Sovente e modernamente si sente dire, sia individualmente, sia a livello di popoli, che "la violenza è sbagliata". Si è soliti, sottilmente e quasi istintivamente, associare tale messaggio al tentativo di eliminare dal mondo l'ingiustizia, la prevaricazione e l'imposizione della volontà delle persone più prepotenti ai danni di quelle più eque. Grazie a questa associazione implicita, il messaggio "non violento" riscuota sommo successo presso l'intellettualità contemporanea, e, conseguentemente, presso le masse che da essa sono educate (non solo tramite la scuola, ma anche con i messaggi pubblicitari, politici o culturali, magari non espliciti ma subliminali). Poiché chiunque conosca la storia conosce anche i meccanismi raffinati e sottili con i quali le caste dominanti riescono a mostrare in maniera convincente come "giustizia e libertà" in senso assoluto la visione del mondo legittimante i propri interessi ed il proprio potere, e chi conosce i filosofi sa quanta bassezza terrena, quanta concreta falsità, quanto vizio profondo, quanta leggerezza di giudizio vi sianoo sotto il manto di purezza ideale, di verità astratta, di virtù dialettica e di assolutismo morale, è d'uopo per i lettori di Costantinopoli cercare di strappare il velo di Maya dell'apparenza per indagare la questione nel profondo delle verità esistenziali. Solo così si potrà capire il vero motore, naturale, animale oppure "umano, troppo umano", come direbbe Nietzsche, che spinge l'azione ed il pensiero della maggioranza di coloro che si dichiarano a priori contrari alla violenza, "senza se e senza ma", senza cioé indagare oltre finalità, cause e opportunità.
La violenza è puramente un mezzo, né più né meno di altri, per piegare il prossimo (non necessariamente nemico) a compiere la nostra volontà. Fra gli altri mezzi equivalenti possono essere citati , principalmente, l'inganno, l'abilità dialettica, l'infatuazione amorosa e tutto quanto vi è di affine. Non ho usato a caso i termini "equivalente" ed "affine", in quanto i mezzi si classificano primieramente in base all'essere adeguati o meno al fine cui servono, non già in base al lecito o all'illecito. Eticamente, lecito ed illecito sono categorie che caratterizzano il fine, non il mezzo. E' lo stato moderno che, per convenzione e comodità di funzionamento (e per impedire che gli individui si facciano giustizia da sé, esautorandolo), definisce mezzi leciti o illeciti, ma ciò viene fatto sempre nell'ambito di quanto, nei principi costitutivi (o costituzionali) di esso viene considerato lecito o illecito come fine. Nella condizione ideale lo stato liberale definisce infatti mezzi leciti quelli che permettono di conseguire fini leciti e mezzi illeciti quelli che, a suo giudizio, presuppongono l'intenzione di un fine illecito. Vengono considerati mezzi leciti le cause civili, il lavoro, il denaro perché con essi si ritiene possibile conseguire finalità riconosciute, come la tutela della libertà personale, della proprietà o della possibilità di profitto, mentre viene considerata illecita la violenza giacché, potendosi (nell'intenzione dello stato) tutelare i diritti individuali con la legge, e conseguire il profitto con mezzi economici, chi ricorre ad essa implica (sempre nell'intenzione astratta dello stato) la volontà di procurare danni ingiusti al prossimo o di opprimerlo privandolo arbitrariamente di certi diritti e di certi beni.
Tralasciando il fatto se tale coincidenza di mezzi leciti e fini leciti (e di mezzi illeciti e fini illeciti) sia realmente sussistente nel reale funzionamento degli stati, mi limito ad osservare come essa sia fatta arbitrariamente valere, da parte dei sostenitori della non-violenza, anche ove non vi è (come invece nella legge liberale) una definizione convenzionale di lecito o di illecito, ad esempio nei rapporti fra stati o nei rapporti privati fra persone, ossia in sfere giustamente troppo grandi o troppo piccole per essere comprese nella giurisdizione statale liberale.
Volendo lasciare da parte la politica (ché ci condurrebbe fuori sentiero) e la troppo vasta questione sulla guerra giusta o meno, la quale già appassionò gli animi da Sant'Agostino a Machiavelli, da Federico il Grande allo stesso Marx, per giungere ora a Bush ed ai pacifisti (la degradazione temporale del livello dei pensatori mi indurrebbe qui a credere alla teoria della decadenza del mondo), desidero richiamare l'attenzione sulla pretesa che l'uso della violenza implichi in generale, di per sé, un fine ingiusto o brutale o oppressivo, ed altri mezzi siano invece segno di liceità di scopi, di rispetto del prossimo e di amore per la giustizia e la libertà. Qui emerge chiaramente al confusione fra fini e mezzi., nella valutazione di cosa sia da considerare "giusto". Certo se utilizzo la violenza per rapinare qualcuno o per procurargli ingiustamente danni e privazioni o umiliazioni, allora sono davvero un oppressore. Se però mi servo della violenza per difendere un diritto mio o altrui, per proteggere l'incolumità o la serenità di vita mia o di altri, o per impedire che mi sia sottratto un bene o vietata una libertà, non solo non sono un oppressore, ma divengo un difensore contro l'oppressione. Questo è un concetto tanto evidente che persino gli stati lo riconoscono, nei casi nei quali non riescono ad essere materialmente presenti, sul momento con il loro potere preventivo, dissuasivo e coercitivo: ad esempio nella legittima difesa. E proprio questo dovrebbe chiaramente dimostrare come non sia la violenza in sé ad essere "sbagliata" (giacché in quanto mezzo non può essere né giusta né sbagliata, ma solo adeguata o meno allo scopo, al tempo, alla circostanza), ma, eventualmente, i fini che si propone, i quali sì si dividono in leciti e illeciti, in giusti o ingiusti, in oppressivi o liberali. Purtroppo tale chiarezza viene (appositamente) OSCURATA quando si tratterebbe di operare la medesima distinzione per TUTTI gli altri mezzi che possono essere utilizzati in luogo della violenza per i medesimi scopi. Se infatti mi propongo di opprimere, umiliare o tiranneggiare qualcuno, di procurargli un danno ingiusto o di porlo alla mercé del mio arbitrio e delle mie brame, forzando la sua volontà, e prevaricando le sue decisioni e la sua libera visione del mondo, utilizzando metodi come l'inganno mellifluo, la trama occulta, l'abilità dialettica distorcente i fatti e le valutazioni, lo sfruttamento della naturale illusione amorosa affinata ad arte, il rendere appositamente difficile l'appagamento dei bisogni corporali (e strumento di potere dunque il miraggio del loro soddisfacimento) o il suscitare desideri chimerici con cui guidare la mente abbacinata, non risulto certo meno prepotente, meno oppressivo e meno iniquo. Il sentire il contrario, il percepire una differenza in re ipsa fra il metodo "vis" (dal Latino: forza, violenza) ed il metodo "blanditia", a prescindere dai fini, non è "morale naturale", bensì un sentimento sapientemente indotto, nell'evoluzione storica, da un insieme di persone le quali si vedevano svantaggiate sul piano dello scontro diretto ed avvantaggiate su quello dell'intrigo, della mistificazione, dell'inganno: facendo apparire "illecito" il mezzo (la violenza) nel quale erano più deboli accrescevano il proprio potere e le probabilità di successo nel mondo attribuendo conseguentemente maggior peso e "liceità" ai mezzi di cui si sentivano più dotati e in cui ritenevano invece meno forti coloro che essi appellavano "violenti". Non vi era dunque alla base del ragionamento una questione di morale, di giustizia o di equità, bensì una mera considerazione pragmatica su come meglio opprimere il prossimo. E' straordinariamente illuminante quanto in proposito ha scritto Nietzsche, sulla nascita di una certa morale cristiana della limitazione e della rinunzia come parto del più abissale tutti gli odi, l'odio dell'impotenza, da parte di chi nella vita, con le regole ed i valori della vita, non poteva più vincere o emergere (solo una coscienza malata poteva coniugare assieme termini come “forte”, “ricco”, “sessuale”, “dominatore”, “violento”, “istintivo”, “bramoso di possesso”, “egoista”, “cupido di piaceri” con “brutto”, “cattivo”, “plebeo” e invece termini come “piccolo”, “povero”, “asessuato”, “casto”, “pacifico”, “timoroso”, “sottomesso”, “umile”, “laborioso”, “disinteressato”, “altruista”, “senza pretese”, “schivo di onori e ricchezze” con “bello”, “buono”, “nobile”), come frutto cioé di una vendicativa e rabbiosa avversiona propria di "un cane legato alla catena". Ciò è vero in generale per l'uomo, sia preso come individuo singolo, sia come parte di un popolo, giacché a suo fondamento non è un accidente storico o personale, bensì la necessaria piramidale nequitia dell'animo umano, la sua naturale prepotenza e voglia di tirannia.
A livello di popoli, gli Ebrei dell'Antico Testamento erano ancora inclini ad esaltare il coraggio e la virtù guerriera, come testimonia l'episodio di Giacobbe in lotta con l'Angelo e la concezione stessa del "dio signore degli eserciti", ma quando, sconfitti dai Babilonesi, dagli Egizi e poi soprattutto dai Romani, hanno percepito impossibile ottenere la grandezza ed il primato che spetterebbe ad un popolo "eletto" con la forza delle armi e la gloria della politica di potenza (quale massimamente esprimeva Roma), hanno iniziato a svalutare l'aspetto eroico e guerriero dell'esistenza, assieme alla ricchezza, alla forza, alla gloria mondana, alla tensione verso alla vittoria, alla sfida al destino, alla volontà di dominio ed alla brama feconda in favore degli aspetti remissivi e sacerdotali, della povertà, della debolezza, della limitazione e della rinunzia, della sottomissione a dio ed al fato, del distacco dal mondo, del disprezzo per la gloria militare e per la magnificenza terrena, dell'astinenza dalle carni e dell'umiltà d'animo, ed hanno con ciò conquistato l'impero conquistatore tramite quella versione svirilizzata e ed antivitale dell'Ebraismo che è il Cristianesimo, significativamente diffusosi soprattutto fra gli schiavi. Il fatto che poi gli Ebrei di oggi, riconquistata la potenza e la grandezza sia economica sia militare, tornino a considerare positivamente l'idea di nazione, di esercito e di diritto alla forza (sia pur per difendersi) è sintomatico. Non voglio però apparire antisemita, per cui svolgerò, per parcondicio, lo stesso ragionamento riguardo ai Tedeschi. Fin dall'epoca di Ottone I fondatore del Sacro Romano Impero Germanico (grazie alla decisiva pesantissima sconfitta inflitta agli Ungari che con le loro incursioni predatorie rendevano prima impossibili i viaggi, i commerci e un'agricoltura prospera, e, di conseguenza, una forma statuale in grado di garantire almeno la sicurezza ed un'economia che non fosse di sussistenza: in altre parole, rendevano impossibile lo svilupparsi della civiltà europea) l'ideale del popolo discendente dei fieri distruttori della legione di Alfenio Varo (fra i pochi ad aver sconfitto i Romani militarmente) era quello leale e guerriero, quale possiamo vedere fin nelle opere di Wagner, improntato al motto "meglio uccidere che tradire" o "nulla è più eterno della fedeltà". L'apoteosi persino tragicomica (comica per l'eccesso di ostentazione militaresca, tragica per i suoi effetti) di tale spirito la si è avuta nel nazional-socialismo, anche se le grandi vette del militarismo prussiano erano state raggiunte già da Federico II e, dopo, dalla Germania cosiddetta "guglielmina", nella quale, alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, i temi della volontò di potenza e del pangermanesimo erano la filosofia dominante. Quando però di nessuno dei tre Reich (la cui durata ha avuto un decadimento esponenziale: quasi un millennio il sacro romano impero, un cinquantennio l'impero germanico del bismark, un solo decennio il reich di Hitler) rimese più delle macerie e dei ricordi, gli stessi Tedeschi impiegarono poco tempo a convertire il proprio pensiero al liberalismo, all'amore per la pace e la prosperità data dal lavoro (e dalle esportazioni) e ad emanare leggi all'avanguardia quanto a tolleranza, tutela sociale, difesa dei deboli e degli emarginati e dei diversi, lotta al razzismo, filosofia della "non-violenza". Certo è facile "convertirsi" al mondialismo capitalista e alla "cultura della pace" quando l'economia nazionale, dopo una guerra disastrosa, viaggia come una locomotiva trascinando dietro di sé l'intera Europa. Dal secondo dopoguerra i principali pacifisti sono tutti tedeschi (che poi abbiano un passato da militanti hitleriani non è ovviamente rilevante nel trasformistico mondo moderno), e nel paese del Parsifal non è più consentito neppure ascoltare o diffondere un qualsiasi testo musicale che inneggi alla gloria militare o alla possibilità di ottenere l'immortalità eroica nella guerra (chissà che ne avrebbe detto Massimiliano I d'Asburgo, imperatore del Sacro Romano impero germanico, il quale per rafforzare lo spirito appunto germanico di fronte alla cultura latina e rinascimentale, pretendeva essere i tedeschi discendenti dei Troiani di Omero).
Non importa dica cosa pensi di tali pensieri, derivino essi da ariani o da giudei o da qualunque altro tipo umano presente sulla terra: la specie è la stessa, come la stessa è la pretesa tutta umana di inventare una verità che giustifichi ed esalti le proprie azioni o permetta meglio il raggiungimento dell'egoistico interesse.
A livello di individuo, basta non essere troppo ingenui per capire come generalmente chi inneggia aprioristicamente alla non-violenza lo faccia fondamentalmente e prima di tutto per interesse. L'uomo astuto e dialettico che depreca la forza come mezzo di risoluzione delle controversie non mira il più delle volte al trionfo della giustizia, ma al poter impunemente raggirare, ingannare, truffare il prossimo e illuderlo per creare disparità di prestazioni a proprio vantaggio negli scambi. L'avvocato politicamente corretto che condanna l'uso della forza, ed esalta quello della parola, non vuole che i delinquenti siano puniti e gli innocenti liberati, ma al contrario che i primi siano resi liberi dall'eloquenza giuridica ed i secondi imprigionati dalla stortura della legge, perché proprio su tale possibilità di inversione si fonda il suo guadagno. Allo stesso modo il commerciante trafficone condanna le guerre fra stati e le aggressioni fra gli uomini per poter continuare a prosperare nel commercio e a rifilare fregature a chi prima si fida di lui e non può poi reagire perché impedito dalla legge che condanna la violenza personale ma tutela chi riesce ad apparire onesto nascondendosi fra i cavilli delle norme. Similmente la fanciulla avvenente detesta la cosiddetta "brutalità maschile" (intendendo con essa anche il semplice rifiutare i doveri di galanteria o sprezzare i pretesi privilegi femminili, siano essi medievali o moderni) non già per amore dell'equità, della libertà personale, del diritto all'autodeterminazione nelle scelte private e sessuali e del rispetto reciproco, bensì per potersi permettere di tutto (dall'essere apprezzate e disiate al primo sguardo al ricevere trattamenti particolari in ogni ambito pubblico, dal venir considerate "rare e preziose" e dunque ricevere attenzione per quanto possono provare o sentire mentre gli stessi sentimenti e le stesse eventuali ferite emotive sono neglette quando capitano agli altri, al potersi permettere comportamenti di ogni genere, sanzionati o vituperati negli altri, solo per il loro "status", "in quanto donne", dallo sfruttare la legge giuridica e convenzionale per far accettare come vera la propria versione dei fatti e minacciare denunce per capriccio, vendetta o ricatto all'utilizzare senza giustizia alcuna le regole economico-sociali per sbranare economicamente e sentimentalmente gli uomini, nei matrimoni, nelle unioni o anche solo nei dai capricci materiali di doni e regali considerati d'obbligo per avere contatti con loro alle varie molestie erotico-sentimentali spesso elargite con noncuranza o addirittura perfidia, e divenute modus vivendi, ad onta dei disagi emotivi, delle umiliazioni private o pubbliche, delle irrisioni intime nel desiderio, e di tutte le altre sofferenze trasmutate da sessuali ad esistenziali causate a chi, volente o nolente ne è oggetto senza possibilità di replica o di difesa) senza dover temere le reazioni senza dare in cambio nulla, né giustificazione, né ringraziamenti, se non alterigia e disprezzo.
Le donne-femministe, poi, la vetta di tale assurda e mentecatta visione "non violenta", incitano gli stati ad abolire guerre, militarismi e prostituzione ed a creare le amabili leggi speciali contro la violenza sulle donne (ove la definizione di violenza e molestia è talmente ampia ed arbritraria da poter comprendere qualsiasi atto, detto, sguardo o pensiero esprimente interessamento sessuale di un uomo nei confronti di una femmina più o meno avvenente, anche se nulla vi è né di violento né di molesto) non già per abolire lo sfruttamento (ove tale termine viene usato anche al contrario del suo significato, ossia ove, come nel caso del meretricio, è la donna a sfruttare il natural disio dell'uomo per il proprio personale interesse) o per "difendere le donne" dai "grandi numeri della violenza di ogni genere" (quando la definizione di violenza o molestia è lasciata all'esclusivo arbitrio della persona che ritiene di averla subita, e non vi è alcun obbligo di provare le proprie affermazioni o anche solo di fornire riscontri oggettivi sui fatti comunque interpretati, e quando la prospettiva sugli stessi è soggettiva ed unilaterale, mentre l'altra campana è tenuta a tacere
i numeri che appaiono possono essere tutti gli interi da 0 a + infinito), o per rispetto del libero esprimersi delle differenti visioni del mondo e del pacifico accordo (che è anzi negato nel negare la prostituzione), bensì
per instaurare una loro tirannia (vogliono terrorizzare l'uomo prospettandogli un'esistenza da trascorrere nella sempiterna frustrazione del suo NATURALE bisogno di bellezza e di piacere, giacché l'inappagamento finirebbe per renderlo esistenzialmetne infelice e per permettere alle poche donne belle di sfruttarlo per illuderlo, deriderlo, sbeffeggiarlo, renderlo ridicolo davanti a se stesso o agli altri, deriderlo nel profondo del desiderio, umiliarlo intimamente o pubblicamente, sbranarlo economicamente e sentimentalmente o opprimerlo, e alle tante brutte di tiranneggiarlo comunque, una volta svanita per disparità di numeri e desiderio e proibizione legale della prostituzione la possiblità di raggiungere le altre), per poter impunemente tiranneggiare, irridere, dileggiare o umiliare (in privato e in pubblico) o addirittura opprimere l'uomo sfruttando il suo desiderio di natura o le sue debolezze sentimentali, o ancora i sensi di colpa suscitati ad arte come i desideri, ossia, ancora una volta, esattamente come i più vili degli uomini, per togliere agli altri le armi loro e mantenere le proprie.
Si potrebbe continuare quasi all'infinito con gli esempi, e se qualcuno fra i "non-violenti" (a parole) è davvero sinceramente rispettoso della libertà altrui e dell'altrui dignità egli è circondato da una massa che non ha nulla, in malvagità, meno del più feroce branco di fameliche belve. Il loro voler realizzare le conseguenze più vili e meschine del loro egoismo in modo programmaticamente non violento non implica meno malvagità, semmai più perfidia.
La persona violenta almeno è costretta alla lealtà, in quanto espone se stessa ai pericoli dello scontro che ha provocato e mostra il proprio odio (o la propria volontà di affermazione) in maniera chiara ed esplicita, sì che tutti la possono notare e giudicare. La persona non violenta può invece perseguire i più bassi intenti del proprio egoismo in maniera sotteranea, indiretta e spesso senza rischiare nulla, ma magari ottenendo pure il consenso dei benpensanti, pronti a confondere il mezzo con il fine, l'apparenza con la sostanza, l'accidentale con il necessario.
Purtroppo solo chi ama la nuda e solitaria filosofia, così quale l'ha dipinta il verso del Petrarca, capisce come non sia illecita la violenza, ma la volontà di prevaricazione che sovente la muove come muove tanti altri mezzi.
Tanto è vero quanto dico sull'assurdità del legame biunivoco fra violenza e ingiustizia che lo stato stesso (sia esso democratico, liberale o socialista) predilige l'uso diretto della violenza per far rispettare le proprie leggi. Quando una sentenza deve essere eseguita o un possibile criminale fermato o un colpevole imprigionato, non si manda da chi ha infranto (o ha intenzione di infrangere) la legge un oratore per convincerlo della giustizia delle norme e dell'erroneità del suo comportamento, non si manda un truffatore da bisca ad attirarlo con l'inganno dentro la prigione, non si manda una cortigiana a sedurlo per farlo venire in tribunale o in galera, ma gli si mandano due bei carabinieri alti e solidi per prenderlo di peso e trasportarlo di forza alla sua destinazione. Lo stato fa questo atto di violenza (che chiama coercizione) senza che nessuno se ne lamenti proprio perché considera "giusto" il fine, ossia la tutela dell'ordine pubblico, delle libertà dei cittadini, della legalità e dei diritti tanto dei singoli quanto del popolo nel suo complesso. E' puramente pratico il motivo per cui si insegna ai singoli a non fare altrettanto (l'autorità statale se ne andrebbe lasciando il posto all'anarchia o alla legge del più forte), non ha nulla a che vedere con il fatto che la violenza sia "sbagliata" di per sé. Resta infatti la verità che, come mostrato, vi può essere violenza senza ingiustiza ed ingiustizia senza violenza (ho fatto anche troppi e troppo chiari esempi: molti e soprattutto molte si sentiranno colpiti/e e reagiranno con veementi proteste, le quali avranno l'unico effetto di confermare la giustezza delle mie affermazioni e delle mie analisi).
Con questo panegirico non voglio inneggiare al bellum omnes contra omnes o alla legge della giungla, ma, al contrario, rilevare come molto della giungla sia rimasto nel profondo del pensare, dell'agire e dell'intendere di coloro che si credono evoluti solo perché all'apparenza sono "pacifici".
La volontà naturale che agisce in noi e ci fa bramare ogni cosa senza mai darcene soddisfazione è una causa. La società organizzata in modo tale che molti non possano appagare i propri bisogni naturali, siano essi sensitivi o intellettivi, carnali o sublimati, è un'altra. Probabilmente non possiamo risolvere il primo problema raggiungendo il Nirvana coma auspicato da Schopenhauer e non possiamo risolvere il secondo credendo nelle utopie rivoluzionarie. Noi che, grazie alle escort, appaghiamo il nostro naturale disio di bellezza e di piacere senza permettere che la stronzaggine umana possa introdurre la frustrazione, l'affanno, la tirannia o il turbamento nella vita serena ed autarchica del saggio, possiamo però, mentre tentiamo di raggiungere un equilibrio esistenziale fondato sulla serenità e l'autarchia, su quel vivere sopportabile dato alla tranquillità, allo studio, all'amore della conoscenza disinteressata, alla contemplazione del bello, alla speculazione astratta, o alla sublimazione poetica ed all'estasi artistica, evitare di accettare per verità la menzogna e (come non ci lasciamo condurre dalle donne amate o desiderate) di lasciarci condurre da sedicenti "uomini buoni e pacifici" (o da sedicenti donne pacifiste).
Non è certo eliminando la violenza o, ancora più superficialmente, le armi, che si può ottenere un mondo più giusto, equo e tollerante. E' sulle cause profonde che bisogna agire, non sugli effetti e sui mezzi utilizzati.
SALUTI DALLA SUBLIME PORTA