile (prima di quanto abbia potuto fare il femminismo storico)! Come se il vertice della storia in questa parte di mondo, figlia della Grecia e di Roma, rispetto a cui noi contemporanei appariamo “gnomi sulle spalle dei giganti” non solo per la grandezza delle opere che ancora noi possiamo ammirare, non fosse stato edificato da corpi e menti maschili, come se quei popoli fondatori di città e civiltà di cui le stesse donne (in misura quantitativamente molto maggiore di quanto non facciano gli uomini, se pensiamo all’insegnamento scolastico) continuano (ironicamente?) a studiare e a far studiare, ad amare e far amare l’eredità di pensiero, di monumenti e di leggi, i costumi, la lingua, la letteratura, gli insegnamenti, le idee e le vicende storiche e persino gli dèi, fossero stati composti di altri che di uomini! Non amo la retorica, ma la mia capacità di sopportazione della propaganda femminista ha raggiunto ormai il limite estremo. Non desidererei lanciarmi in dichiarazione che, fuori contesto, potrebbero davvero apparire “maschiliste”, ma il livello raggiunto dal martellamento mediatico avverso necessita ben di una compensazione!
Se non si può cambiare la struttura naturale nella quale spetta sempre e solo ai maschi il dovere della cosiddetta conquista (dalle fiere che devono con certa fatica ed incerto successo inseguire la femmina fuggente chi sa dove, agli usignoli che devono continuamente spandere armonia fino a morire di languore, dai pavoni che devono diffondere la bellezza colorata dalle loro ruota per sperare di essere notati dall’amata ai cervi che devono riservare ogni forza ed ogni abilità nell’incornarsi fra loro per cogliere l’unica opportunità di essere premiati amorosamente), né la sua conseguenza sociale (per la quale, in certi locali notturni, laddove i ragazzi devono pagare e passare una selezione, le coetanee entrano gratis fra grandi sorrisi, ed in ogni luogo e tempo della vita qualunque fanciulla, avente una sia pur lontana simiglianza con qualcosa in grado di suscitare un sia pur minimo palpito di desiderio, è circondata da un corteo di amici-ammiratori pronti a tutto per un sorriso, da una corte di cavalieri serventi disposti a dare tutto in pensieri parole e opere per la sola speranza, da una fila di mendicanti d’amore in perenne attesa della sportula da colei da un cui sì e da un cui no dipendono il paradiso o l’inferno), allora non devono essere cambiate neppure le naturalmente ed umanamente conseguenti compensazioni sociali, (per le quali, nella realtà del lavoro, in certe posizioni non vi è parità uomo-donna, e, nella rappresentazione dello sport, il campione famoso ed apprezzato per capacità e coraggio è attorniato di fanciulle sfolgoranti primieramente per la bellezza)!
Ad una mia amica che sosteneva le pene amorose dover comunque essere sopportate dai maschi in quanto naturali, io auguro che, essendo naturale pure il mal di denti, le venga estratto un molare malato senza la “innaturale” anestesia! La perfidia femminile di queste argomentazioni (è naturale, quindi sopportabile) è evidente dalla constatazione che “l’umano consorzio”, per dirla alla Leopardi, dovrebbe avere quale precipuo fine proprio il tutelare gli individui dal “duolo” che “spontaneo sorge” e, più in generale, permettergli di appagare i bisogni naturali con quante meno difficoltà possibili fra quelle altrimenti postegli contro dalla “Natura Matrigna”. Naturale sarebbe anche lasciare morire i fanciulli più deboli e gli adulti malati “per selezione”. Civile è invece proteggere quelli e curare questi. In natura chi non sa procurarsi il cibo muore di fame. Nel mondo civile, chi svolge il proprio ruolo in società può comprare il cibo con il proprio lavoro. Ecco perché anche il bisogno naturale di bellezza e piacere dei sensi deve, se necessario, poter essere appagato a pagamento. Chi vorrebbe vietare la prostituzione e lasciare il corteggiamento (che, sia detto di passaggio, è prostituzione psichica dell’uomo con ricompensa incerta) come unica possibilità, è ridicolo come chi volesse costringere gli affamati a sedurre una fornaia per potersi sfamare (anziché aprire il portafoglio e comprare il pane con civile accordo). Riconoscere e non reprimere i desideri naturali non deve implicare sottomettersi a disagi, fatiche e privazioni evitabili grazie alla civiltà storica, né tantomeno ai capricci della “dama di turno”. Chi vuole giustificare la naturale preminenza femminile nella sfera psico-sessuale con ragionamenti del tipo “peggio per i maschi se sono naturalmente svantaggiati in quel campo”, dovrebbe essere messa a tacere con repliche del tenore “allora peggio per voi se siete più deboli fisicamente e chiunque può abusare di voi”. Come c’è la cavalleria per tutelare le donne da chi volesse usare violenza per strappare favori senza consenso, così deve esistere un opposto-complementare accordo per permettere ai maschi più deboli e bisognosi nella sfera psico-sessuale di non essere maltrattabili con perfidia o “tiranneggiabili per fame” in quel campo. Ecco perché la propaganda del femminismo maistream, il quale mira a rendere invivibile la vita agli uomini, mette tutto ciò (dalla prostituzione adulta e consenziente agli “stereotipi di genere” che producono “disuguaglianze sul lavoro”) nel calderone del termine “discriminazione”. Il nome infamante serve a non far riflettere sulla cosa in sé (chè, altrimenti, se ne vedrebbero l’umanità e l’equità).
Non mi stupisce l’insistente menzogna femminista del voler far apparire come risultato di una discriminazione “maschilista” l’effetto di un privilegio naturale femminile, facendo perfidamente apparire in colpa quegli stessi uomini che fin da fanciulli, proprio per non subirlo, hanno iniziato ad avviarsi all’eccellenza nello studio meritandosi una superiore posizione lavorativa (da cui bilanciare con cultura, denaro e potere l’arma della bellezza muliebre).
Quello che non finisce mai di stupirmi è la stupidità di una così gran parte degli uomini moderni (ivi compresi, non l’avrei mai detto, insospettabili giornalisti di Autosprint) del permettere alle femmine contemporanee di mantenere la propria posizione di naturale preminenza nelle sfere dell’amore sessuale, dei rapporti sentimentali, delle scelte riproduttive, nello stesso periodo in cui reclamano pari diritti e pari rappresentanza in tutte quelle sfere (dall’arte alla politica, dal lavoro allo sport) che sono state nei secoli costruite dall’uomo proprio per bilanciare tale preminenza.

6.       CONTESTAZIONI PUNTO PER PUNTO ALLE MENZOGNE BOLDRINIANE DI GIORGIO TERRUZZI
Ora che, come vogliono le regole della campagna elettorale, le differenti visioni del mondo  (che prendono qui il posto degli schieramenti politici) si sono chiarite e dichiarate, si può procedere alla contestazione punto per punto delle argomentazioni del Teruzzi.

Quando Giorgio Teruzzi parla di corse maschilista, deve riflettere sul fatto che:
1) Forse la preponderanza di maschi fra spettatori, piloti ed ingegneri dipende semplicemente dal fatto che tutti noi, prima ancora di nascere, eravamo naturalmente “corridori” (spermatozoi) e che, se siamo nati, è perché “quella volta” abbiamo vinto (e voler la miss all’arrivo ad accogliere il pilota con un bacio è un rivivere quell’archetipo di vita-vittoria); si chiama natura, non maschilismo;
2) Forse, anche, molti ragazzi dedicano l’anima all’automobilismo, e, se non hanno la fortuna e i soldi per correre, passano i w/e guardando gare e le notti sognando auto, proprio perché, nella vita sociale con le coetanee, sono trattati con malcelata sufficienza quando non aperto disprezzo da fanciulle di bellezza quasi mai alta ma di comportamento sempre altezzoso (le quali così si possono atteggiare solo e soltanto per la penuria tipicamente italiana di vera bellezza femminile e la dote tipicamente italica di tirarsela vedendosi circondate di tanti maschi focosamente amanti di ogni minima parvenza di beltà), non avendo ancora doti e strumenti per ribaltare i rapporti di forza contrattuale o per cercare altrove altre e meno finte bellezze, si rifugiano nelle auto per comprensibile momentanea disperazione (ed in tal caso, le bellezze siderali svettanti in griglia hanno il positivo effetto di mostrare alle melanzane quanto veramente siano distanti dal modello di beltà dei cui privilegi iniquamente abusano e di indurle a riconsiderare le loro pretese); si chiama stronzaggine femminile, non maschilismo;
3) Se anche il mondo dei motori apparisse davvero così maschilista nella sostanza dei rapporti fra i generi e nel colpo d’occhio sulla griglia, al giudizio del politicamente corretto femminil-femminista, perché dovremmo voler correggerci? Essendo maschile la maggioranza degli appassionati, dei praticanti, e dei protagonisti tanto tecnici per sportivi, perché dovremmo lasciar decidere alle donne, ultime arrivate con già pretese di dettar legge? E addirittura lasciare decidere non alle addette ai lavori (come le stesse grid girls), non alle pilotesse (come Susie Stoddard che terrebbe le grid girls), ma a donne di lobbies che magari non guardano neanche i gran premi? In democrazia decide la maggioranza. E anche negli stati non-democratici, decide la casta dei fondatori e dei guardiani, non la “gente nova” dai “subiti guadagni” di dantesca memoria. Ci permettiamo forse noi di cambiare le regole dei gruppi femministi che per discutere escludono gli uomini? Chiediamo forse noi appassionati di cambiare qualcosa nel grigiore delle riunioni politicamente corrette cui le donne partecipano? A me certi ambienti non piacciono e quindi cerco di starne alla larga. Si chiama scelta personale. Se alle donne non piace il mondo dei motori perché maschilista, possono benissimo non guardare i gran premi. Sarebbe una perdita numericamente molto meno rilevante di quella dei ragazzi che magari iniziano a guardare le griglia per le grid girls. Quindi lasciare le grid girls è razionalismo democratico, non maschilismo;
Quando Giorgio Teruzzi parla di violenza, si deve ricordare che:
1)      I cosiddetti “grandi numeri” della violenza nascono da “sondaggi” nei quali alla voce “violenza” viene conteggiata qualunque risposta positiva a domande del genere  “ha mai alzato la voce?“, “ha mai mostrato disprezzo per le tue opinioni?”, “ti ha mai rifiutato qualcosa”, o “ti ha mai criticata”, cui qualunque persona non abbia vissuto soltanto nella cella di un commento potrebbe dire “sì” pur senza avendo subito nulla di oggettivamente violento dall'altro sesso. Se le stesse domande e gli stessi criteri di definizione lasca, arbitraria ed unilaterale di violenza (senza peraltro alcun obbligo di riscontro o possibilità per la controparte di ribattere) fossero concessi anche agli uomini, si scoprirebbe che, magari non due uomini su tre, ma proprio tre su tre hanno subito violenza fisica o psicologica dalle donne.
2)      Parlando di fatti decisamente più gravi e dimostrabili, non vi è alcuna “emergenza femminicidio”. I dati basati sulla realtà non registrano da decenni alcun aumento delle uccisioni di donne da parte di uomini. I giornali ne parlano solo perché, da qualche anno, c'è la volontà di vedere ogni singolo caso come parte di un intento “collettivo” maschile di “genocidio”. Certo, umanamente, anche un caso soltanto è "troppo". Lo stesso però potrebbe essere detto di ogni omicidio, anzi, di ogni reato. Gli omicidi sono sempre "troppi", ma se da anni sono assestati su un minimo statisticamente "fisiologico" (343, l’anno scorso, su milioni di abitanti), non si può gridare all'allarme sicurezza solo perchè non sono ridotti a zero. Lo stesso dicasi per i furti. Parlare di "escalation" quando i dati non si discostano dallo storico serve solo a creare insicurezza a fini politici. Tutti ci auguriamo che nessuno ruba o uccida. Nessuno giustifica il furto o l'omicidio in alcun modo, nè ne sminuisce la gravità. Il fatto però che, nonostante questo, furto ed omicidio non siano spariti del tutto “in anni e anni di parole”, non autorizza nessuno a sostenere che gli Italiani "abbiano una sospetta complicità con i ladri" o "siano portatori di una cultura in parte omicida". Questo sarebbe, ancora una volta, lo schema di ragionamento "medievale" che punta a far sentire in colpa le persone "collettivamente" (per l'inevitabile "peccato" che segna il genere umano) in modo da far poi loro accettare qualunque sopruso e qualunque assurdità come "redenzione". E l'ultimo femminismo, Boldrini in testa, sta facendo proprio questo contro gli uomini. Utilizzando alcuni episodi di cronaca nera come "paradigmatici" (quando, numeri alla mano, sono l'eccezione, non la regola), si sta montando una campagna diffamatoria contro il genere maschile, tentando di giustificare con essa futuri provvedimenti contrari al diritto ed alla ragione (come, ad esempio, con la scusa di "proteggere prima le vittime", dare a qualunque donna il potere di mandare in galera qualunque uomo con la sola parola dell'accusa, anche prima ed anche senza riscontri oggettivi e testimonianze terze della presunta "violenza", come già avviene in certi caso nell'anglosfera) e per far accettare in toto, senza possibilità di replica, riflessione e dibattimento, la “narrazione femminista” di cui si è discusso nei capitoli precedenti (chi non è d'accordo con essa è tacciato di maschilismo, di complicità con i violenti, di collusione con la "cultura della violenza").
3)      Il fatto che il cosiddetto femminicidio sia una montatura non vuol dire che reati contro le donne non esistano, ma semplicemente che sono spesso la spia non di una particolare "malvagità" maschile, bensì di una umana incapacità di tollerare la perfidia femminea unita all'oppressione femminista. Si usa spesso snocciolare cifre di omicidi e degli omicidi/suicidi per passione. Le cifre non sono bilanciate. Si riporta il marito che (magari prima di vedersi costretto a vivere privato degli affetti e dei beni, della casa, delle ricchezze e dei figliuoli, e dunque delle ragioni e dei mezzi per vivere) uccide la moglie, ma non si riporta il ragazzo che, caduto nella trappola amorosa della "dama" di turno, si impicca per disperazione sentimentale. La violenza è nel mondo, e per ovvi motivi gli uomini tendono ad usare quella fisica, le donne quella psicologica, ma non è scontato quale delle due sia più grave. Dipende dai casi. Inoltre non ci si può stupire se con l’inganno si genera quasi la follia nell’animo altrui e le reazioni sono inconsulte. Non vi è infatti il diritto di molestare nel sesso il prossimo con la menzogna o la falsa illusione (sia essa fisica o psicologica), né per gli uomini né per le donne. Se ammettete l'irrazionalità nel comportamento umano dovete ammetterla in amendue i sessi, non solo dove vi fa comodo. Fra uno che spara e una che suscita ad arte la disperazione per indurre al suicidio non trovo differenza. Distinguerei poi i delitti fra fidanzati e amanti, il cui movente è solo passionale puramente, da quelli fra coniugi, in cui subentrano molti altri fattori, quali la necessità di sopravvivere economicamente, di non farsi defraudare degli averi e dei figli, di doversi ricostruire una vita, di veder distrutto tutto quello per cui si era lavorato e sofferto (la famiglia, i beni, la casa ecc., l'avvenire sereno in famiglia, la vecchiaia consolatrice ecc.). Nel primo caso, spesso, il tutto è accompagnato sovente dal suicidio (per cui è il classico esempio di ciò che si dice "omicidio altruista"): si tratta di una dimostrazione di quanto detto da Nietzsche: "le donne sembrano sentimentali, gli uomini invece lo sono. Gli uomini sembrano crudeli, le donne invece lo sono". Se noi uomini fossimo davvero crudeli di una superficialità da rieducare, come vuole il femminismo, non potremmo essere portati alla disperazione da motivi sentimentali. Nessuno ucciderebbe o si suiciderebbe se considerasse l'amore come puro divertimento sessuale e la donna un mero “oggetto di desiderio”, come siamo accusati di fare. Se davvero spesso gli uomini non possono rassegnarsi alla perdita dell'amata (come non vi si sono rassegnati i poeti da Tibullo a Petrarca) è invece solo e soltanto perché quanto per le donne, alla fine, è solo un mezzo per ottenere apprezzamenti, appagamenti di vanità, sicurezza per la prole, bella vita per sè, regali, mantenimenti o anche solo momenti psicologicamente piacevoli, per gli uomini è davvero, parafrasando il Tasso, "vita de la loro vita", un'essenza e un senso vitale senza i quali la vita stessa perde significato e al di là dei quali resta solo la possibilità di uccidere o essere uccisi. Se solo gli omicidi commessi per mano maschile fossero maggiori di quelli compiuti da donne, allora si potrebbe (volendo rimanere ciechi alle motivazioni di chi di fatto viene in occidente dalle donne vampirizzato con beneficio di legge) ancora ammettere per ipotesi la tesi della "violenza maschile". Poichè invece, parallelamente, anche i suicidi amorosi sono maggiori da parte degli uomini, allora si deve concludere in favore della mia tesi. E far passare per maggiore malvagità quanto è invece maggiore e più profonda sentimentalità significa avere nel cuore non il chiaro di luna, bensì il NERO DI SEPPIA. Nel secondo caso, invece, il tema amoroso non è sempre quello scatenante. Come detto, vi sono altri elementi decisivi. Lo vedo quasi come un distruggere pria di essere distrutti, una sorta di "muoia Sansone con tutti i filistei (le filistee?)". Spesso si tratta di una lotta per la sopravvivenza, di una vendetta per non subire la distruzione della propria famiglia, della propria identità, della propria vita, della propria dignità, del proprio onore. La vita dell'uomo separato è troppo spesso simile a quella dell'esule: senza famiglia, privato degli averi, della casa, dei mezzi di spostamento, spesso inviso all'ambiente sociale, lontano dai figli, vaga in cerca di una nuova vita, di un tetto e di un lavoro (anche umile o faticoso) che gli permetta di pagare i debiti (magari un mutuo contratto per la casa ora non più sua) e gli alimenti. Vi è chi prende tutto con dignità e con filosofia e con entusiasmo ricomincia daccapo (anzi, da meno quello che deve pagare della vita precedente), e chi invece concepisce tutto questo come un'insanabile ingiustizia (perché, se i sessi sono pari, i figli e la casa finiscono sempre alla donna, e la colpa quasi sempre a lui? Perché i capricci e le difficoltà psicologiche della donna sono sempre giustificate, con frasi del genere "è insoddisfatta della vita di coppia, della noia casalinga o del doppio lavoro ecc., del disinteresse del marito, si sente oppressa, soffocata ecc." e quelle dell'uomo, come le scappatelle, no?) alla quale si ribella nel solo modo possibile (una volta che la legge e la società gli sono contro): quello del tirannicida alfieriano (o, se vogliamo, del terrorista). Poichè però si tratta di migliaia di casi su milioni di cittadini e di cittadine, e che, per dirla chiaramente, anche ammettendo la percentuale di “stronze” attorno ad un prudenziale dieci percento, resta infinitesima la probabilità anche per la più stronza fra le stronze di venire uccisa, violentata, o anche solo picchiata per vendetta, è un'impostura parlare di “violenza maschile contro le donne” e tanto più di  “femminicidio”.
4)      il numero delle donne uccise è minore di quello degli uomini che muoiono sul lavoro (e quindi per il profitto di una società che continua, come in un non troppo lontano passato in cui le donne venivano esentate, per esempio, dal servizio militare, a considerare quello maschile come “sesso sacrificabile”) o assassinati (da altri uomini e non da donne, certo, ma comunque all’interno di episodi criminali nei quali rimangono invischiati con probabilità maggiore dell’altro sesso proprio perché, al contrario, come spiegato più volte, delle donne, non hanno modo di ottenere ruolo sociale e considerazione amorosa se non raggiungono una certa posizione e un certo guadagno: e quando le condizioni oggettive o le capacità soggettive non permettono di ottenere tali obiettivi legalmente, non restano alternative all’accettazione del rischio insito nelle attività malavitose).
5)      Il numero di donne che subiscono violenza dagli uomini è un infinitesimo di ordine superiore rispetto a quello degli uomini la cui vita può essere distrutta in qualunque momento dalle donne. Non sono le donne potenzialmente meno assassine degli uomini, lo sono (per forza di cose) in maniera diversa: possono (per tutti i motivi variabili dall’irragionevolezza momentanea all'interesse economico-sentimentale, dal rancore generalizzato al patologico bisogno di sentirsi vittime, dalla vendetta arbitraria al gratuito sfoggio di preminenza sociale) distruggere (materialmente, moralmente, socialmente, economicamente, giudiziariamente, psicologicamente o anche fisicamente) la vita di chi vogliono (fino ucciderlo o a renderlo un morto vivente) senza doversi esporre in prima persona, ma semplicemente inducendo un altro uomo ad uccidere per loro o (sfruttando a fini personali le leggi a senso unico su aborto, divorzio e violenza sessuale) inducendo l'intera società ad essere l'esecutrice della volontà di assassinare socialmente la vittima designata. La vita di un uomo preso di mira da “stalking giudiziario” femminista può divenire simile a quella dell'esule ottocentesco, privato di famiglia, casa, roba, depredato di ogni avere, allontanato dai figli e dagli affetti materiali e morali, derubato di ogni possibilità materiale e morale di rifarsi una vita e di ogni residua speranza di felicità, a volte pure della libertà e della salute con accuse false o strumentalmente esagarate ad arte (conducenti alla galera preventiva grazie a stupidità cavalleresca e demagogia femminista applicate alla giurisprudenza, per la quale si può finire in galera sulla sola parola di una donna anche prima e anche senza riscontri oggettivi e testimonianze terze della presunta "violenza").  Ho visto tante situazioni in cui i mariti vengono bersagliati dalle ex-mogli in ogni modo umanamente immaginabile, vivono quasi peggio dell'esule ottocentesco (alcuni dormono davvero in macchina perché non riescono a pagare l'affitto, tanti svolgono lavori faticosi con straordinari impossibili per pagare alimenti impossibili, tanti cambiano lavoro e città) e devono subire umiliazioni (pubbliche e private) di ogni sorta (dagli schiaffi ai quali non possono replicare per non essere accusati di violenza, alla calunnia con amici e tribunali), accuse false e infamanti (di default quella di violenza, spesso accompagnate da altre invenzioni più fantasiose riguardo ad abitudini sessuali, comportamenti e fatti privati in famiglia), falsità e malignità (mettere i figli contro e sparlare con i conoscenti dando al marito la colpa di tutto), soprusi ed angherie, pignoramenti improvvisi e ingiustificati, veri e propri espropri (di auto e di case), e il tutto in maniera perfettamente legale e protetta dalla mentalità femminista e dalla società galante, che persino un uomo mite e pacifico come me (una volta ferito nell'intimo e in quello che doveva essere un aspetto di dolcezza) potrebbe trasformarsi in un efferato killer.
6)      le presunte "violenze" potrebbero essere non arbitrari e unilaterali strumenti di oppressione di un carnefice su una vittima, ma mezzi di offesa/difesa all'interno di un rapporto conflittuale in cui ciascuno, per interesse, tirannia ed ottenimento della preminenza, usa (con poche remore, regole e limitazioni) le armi che ha, e in cui l'uso magari da parte della donna della violenza psicologica al posto di quella fisica non dimostra maggiore bontà bensì maggiore perfidia, non denota un essere vittima ma un diverso modo di essere carnefice. Se si parla di violenza verbale o psicologica, le donne (al contrario di quanto accade nello scontro fisico) non hanno certo per natura meno armi, anzi (le disparità di desideri nell'amore sessuale e quelle psicologiche, legate alla predisposizione all'esser madri, e quindi a manipolare anime pur mo' nate, le permetterebbero di sfruttare dipendenze erotiche e affettive e a fine di tirannia, ricatto, prepotenza, vanità), e per legge e costumi hanno la possibilità del vittimismo e della violenza della legge (o di quella da agire per interposta persona: vedi mandanti di varia natura, non ultima quella che aizza i figli contro il padre), quindi non ha senso considerarle meno violente a priori (come implica , anche perchè, come mostrano certe statistiche di cui non si parla, con i bambini, più deboli, lo sono spesso anche fisicamente (e statisticamente più degli uomini) e soprattutto l'esperienza quotidiana mostra che ad alzare la voce e a criticare il partner in pubblico o anche a tirare oggetti e ad alzare le mani per prime (confidando in cavalleria, o timore della legge, e colpo a tradimento o scorretto) le donne superano spesso gli uomini;
7)      Specie all'interno di legami sentimentali degenerati in litigi, contese e ripicche, le testimonianze possono essere completamente inventate o esagerate ad arte (per capriccio, vendetta, ricatto, interesse di risarcimento o gratuita volontà di distruzione della vita dell'altro). Già così si rischia sulla sola parola della donna, anche prima e anche senza riscontri oggettivi e testimonianze terze della presunta violenza, di essere allontanati dalla casa, dai figli e costretti a sostenere i rischi e i costi di un processo per violenza (per non dire per pedofilia su false accuse), e se l'ex trova un'amica pronta a testimoniare (di aver visto anche solo uno schiaffo), pure di essere arrestati prima del processo. Vorreste forse tu e i tuoi amichetti femministi filo-boldriniani, la “legge integrale” spagnola, per cui si può addirittura finire in galera come criminali, privati di ogni bene, di ogni libertà, di ogni rispettabilità sociale e di ogni speranza materiale e morale di ricostruirsi una vita, non solo senza prove ma pure senza processo?
Quando Giorgio Teruzzi parla di molestie, deve tenere presente che:
1) i “casi che non cessano di emergere” nascono semplicemente dall’ultima moda delle attrici di Hollywood un po’ stagionate e un po’ bisognose di soldi, notorietà e vendetta, di accusare ex-post chi a suo tempo ha concesso loro una corsia preferenziale di carriera in cambio di favori particolari, facendo passare per abuso quanto è stato a suo tempo un do ut des (di cui oggi, riscosse tutti i vantaggi in fama e guadagni, fingono di pentirsi riscoprendo una “dignità” che rima piuttosto con menzogna, ipocrisia, caccia alle streghe);
2) per quanto molesto o insistente sia un approccio, sarà sempre meno molesto e meno pressante della condizione stessa di chi è obbligato a farsi avanti alla cieca (senza sapere cosa e come sarà gradito, dovendo scervellarsi per divinare quale eventuale dote o aspetto di sé debba far emergere dal primo contatto, e implorare il cielo per avere una minima occasione di rendere sensibili quelle proprie sfumature di sentimento o intelletto con cui essere potenzialmente, se non apprezzato, almeno distinto dalla massa degli altri pretendenti giornalieri, con il rischio invece di essere irriso, posto in ridicolo, trattato come uno fra i tanti, un banale scocciatore, o addirittura additato ed accusato di “molestare”) e della consapevolezza di doverlo fare sempre, ovunque e comunque (legge dei grandi numeri) per avere una non infinitesima speranza di riuscita (provando tutte le volte l’illusione e la delusione);
3) non si può accettare che possa a posteriori, e su arbitraria e soggettiva definizione demandata alla “sensibilità” della presunta vittima, essere classificato fra le “molestie” qualunque sguardo, detto, atto o toccata non abbia altra colpa se non manifestare (in maniera vagamente poetica o decisamente prosaica, in modo psicologicamente raffinato o fisicamente semplice, con modalità aristocraticamente letteraria o volgarmente schietta, l’interesse dell’uomo per il corpo della donna e magari comunicare (più o meno consciamente, più o meno ironicamente, più o meno direttamente), specie se da parte delle donne si continua, in massa, a pretendere comunque che sia sempre e solo l’uomo a fare la prima mossa (già è problematico vincere l’irrazionale timidezza del farsi avanti, già è faticoso dover inventarsi dal nulla un tentativo non velleitario, già è difficile superare il razionale pessimismo del calcolo delle probabilità, che, se anche solo il primo tentativo è a rischio di denuncia, allora tanto vale davvero dedicarsi solo alle puttane) e considerando che (per insondabili motivi di interesse –aumento del proprio valore economico-sentimentale per via del numero degli ammiratori - o di gratuita vanità – godere delle pene e delle incertezze altrui) raramente esse si degnano di non essere ambigue, ma anzi sovente usano il diniego o il forse per testare l’effettivo interesse dell’uomo e costringerlo a soffrire ed offrire sempre di più in ogni termina materiale e morale (esse si sbaglia intendendo un no per un sì mascherato da contrasto madonna-messere di Cielo d’Alcamo, si rischia la denuncia, ma se si sbaglia in senso in verso, prendendo per no vero un diniego momentaneo posto ad arte, si ha la sicurezza di essere disprezzati come “non abbastanza pazienti” e “pavidi nel corteggiamento”);
Quando Giorgio Teruzzi parla di battute sessiste e offensive, dovrebbe vedere anche che:
1) anche la più volgare delle battute a sfondo sessuale, contiene un fondo di complimento, se non altro nel fatto stesso di denunciare un sincero, profondo ed istintivo desiderio naturale per le grazie della donne che la volgarità certo abbruttisce e a volte nasconde, ma sicuramente non cancella; al contrario, quando battute femminile volgono a farci apparire “sfigati”, e quando respingimenti alle nostra advances sono effettuati con studiata perfidia di corpo e d’anima, plateale
2) le donne non si scusano mai, ma continuano a ridere quando, seguendo la moda della televisione e del cinema, e di certa pubblicità denigratoria antimaschile (che nessuna Boldrini si è mai preoccupata di censurare) si permettono su di noi battute del genere “voi uomini siete lenti” (per noi appassionati di velocità, offesa sanguinosa ben oltre il suo valore di pregiudizio di genere sul nostro modo di pensare e di vivere) o “ormai non servite più a niente” – e sono battute dette con intento; di conseguenza io, se per caso offendessi qualcuna con una battuta osè o sessista senza volerlo, non sentirei certo il dovere di scusarmi;
3) la principale forma di molestia-violenza femminile ai nostri danni, di cui non solo le donne non si scusano mai, da di cui anzi rivendicano il diritto ad esercitare, ovvero il “fare la stronza” (ossia suscitare ad arte il disio solo per compiacersi della sua negazione e di come questa, resa massimamente beffarda, dolorosa e umiliante da una studiata e raffinata perfidia, possa gettare nell'inferno della delusione dopo le promesse del paradiso della concessione; attirare direttamente o indirettamente chi non si è affatto interessate a conoscere bensì soltanto a respingere, deridere intimamente o pubblicamente facendolo sentire uno fra i tanti, un banale scocciatore; mostrare le proprie forme fra vesti discinte solo per porsi su un piedistallo di irraggiungibilità, per generare frustrazione negli astanti, per farli sentire nullità di fronte ad una bellezza non compensabile, per maltrattarli se tentano un qualunque approccio; usare sguardi, movenze, e svestimenti per indurre a farsi avanti chi si vuole soltanto disprezzare, rendere ridicolo a se stesso e agli altri, ferire nell'intimo e irridere nel disio in maniera traumatica e indelebile, trattare da molesto e far sentire privo di qualità come uno straccio da gettare; sfruttare le debolezze erotico-sentimentali per infliggere dolore fisico e mentale, per provocare disagi da sessuali ad esistenziali, per realizzare sbranamento economico-sentimentali o comunque psicologici; usare insomma l'arma della bellezza per ingannare, irridere, ferire, umiliare, come e peggio di quanto un bullo farebbe della forza fisica verso un ragazzo più debole) è ormai nell'occidente femminista divenuto comune tanto sui luoghi di lavoro quanto in quelli di divertimento, tanto nei rapporti più fugaci e occasionali quanto in quelli più lunghi e sentimentali. Qui quale simbolica iniziativa culturale o sportiva possiamo intraprendere per educare le nuove donne a non “stronzeggiare” così? Minacciamo loro di togliere George Clooney dai teleschermi?
Quando Giorgio Teruzzi parla di “figli da educare”, dovrebbe assolutamente tener presente che:
1) Chi ha oggi un figlio maschio, non può augurarsi che Quella sottospecie di stato di natura rappresentato dall'età scolare (nella quale, mentre sulle coetanee già fiorisce la bellezza, ai maschi non è ancora data la possibilità di conseguire e mostrare doti con cui essere parimenti disiati amorosamente, accettati socialmente, ammirati immediatamente e quindi, in attesa delle ricchezze e dei poteri cui aspireranno con merito o fortuna da adulti, vivono “giorni orrendi in così verde etade” se non troppo stupidi per capire la situazione dietro il velo di maya dell'amore pseudouniversale predicato dalle insegnanti) duri a vita, con delle presunte insegnanti in diritto di dirgli sempre cosa è bene e cosa è male dall'alto di una presunta superiorità morale o di una presunta maggiore maturità e delle belle fanciulle in potere di irriderlo (nel pubblico o nel privato), ferirlo (nella psiche, nel sentimento, nel disio) o tiranneggiarlo (nell'erotismo o nella vita) grazie a una desiderabilità non compensabile. Leopardi ha scritto verità immortali ed incancellabili su come si comportano le “melanzane”, soprattutto verso chi ha intelligenza e sensibilità. E' evidente da come l'hanno trattato. E poi si lamentano di chi diventa (o si finge) stupidi e insensibili! C'è sì da agire su ragazzi e ragazze, ma non nel senso auspicato dal femminismo e propagandato da Hollywood e Liberty Media.
2) Hanno un effetto devastante sulla psiche e l’autostima dei giovani maschi quelle pubblicità “glamour” nelle quali la figura dell’uomo, denudata anche fisicamente, è ridotta a quella di un pupazzo da sollevare nell’illusione e gettare nella delusione con il massimo dell’umiliazione e del dolore possibili, addirittura (vedi quella della Breil di qualche anno fa) da gettare, ad esempio, da un’auto in corsa (a differenza delle tanto vituperate pubblicità “degradanti” per la donna rappresentata come un’oca bella, nelle quali comunque rimane al sesso femminile il privilegio dell’apprezzamento per la bellezza e del desiderio della fisicità, qui il nudo è veramente umiliante proprio perché non ha valenza erotica e al sesso maschile non resta nulla per ricevere un minimo di stima, di interesse, di ragion d’essere: solo disprezzo, rancore, inganni e perfidia), nonché tutta quella cultura tanto “ufficiale” quanto “informale” la quale, a volte con interpretazioni giornalistiche estemporanee di notizie originariamente scientifiche (vedi gli studi sul cervello presunto “multitasking”), a volte con dati parziali (si dice che le ragazze sono mediamente più brave a scuola, ma non si fa menzione del dato sulla varianza – la maggior varianza fra i maschi fa sì che fra noi ci sia sì il maggior numero di somari, ma pure il maggior numero di menti eccellenti – verità che è costata il posto, qualche anno fa, al rettore di Harvard) a volte proprio partendo dal nulla (tipo “le donne sono rock”), non perde mai occasione per mostrare le donne “superiori” in tutto (anche perché, laddove si mostrano invece superiori gli uomini, interviene il femminismo più politically correct a parlare di discriminazioni).
3) Ormai le metastasi del politicamente corretto sono penetrate tanto in profondità nell’istruzione che anche in corsi a livello universitario, con la scusa di parlare in Inglese, si ascoltano “istruttivi e divertenti programmi comici” dell’anglosfera in cui le due principali battute vorrebber non troppo ironicamente convincere che (contrapposta a quella piena, raffinata complessa e bla bla bla della donna) la mente dell’uomo sia una scatola vuota (come se, dal vuoto di questa vita umana (data, guarda caso, dalle donne), non fossero stati proprio gli uomini a creare le principali consolazioni dell’esser nati: l’arte, la matematica, le religioni spirituali, e, non ultime, da ormai più di un secolo a questa parte, le automobili da corsa) e un futuro progredito debba possa soltanto essere a guida femminile (come se, nella realtà storica, non fossero stati al contrario i popoli patriarcali – la Grecia Omerica, la Roma Repubblicana, l’India Vedica, la Persia Iranica, la Germania Sacra e Imperiale - secondo quei principi etico-spirituali virili, aristocratici e guerrieri, di cui riecheggiano l’Iliade, l’Eneide, la Baghavad Gita, i poemi persiani l’Edda, il Beowulf, a segnare, in fasi, luoghi e tempi diversi, il passaggio dal tutto indifferenziato di un’umanità una-e-primordiale – egalitaria, matriarcale e senza classi- alle strutture, alle gerarchie ed alle identità propriamente storiche - senza le quali nulla, di quanto, nel bene e nel male, rende unica la nostra specie, avrebbe mai potuto esistere, senza le quali nulla di quanto siamo, come popoli e nazioni, avrebbe potuto differenziarsi, senza le quali la storia stessa non avrebbe avuto nulla di diverso dalla zoologia - ad ordinare, insomma, il chaos in kosmos e a prevalere sistematicamente, in ogni scontro di civiltà, sui popoli matriarcali, non solo con le armi, ma anche e soprattutto con la maggiore coesione sociale e la più decisa volontà di destino, petto alla quale, sia detto per inciso, gli strumenti della cultura e della tecnologia sono sempre agiti e giammai agiscono, come accade invece con noi, uomini moderni dalla piccola politica e dalla debole volontà, che ci lasciamo cambiare – ma dovrei dire degenerare antropologicamente - senza consapevolezza né controllo da facebook e dallo smartphone, altro che “evoluti”!).