Risposta
in 6 capitoli all’articolo firmato da Giorgio Terruzzi (e scritto da Laura
Boldrini?) sul numero di Autosprint del 06/02/2018 a proposito della decisione
di Liberty Media di cancellare la presenza delle “ombrelline” dalla griglia di
partenza dei Gran Premi di Formula 1, in nome del politicamente corretto
femminil-femminista e della caccia alle streghe post-“caso Weinstein”.
DEDICA:
A Giorgio Terruzzi:
E Laura Boldrini:
"Così moiano capovolti coloro che capovolgono la verità" (Il Vescovo Spadone in "Brancaleone alle Crociate")
0. INTRODUZIONE
Un
giornalista sportivo dovrebbe, intelligentemente, limitarsi a dissertare dello
sport di cui è appassionato ed esperto, evitando di intraprendere discussioni
su storia, filosofia, politica e costume, perché, in primis, fa perdere tempo
al lettore su argomenti diversi da quelli per cui è stato acquistato il
giornale, in secundis rischia di indispettirlo propinandogli, sotto l’aurea
etichetta “informazione”, una certa visione del mondo a cui ogni libero pensatore
ha tutto il diritto di non aderire ed infine rischia, proprio su quest’ultimo
aspetto, di essere platealmente confutato dai lettori, i quali non sono tutti
superficiali scolaretti cui si può insegnare come “verità” (e pure col tono
della ramanzina) una narrazione del tutto arbitraria pur se, ahimè, oggi
universalmente diffusa presso i media mainstream (leggasi: controllati da certi
ambienti vicini alla finanza da sempre senza patria ma oggi con sede in USA).
1. LA PEGGIOR MITOLOGIA PROGRESSISTA FA BRECCIA
IN QUELLO CHE FU UN GIORNALE DA CORSA
La
mitologia del “progresso storico” (che non va affatto confuso, come si tende a
fare da due secoli, con il fatto del progresso scientifico, sviluppatosi,
semmai, “nonostante”, e non “grazie a”, il primo), quale è riuscito a
sopravvivere alle smentite tanto della grande storia (abbiamo visto tutti dove
hanno condotto le utopie del “sol dell’avvenire”) quanto della piccola
attualità quotidiana (ove tutto si può dire delle donne tranne che siano le “creature
svantaggiate ed oppresse” quale emergerebbe dalla grande menzogna femminista di
cui la presidente della Camera è solo l’ultima strillante, piagnucolosa,
“coccodrillesca” epigona), si fonda sull’assunto hegeliano secondo il quale
tempo della storia sarebbe una linea retta sulla quale le varie “figure dello
spirito” sarebbero fatalmente destinata a muoversi “a senso unico”, secondo un
“inevitabile” sviluppo “fenomenologico”, verso un altrettanto inevitabile “fine
ultimo”.
Nella
visione del mondo che sento come mia (in parte ispirata dal principale
“allievo” di Schopenhauer: Friedrich Nietzsche), invece, il tempo della storia
è sferico, e in ogni momento l’uomo può decidere se proseguire tornando sempre
sullo stesso punto o virare cambiando direzione ed esplorando nuovi spazi. E la
“decisione” (spesso nemmanco consapevole) non è determinata da nulla di
“teleologico” (per chi sa cosa significhi: finalistico, stabilito dalla
pre-scienza divina), ma è puramente casuale (come casuale, ah Epicuro, è il
mondo) e dipende, di volta in volta, dal risultato dello scontrarsi o del
congiungersi di diverse forze puramente umane e puramente storiche.
Ne
consegue che per me non c’è nessuno “sviluppo storico”, nessuna sedicente
“evoluzione umana” da seguire “necessariamente”. Specie se si tratta di
convincermi a cancellare, dannare e condannare la parte più intima e vera di me
(che, Nietzsche docet, è sempre sicuro e ben radicato istinto, mai
“superficiale” e “fallace” “ragione”).
Quando
parla di “evoluzione autentica”, Giorgio Teruzzi dimentica la grande lezione
nietzscheana secondo la quale l’autenticità non può risedere nella cosiddetta
“Ragione”, intesa come i(la quale, per il semplice fatto di prendere uno
sviluppo lineare e logico in qualcosa di intimamente circolare, anzi labirintico,
e necessariamente ricco di contraddizioni, come il pensiero e l’animo umani, ha
sempre un fondo di mistificazione e tradimento, ben sintetizzato nel motto
“ogni parola scritta è una menzogna”), né, più in generale, in costruzioni
culturali, ideali o ideologiche (le quali, tanto più pretendono di dare ordine
al mondo e senso alla vita, tanto più mistificano l’uno e tradiscono l’ altra),
bensì in sani, profondi ed infallibili istinti.
Anche
il termine stesso di “evoluzione”, se vuole avere un significato non
mistificatorio, deve ricondursi agli “antichi” istinti (i quali dalla nascita
della vita permettono a questa, specie per specie, di mantenersi, diffondersi,
selezionarsi, perpetuarsi ed accrescersi), piuttosto che alle “moderne” facoltà
umane (sedicenti “superiori”, ma in realtà, proprio perché più recenti nella
scala temporale dell’evoluzione, ancora fallibilissime).
Sebbene
certe “teorie gender” (esse sì, antiscientifiche, in quanto negatrici della
dimostrabilissima distinzione biologica fra i sessi) vogliano far credere il
contrario, il naturale desiderio dell’uomo per il corpo della donna è natura,
non cultura. Anzi, è una delle poche variabili umane a non poter mutare per
contratto sociale, uno dei pochi esempi di “valore umano universale” (ovvero accumunante
i popoli più diversi alle più diverse latitudini). E’ quanto di più profondo e
vero (o vogliamo dire “autentico”?) esista al mondo. Proprio il sorgere del
pensiero “con una così chissà cosa farei”, di cui Teruzzi “ci” (o “si”?) accusa
come di una deviazione o di una colpa, ha tutta naturalità di un fiore che
sboccia pei campi, di una cascata che irrompe alla calura, dell’avvento della
primavera o (se vogliamo citare Oscar Wilde per non essere tacciati di
omofobia) del “riflesso sull’onda lucente del mare notturno di quella
conchiglia d’argento che chiamiamo luna”.
Per questo pretendere da tutti noi di “non sentirsi autorizzati, alla vista di
una bella donna, a pensare che, con una così, chissà cosa farei” significa
voler far sentire in colpa l’uomo non per quello poi che fa o che dice, ma per
quello che prima (mosso dal più profondo ed autentico dei propri desideri),
pensa e sogna, ovvero per quello che è. Poiché nessun uomo potrà evitare, prima
di tutto e a prescindere da tutto, di desiderare una creatura come la “grid
girl”, appena il suo sorriso, rosso di promesse e di misteri, la sua figura,
alta e statuaria come la perfezione di una divinità, le sue chiome al vento e
tutte quelle grazie che, come direbbe Dante, “è bello tacere”, si fanno sensibili
agli occhi, e poiché sempre, nel suo pensiero, parlerà per primo il desiderio
(se tale primato non fosse “natura”, nessun maschio di nessuna specie si
muoverebbe per primo, con tutti i disagi, le fatiche e i rischi, a volte
mortali, conseguenti) e con esso la fantasia (senza la quale l’umanità non
conoscerebbe la Poesia), la “mancata autorizzazione” a pensare “cosa farei” ha
il solo scopo di farlo sentire in colpa per quello che è intimamente (e non
potrà mai cessare di essere finché non accetterà di mentire a se stesso, di
farsi altro da sé, di essere “inautentico”) e la sola conseguenza di rendergli
alla lunga insopportabili o se stesso (con ovvie conseguenze autodistruttive su
vita, psiche e autostima) o le stesse donne (rispetto alle quali sarà separato
da una muraglia di ipocrisie, di sensi di colpa, di inibizioni, di
comprensibili rancori nei confronti di coloro che lo vogliono dannare, punire o
comunque disprezzare solo perché, nel modo più immediato, intenso e sincero, le
sta apprezzando e proprio perché le sta apprezzando, senza avere ancora modo di
farsi parimenti apprezzare, altro che “emancipazione condivisa”!).
Che
la prima conseguenza, a parole, sia una battuta volgare piuttosto che un
sonetto petrarchesco, e che eventuali successive conseguenze, nei fatti,
portino a tentare un abuso piuttosto che ad offrire gentilmente qualcosa che la
controparte ha la libertà di accettare o rifiutare, con cui si calcola di
“bilanciare” la bellezza (tramite, magari, ciò verso cui quella donna è mossa da
bisogno, desiderio, apprezzamento e brama pari a quanto da noi provato per le
sue grazie) è cosa, questa sì, dipendente dalla cultura, dal gusto,
dall’intelligenza e dal “progresso mentale” dei singoli uomini. Non è decisa in
partenza dal dannato e condannato “pensare con quella lì cosa farei”.
Supporre
a priori che capiti sempre la prima delle alternative elencate è, questo sì, un
pregiudizio di genere (antimaschile). Ed utilizzarlo per convincerci a
reprimere persino nel pensiero e nella fantasia il nostro desiderio naturale,
come vuole fare il femminismo mainstream è, prima ancora che impossibile,
totalmente inaccettabile e sbagliato. Difatti:
1.
L’immediatezza e l’intensità con cui il
desiderio dei sensi sorge in noi non appena le grazie ch’è bello tacere si
fanno sensibili danno ad esso l’insopprimibilità di un bisogno, e come tale,
non può essere cancellato da “mancata autorizzazione” né tantomeno da giudizi
morali negativi;
2.
Se anche si volessero utilizzare giudizi morali,
non essendo una nostra scelta quella di essere soggetti a mirare, disiare,
seguire e cercare di ottenere la bellezza nella vastità multiforme delle
creature femminine non appena queste mostrano le loro grazie, non può nemmeno
essere ascritta come nostra colpa (noi ne subiamo, semmai le conseguenze, e,
come proverò di descrivere qualche capitolo più avanti, cerchiamo di
bilanciarle al meglio delle nostre umane, troppo umane, possibilità);
3.
Tale bisogno di bellezza, tale disio dei sensi,
non riduce, di per sé, la figura della donna ad oggetto (come correttamente
rilevato dalla “grid girl” Veronica qualche pagina dopo su Autosprint, laddove
una ragazza manifesta un consenso, non si può parlare di “mercificazione”,
perché solo un soggetto, e giammai una merce, può esprimere consenso), ma, semmai,
la eleva a fine dell’agire dell’uomo (essere oggetti di desiderio pone le donne
sul piedistallo della bellezza, da cui, peraltro, come avrò modo di evidenziare
in seguito, dimostrano di aver ben poca voglia di scendere);
4.
La questione della “donna-oggetto” è
un’impostura anche solo da un punto di vista puramente grammaticale, poiché
qualunque azione implica un soggetto ed un complemento oggetto. Se vogliono
interagire fra loro, uomini e donne devono accettare di alternarsi fra l’essere
soggetti e oggetti gli uni delle altre: non mi pare che, l’alternanza
sfavorisca la donna. L’essere oggetto di desiderio al primo contatto visivo è
proprio quanto permette (anticipo qui: troppo spesso e troppo unilateralmente)
alla donna di essere soggetto della scelta, nelle successive eventuali fasi del
rapporto. Mi pare quindi che certe donne (belle) si stiano lamentando di un
privilegio, mentre altre (men belle) stiano utilizzando il giudizio morale come
espressione di invidia e rancore, o - il sospetto è sempre più forte - come
ultima arma disperata per costringerci (con la condanna morale e – tutte le
volte in cui è possibile - anche penale, del nostro desiderio di bellezza) a
corteggiarle controvoglia, a dare cioè ad esse tutto quanto, di materiale o
sentimentale, vorremmo invece riservare alle “giovin donne e belle” (che ci
attraggono naturalmente e che esse vorrebbero far sparire dal nostro raggio
visivo e d’azione);
5.
Quasi tutto quello che di bello e di sublime
esiste al mondo, tutti quei sogni soavi, quelle incantate parvenze che,
condensate in immagini e suoni attraverso la parola e il verso, il mondo chiama
poesia, è sorto dalla fantasia di uomini fecondati da quel “pensiero” che,
secondo Teruzzi, “non può essere pensato”, anzi, sono proprio la sublimazione
artistica del “con una così che cosa farei”. Ad altro non pensò Guinicelli,
quando, effondendo le rime del “Dolce Stilnovo ch'i'odo” incipiò l'autentica
poesia italica, ad altro non sospirò Petrarca, quando creò con suoni e i ritmi
l'atmosfera pura e rarefatta dei suoi immortali sonetti, forgiando lo stile
perfetto senza uguali nel mondo, ad altro non mirava Boccaccio, quando,
narrando le storie che restituirono l'Italia alla religione delle Lettere e
della Bellezza, riportò nella nascente prosa italiana quello stile ampio ed
armonioso proprio del grande eloquio Latino e degno del nome di
Concinnitas. Ne fossero coscienti o
meno, ne fossero socialmente o intellettualmente liberi o meno, anche quando
hanno parlato di altro, anche quando hanno creduto di vedere nella donna solo
un’immagine simbolica di idee eteree e divine, hanno in realtà parlato di lei,
hanno scritto ciò che il desiderio per lei, magari nascosto, magari inibito da
ideologie e religioni, ha ispirato (per dirla ancora con Nietzsche: “in un uomo
d’intelletto, il grado e la specie della sua sessualità si elevano fino ai
vertici del suo spirito”).
E’
no, caro Terruzzi, no che non sono disposto a “rinunciarmi a sentire
autorizzato, alla vista di una bella donna, a pensare chissà con una così cosa
farei”. Non sono disposto né a rinunciare al mio desiderio ed alla sua
espressione più schietta, né ad accettare che esso, con le fantasie ed i
pensieri conseguenti, sia una colpa! Non ne condivido i motivi, non posso
accettarne le conseguenze, non vedo alcun diritto altrui ad impormelo.
“Cosa
faremmo?”, “Con una così chissà cosa faremmo”? Intendi forse: “allungare le
mani”, “abusare”, “trattare come un essere subordinato”? Perché non comporre un immortale inno,
compiere un’impresa cavalleresca, offrire doni, ori e bella vita per avere una
speranza di essere a nostra volta apprezzati?
Anche
l’associazione maschile=maschilista denota il totalitarismo femminil-femminista
interiorizzato da “gente moderna” come Teruzzi. Un tempo si distinguevano i due
aggettivi. Maschile era (e, tanto legittimamente quando orgogliosamente, deve
continuare ad essere) l’amare e disiare la bella donna al primo sguardo (a
prescindere ad altre eventuali virtù che pure vi possono essere ma, per essere
apprezzate, necessitano di tempi, modi e conoscenze approfondite), come si fa
con una poesia, la cui immediata fulgente bellezza si fa sensibile (agli occhi
dell’anima prima che a quelli della mente, alle corde dell’inconscio prima che
al vaglio della ragione) al primo risuonare delle parole, anche senza
parafrasi, analisi del testo, contestualizzazioni.
Maschilista
è sempre stato (e sempre deve rimanere) soltanto l’atteggiamento di chi
considera la donna un essere inferiore, di chi vorrebbe tenerla sottomessa, di
chi ritiene proprio diritto addirittura allungare le mani, o di chi comunque
pensa che basti raccontare due cretinate, fare due battute di dubbia ironia e
certa volgarità, per costringere qualunque donna a concedersi.
Un
gentiluomo, proprio perché non la considera inferiore, non la desidera
sottomessa, non la ritiene stupida, e non prende nemmeno in considerazione
l’idea di usarle violenza, sa di dover offrire alla donna di cui sta disiando
la bellezza qualcosa di altrettanto intersoggettivamente valido ed
immediatamente apprezzabile, sa di dover fare qualcosa per non trovarsi per
tutta la vita a “fare all’amore col telescopio”.
Ben
sapendo di essere, nel migliore dei casi, come la prosa del Boccaccio, ampia ed
armoniosa, e quindi necessitante di tempo e spazio per esplicarsi, e di non
risultare agli occhi dell’amata come un verso nemmeno se fosse bello come un
“grid boy”, sa di dover offrire un valido motivo per far desiderare ed
accettare alla donna un incontro solus ad solam in cui avere almeno l’occasione
di rendere sensibili quelle doti di sentimento e intelletto, di apprezzamento
soggettivo ed arbitrario, che non possono essere visibili al primo sguardo, ma
si esprimono soltanto nei dialoghi non banali, nella condivisione di
suggestioni letterarie o filosofiche, nel flusso bidirezionale di “colloqui,
sogni e taciti pensieri”, attraverso la scelta dei vocaboli, la modulazione
della voce, il tempo dato al corteggiamento, che non possono rendersi sensibili
nei fugaci incontri della vita moderna, ma senza le quali non si potrà mai
sperare di essere scelti o accettati in qualunque tipo di rapporto intimo.
Gli
idealisti continuano a pensare che il “valido motivo” per suscitare un primo
interesse nella donna possa ancora essere il “cor gentil” cui “rempaira sempre
amore”, e sperano sempre di potersi procurare occasioni di incontro accostando
alla bellezza corporale e mortale della donna quella non corporale e non
mortale della poesia eternatrice con cui, secondo il mito rivelato dal Foscolo
nell’Ode all’Amica Risanata, Diana, Bellona e Venere da donne mortali sarebbero
divenute dee pel canto dei poeti e con cui in generale, le fanciulle disiate
come quella raffigurata sull’Urna Greca della lirica di Keats, da fanciulle
terrene soggette alla corruzione del tempo e della morte, potrebbero restare,
al pari delle stelle e delle nature siderali, eternamente uguali a sé,
eternamente belle (“she cannot fade, though thou hast not thy bliss,/ for ever
wilt thou love, and she be fair!”).
I
pragmatici ritengono al contrario che un motivo valido in questo “superbo e
sciocco” universo consumista e turbocapitalista, cui i concetti di sacro e di
eterno sono totalmente estranei, e in cui anche arte e letteratura sono puro
commercio, non possa escludere l’offerta o perlomeno la tacita promessa (tramite
magari l’ostentazione “social”) di regali costosi, viaggi da sogno, tenore di
vita superiore a quello attuale della ragazza, quando non (con tutti i casi
intermedi), denaro o altre utilità economiche, promesse di carriera o comunque
possibilità di entrare (magare anche solo nei weekend) in un mondo “esclusivo”
e “cool”.
Nessuno
dei due casi è maschilismo. Sempre che non si voglia includere tale parola
qualunque dissenso dalla narrazione femminista attuale.
Vedo,
infatti, che queste distinzioni sono divenute desuete. Il desiderio
propriamente maschile è tacciato di per sé di maschilismo. Di conseguenza si
considerano già a priori le fantasia ed i pensieri del desiderio come
“molestie” e i tentativi non velleitari della ragione di realizzare il
desiderio stesso come “violenza”. Allora non ci si può più sorprendere di alcun
“grande numero” sulle “violenze” o le “molestie”. Con tali onnicomprensive
definizioni, possono essere trovati tutti gli interi da zero ad infinito. Ed
ogni uomo è accusabile in quanto tale.
Con
il condannare il pensiero, con il pretendere che anche un pensiero possa essere
illecito, con il sottoporre il pensiero stesso ad una necessità di
autorizzazione, tu stai confermando il mio giudizio sul femminismo attuale che
degenera in totalitarismo, sulla “tutela della donna” (volutamente minuscola
qui) che scivola nella corsa allo “psicoreato”.
2. LA STORIA NON E’ UN TRACCIATO E IL SUO
TEMPO NON E’ LINEARE
A
Carlo Vanzini, che, per rendere meno amara la “medicina” del divieto di “grid
girls” prescritta dall’articolo di Terruzzi, inizia l’articolo successivo con
la scontata immagine del “pilota che deve guardare solo in avanti”, si può ben
rispondere che la storia non è una pista. Una pista presuppone un progettista
che l’abbia voluta tale e quale è e dei costruttori che l’abbiano realizzata. A
meno di non voler supporre progetti ed interventi divini nella storia, quindi,
questa dovrebbe essere paragonata non già ad un tracciato, bensì ad uno spazio
aperto e condiviso, ad una piazza, insomma, dove auto, pedoni e ciclisti sono
liberi di circolare in ogni direzione. E se chi guida l’auto prende una
direzione che minaccia di investire una persona a me cara, io ho tutto il
diritto (e tutto il dovere), se non di fargli fare retromarcia (il termine
“indietro” piace poco ai moderni), almeno di farlo sterzare! Poichè la “cara
persona” di cui parlo altri non è (come ho tentato di spiegare al capitolo
precedente) se non l’uomo in quanto maschio mammifero senziente, in quanto
espressione vivente della volontà che la vita ha di propagarsi tramite il
desiderio subitaneo (opposto-complementare dell’impulso di selezione della vita
incarnato dall’attitudine femminile ad apparire belle e disiabili per scegliere
fra tutti chi eccelle nelle doti volute perché qualificanti la specie), in
quanto ragazzo mosso da una grande in quanto adolescente non ancora totalmente
corrotto dalla “ri-educazione” femminista, in quanto fanciullo ancora capace di
chiamare le cose con il loro nome e di essere mosso da ingenuo trasporto verso la
bellezza (non mediato dalle ideologie, non travisato dal “dover essere”), in
quanto poeta della grande passione (sia essa quella per le belle fanciulle, sia
essa quella per le auto da corsa) che non conosce censure, non accetta divieti
e non si vincola ad obblighi di giustificazioni razionali o utilitaristiche, in
quanto, insomma “appassionato”, ovvero siamo tutti noi, non posso certo far
finta di niente e guardare avanti consolandomi al pensiero di come sarà
divertente ed interessante la prossima stagione.
E’
vero che al centro del dibattito dovrebbero esservi i test invernali e le
ambizioni dei piloti, ma se davvero “ci sono cose più importanti di cui
occuparsi”, perché questo non è valso per Liberty Media? Perché hanno deciso di
agire così? E, soprattutto, perché dovremmo stare tutti zitti? Perché dovremmo
prendere per vera la “narrazione” femminista propinataci a tradimento (fino a
ieri, erano gli articoli ben più dotti e argomentati che richiamavano al legame
incancellabile fra Eros e Thanatos a tenere banco sulle pagine di Autosprint
difendendo la presenza delle “grid girls”) da Giorgio Terruzzi? Condita fra
l’altro di menzogne (sempre di origine femminista) che mi permetterò nei
capitoli successivi di smascherare una ad una!
Anche
l’abusata frase “il futuro è davanti a noi”, non argomenta alcunché. Se il
tempo della storia è sferico, il passato, lungi dall’essere qualcosa “da
consegnare agli archivi”, può invece, come insegna chiunque studi il mito,
fungere da meta e modello per il futuro. Senza scomodare gli studi di Dumezil
sui miti degli Indoeuropei (immagini di quello che eravamo in funzione di
quello che vogliamo diventare), e rimanendo alla Formula 1, non è forse vero
che tutti noi abbiamo come archetipo di “corsa” il GP di Francia del 1979 del duello
a suon di ruotate e tagli di tracciato (altro che le decisioni di Pirro e
compagnia!) fra Arnoux e Villeneuve e come archetipo di “qualifica” le gomme
larghe, gli alettoni grandi come tavole da pranzo e i 1000 cavalli dei turbo
anni 80 che si sfidavano per pochissimi, effimeri (e per questo poetici come
poetica è ogni “conquista dell’inutile”) giri della morte? Nessuno di noi vuole
“ripetere esattamente” le stesse gare e le stesse qualifiche. Altrimenti
basterebbe riguardarsi le registrazioni. Tutti o quasi, però, vorremmo
qualifiche e gare nuove, moderne, ma con lo stesso genere di agonismo
“vintage”. Non è forse vero che, come qualità archetipiche del pilota, molto
più della “professionalità” estremizzata e razionale di un Jackie Stewart e
della capacità “calcolatrice” di un Alain Prost, riconosciamo piuttosto la
“follia aviatoria” mai doma di Villeneuve, il sorriso bellissimo e malinconico
di Francois Cevert poche ore prima di morire a Mosport (“un uomo deve saper
scegliere fra sicurezza di annoiarsi ed il rischio di divertirsi”),
l’ossessione per la perfezione spinta a volte all’irrazionalità (vedi
Montecarlo 1988, dove dare un giro a Prost non sarebbe servito) di Ayrton
Senna? Questo non significa che vogliamo tutti corse pericolose esattamente
come quelle di trenta e passa anni fa, ma solo che le moderne corse sicure
riprendano da quelle la “irragionevolezza” agonistica, la tendenza a “osare
l’inosabile”, a “inventarsi l’impensabile”, la disposizione ad “amare ogni
pericolo” e a “credere ad ogni tentativo assurdo di sorpasso”, le quali sole
possono rendere un gran premio qualcosa di non simulabile a priori dai box o al
calcolatore in fabbrica.
Tutto
questo per dire che condannare una certa deriva “noiosa”, “standardizzata,
“sterilizzata”, “politicamente corretta” delle gare (come, del resto, della
vita), giustificata con sintagmi stereotipati quali “stare al passo coi tempi”
non significa “passatismo” e “immobilismo”. Significa solo volere un’evoluzione
storica diversa prendendo gli esempi giusti e non quelli sbagliati (considerati
“inevitabili” solo perché più recenti).
Che
l’uomo di oggi sia il “più progredito di sempre”, migliore, ad esempio,
dell’uomo del Rinascimento, è una tipica “idea moderna”, vale a dire un’idea
falsa (provare a paragonare le canzonette di Sanremo e le feste in discoteca di
oggi con le “Stanze per la giostra” alla corte medicea per credere all’istante,
se non basta il raggelante contrasto fra lo stereotipato – quello sì -
linguaggio, privo di aggettivi espressivi e ricco di emoticons, utilizzato dai
“millennials”, con la capacità di generare immagine e suoni dalle parole
propria di quei “ragazzi del Cinquecento” che per diletto imitavano Petrarca).
Il
fatto (ovviamente positivo, ben lungi da me parole come “neo-luddismo”,
“conservatorismo“, “de-crescita”) che l’uomo di oggi possa vantare mirabilie
tecnologiche ormai quasi da fantascienza (merito degli ingegneri moderni, non
dei moderni professori di lettere, filosofia, sociologia o scienze politiche, e
magari quegli ingegneri, come nel caso del sottoscritto, hanno preferito la
scienza alle lettere proprio per non doversi sorbire le continue menate
“progressiste” dei suddetti accademici al servizio del “senso storico”) non
cancella la piccolezza degli “ignoranti specializzati” prodotti dal sistema
made-in-usa di oggi rispetto al genio multidisciplinare di un Leonardo, né
compensa la grettezza del neo-moralismo femminista di cui stiamo parlando
rispetto alla libera morale di un Rinascimento in cui convivevano senza
contraddizione cortigiane e regine, poeti sensibili alla follia come il Tasso e
condottieri spietatamente grandiosi come Cesare Borgia, Cristianesimo e
Paganesimo, dotti profondissimi e poetesse sublimi come Gaspara Stampa.
Insomma,
se l’uomo rinascimentale era una Ferrari 250 GTO, una Ford GT40, una Porsche
917, noi non siamo certo la Ferrari Enzo, la Ford GT ultima versione, e neppure
una “semplice” Porsche 991 GT3 RS. Non siamo, cioè, l’evoluzione moderna di ciò
che un tempo fu rombante e glorioso. Siamo, invece, la rinuncia dell’uomo
moderno alla grandezza ed alla “passione”. Siamo, piuttosto, delle piccole
utilitarie coreane, degli ibridi in tutti i sensi delle costose ma svalutabili
SUV che come grandezza conoscono solo l’aumento degli ingombri, degli
elettrodomestici su quattro ruote il cui unico fine è andare da A a B senza
disconnettersi dai social, delle silenziose e pesanti berline che per
“accendere la passione” hanno bisogno di un impianto stereo che simuli
doppiette e borbottii allo scarico: falsi come una birra analcolica!
Non
c’è mai stato “uno schieramento per il progresso” ed uno “per la reazione”, un
tipo umano moderno contrapposto ad un tipo arcaico, come racconta la favola
progressista. Ci sono invece sempre stati nella storia schieramenti in lotta
fra loro, tipi umani diversi e inconciliabili che generavano storia proprio
scontrandosi. E chi emergeva appariva tautologicamente “più moderno” e “più
progredito”. Dopo la prima guerra mondiale, gli stati nazionali parevano agli
occhi dei “progressisti” più “moderni” degli imperi sovranazionali sconfitti,
che però, con il senno di poi, oggi sarebbero (per la capacità di unire grandi
spazi, di far convivere diversi popoli, di preservare differenti identità senza
appiattirle) assai più “adeguati ai tempi” in un periodo in cui ogni nazione è
necessariamente “troppo piccola” per le “sfide della globalizzazione”.
Anche
per quanto riguarda il tipo umano, non vi è nessun modello assoluto cui tendere
(espressioni come “uomini e donne progrediti” mi fanno sorridere): il termina
“progredito” è solo una temporanea lode per chi momentaneamente sembra
prevalere, a prescindere dall’effettiva raffinatezza dei propri “valori”
(d’altronde, quali valori potrebbe raccontare di avere l’attuale tipo umano
dominante, quello mercantile, anzi, speculatore, i cui unici criteri sono
l’utile e il tempo e per cui, ad esempio, in concetto di eternità non ha alcun
significato?). Anzi, se è vero, come ci ricordava Eraclito, che Polemos è padre
di tutte le cose, essere vivi significa proprio combattere per affermare quel
tipo umano di cui ci si sente rappresentanti, non accettare passivamente i
valori di tipologie umane inconciliabili con la nostra solo perché,
attualmente, hanno potere economico e culturale e quindi risonanza mediatica.
Se essere evoluto significa accettare la tirannia del femminismo e rinnegare la
mia natura, se essere moderno significa non poter appagare (anzi, non poter
neppure esprimere) il naturale bisogno di bellezza femminea (non poter avere le
grid-girls da guardare prima di un gran premio, non potersi rivolgere alla
sacerdotesse di Venere prostituta per evitare la prostituzione psichica del
corteggiamento, eccetera) e dover sottoporre ogni atto e pensiero della vita
(anzi, oggi pure ogni motto di spirito) a un giudizio politicamente corretto in
senso femminil-femminista, allora preferisco non evolvere. Essere uomini
significa a questo punto combattere perché sia cancellata dalla terra
l’associazione fra evoluzione e femminismo.
Nella
fattispecie delle grid-girls, io vedo semplicemente una lobby femminista, la
Women’s Sport Trust, che viene ascoltata da una lobby dello show-business,
Liberty Media, per compiacere un’altra lobby (quella di Hollywood) nel momento
del cosiddetto “caso Weinstein”, ovvero il “casus belli” utilizzato dalla
propaganda femminista mainstream per dare la caccia alle streghe ad ogni uomo
in quanto tale (in quanto “soggetto disiante” e “costretto a conquistare”, come
spiegherò meglio in seguito). Sul perché le lobbies finanziarie citate fin
dall’inizio abbiano interesse a propagandare tale visione del mondo non ho
ovviamente risposte precise (forse, semplicemente, per avere un mondo in cui
–altro che sindacati – si possa licenziare chiunque in qualunque momento con
un’accusa montata ad arte di molestie? Forse per distruggere, con la teoria del
gender, ogni identità naturale, in questo caso sessuale, degli individui,
regnando poi su una massa amorfa di individui senza più neanche l’istinto e con
bisogni solo consumistici? Forse per rendere impossibili i rapporti uomo-donna,
a iniziare dal primo corteggiamento, e ridurre così definitivamente - altro che
“piano Kalergi” – la natalità degli occidentali? Continuare nelle ipotesi
porterebbe fuori tema, e approfondirle senza prove scadrebbe nel complottismo).
Quello che posso rilevare senza tema di smentita è che:
·
tale propaganda è in atto ovunque, dalla scuola
alla televisione, dal cinema allo sport;
·
essa fa presa su molte donne (mano a mano che
statisticamente la popolazione femminile, più o meno felicemente, invecchia),
cui, una volta viste sfiorire le proprie grazie (ammesso e non concesso ne
abbiano mai effettivamente avute) non pare vero possedere uno strumento
“culturale” per tentare di cancellare dalla vista giovane e belle
rappresentanti dell’eterno femminino, gettando oltretutto colpe e discredito
sul genere maschile “reo” di guardare e desiderare (della serie: “come
l’invidia fra donne diventa moralismo contro gli uomini”, pare la riedizione
contemporanea di tutte quelle morali sorte per invidia, a cominciare da quella
“degli schiavi” denunciata da Nietzsche);
·
ora coinvolge pure (e non temo di essere
smentito) un giornalista di Autosprint che fino all’altro ieri credevo
indipendente e stimabile.
Cosa
ha spinto Teruzzi ad uscire dal seminato e a scrivere qualcosa che potrebbe
essere uscito dalla penna di Laura Boldrini? Una minaccia dall’alto
(compensazione per articoli precedenti troppo “filo-maschili” di colleghi?) o
una convinzione interna? Nel primo caso, sarebbe solo uno dei tanti
pennivendoli. Nel secondo, cadrebbe in una categoria simile a quella degli
esterofili fustigati da Dante, per il quale, chi parla male dell’identità cui
appartiene (in quel caso la patria fiorentina, in questo caso il “mondo delle
corse maschilista”) è mosso o da cechitade di discrezione (incapacità di
discernere il vero dal falso) o da cupidigia di vanagloria (ricerca di consenso
e apprezzamento da parte dell’altro, in questo caso delle tanto decantate ed
esaltate “Donne”, ironicamente con la maiuscola, dato l’abisso che separa certe
melanzane femminil-femministe, di cui la terza carica dello stato è degno
emblema istituzionale, da “Monna Vanna e Monna Lagia e Colei ch’è nel numer de
le Trenta”).
In
ogni caso, è dovere degli uomini liberi abbattere la tirannia, per cui anche
noi sportivi dobbiamo, nel nostro picciol mondo (chè sì picciol non è se ha
attirato le attenzioni delle lobbies), combatterla dialetticamente, se si serve
dell’hegelismo.
3. IL FEMMINISMO COME FORMA CONTEMPORANEA E
POLITICAMENTE CORRETTA DI TOTALITARISMO
Hegel
(cui, lo ricordiamo, il contemporaneo Schopenhauer, ben conscio di come la
realtà umana non sia fatta di figure dello spirito, ma di uomini e donne in
carne ed ossa, mossi innanzitutto da quella “volontà di vivere” da studiare
forse con la biologia piuttosto che non con le speculazioni idealiste,
scagliava le sue urla da sotto le finestre dell’università, indignato per come
la filosofia stesse barattando la verità in cambio della vanità accademica e
dell’ambizione politica) ha avuto fortuna al di là del proprio secolo “superbo
e sciocco”.
Per
tutto il Novecento, ha alimentato culturalmente quasi tutti i totalitarismi
(sicuramente, e con grande evidenza, il marxismo-leninismo, probabilmente,
anche se in maniera più indiretta e parziale, pure fascismo e nazismo) e
continua ancora oggi a fornire un’arma dialettica alle forme ultime del
totalitarismo: il politicamente corretto ed il femminismo mainstream. E’ ovvio,
infatti, che, se basta l’accusa di “essere contro il progresso” per
squalificare qualunque idea, qualunque posizione politica, qualunque stile di
vita, non si conformi a quanto è stato imposto con tale nome, non serve più
confutare le idee in un dibattito filosofico, prendere le decisioni
democraticamente, e convincere l’altro senza usare coercizione, ma si può
procedere con i metodi spicci del totalitarismo: messa a tacere del dissenso
(), imposizione dall’alto (e qui non faccio esempi in politica per non uscire
dal tema suscitando un vespaio, ma ce ne sarebbero assai…), divieti coercitivi
(). Il tutto vantando pure un “nobile fine”.
Il
Terruzzi, che ha usato questo modo di argomentare, dovrebbe ricordarsi che è
proprio di tutti i totalitarismi mangiarsi fette di libertà in nome di un
futuro bene superiore. Quanto mi spinge a definire l’ultimo femminismo come una
forma di totalitarismo è proprio la sua pretesa (comune a tutto quanto di
totalitario abbiamo conosciuto nel novecento) di cambiare antropologicamente
l’uomo, perché l’uomo quale è nella realtà effettuale, con le sue bassezze ed i
suoi slanci, le sue pulsioni e le sue idealità, i suoi vizi e le sue virtù,
sarebbe “sbagliato” di fronte ad una presunta “necessità storica superiore” di
cui il vostro giornalista pare voler convincere noi lettori. Non è difficile
vedere in questa pretesa totalitaria la “Hybris” di chi, proclamatosi laico, in
realtà si crede Dio: da quale cielo di purezza si può mai dire che la natura
terrestre dell’uomo, buona o cattiva che sia, sia “da rettificare”?
La
Chiesa ha fatto questo per secoli proprio per poter far sentire tutti in colpa
e tiranneggiarli con minacce ultraterrene (oltrechè con più terreni roghi). Un
certo femminismo (il quale, più che di donne, è fatto di interessi lobbistici),
se non ve ne siete accorti, sta facendo questo con l’uomo, con mezzi più
sottili, per lo stesso fine. Vuole che ogni uomo si senta in colpa (o
“sbagliato”) in ogni momento, per qualunque potenziale motivo, a prescindere da
qualunque effettiva intenzione o colpa, non per quello che fa, ma per quello
che è, ad esempio, perché è soggetto al desiderio della bellezza, all’impulso
dell’attrazione, alla necessità di agire per condurla a buon fine. Ad altro non
mira il considerare potenzialmente molestia un semplice sguardo (questo è
successo già dieci anni fa in quest’Italia definita “maschilista”, non nella
cultura liberticida ma coerente del burqua, ma nella stessa “cultura” in cui
resta “diritto”, per la donna, mostrare le grazie volute per il tempo che vuole
e nel modo che vuole, per capriccio, moda vanità, interesse
economico-sentimentale o gratuito sfoggio di preminenza erotica, per un bisogno
naturale, in fondo, non meno “animale” né più “raffinato o spirituale” del
nostro deprecato “guardare da porci”), potenzialmente “violenza” (o comunque
“costume di cui vergognarsi”) qualunque rapporto “do ut des” in cui la forza
contrattuale dell’uomo sia finalmente “non nulla” grazie a quanto, in cambio
degli agognati favori, può offrire alla donna
(sia esso l’accesso, tramite unione/fidanzamento/matrimonio, ad uno
stile di vita superiore, la promessa, tramite una posizione di prestigio/potere
nella società, di una facile carriera in un mondo all’apparenza dorato, o,
tramite il “sacro antichissimo culto di Venere prostituta”, soldi immediati e
facili).
Tutto
questo è “brutto costume da cancellare”? Beh, nella mia visione è l’unico
costume possibile, stando le cose quale esse sono nella biologia, posto che non
si voglia vivere perennemente infelici ed inappagati (nonché potenzialmente
tiranneggiabili, come tutti i bisognosi) nella sfera sessuale e da lì, tramite
i ben noti meccanismo della psicanalisi, in tutto.
E
anche se fosse “brutto”, perché dovrebbe essere vietato e dannato, se vi è, al
momento, consensualità fra adulti? Lo stato liberale regola a posteriori i
fenomeni sociali tenendo fermi i diritti fondamentali di ciascuno ed il
concreto bene pubblico, senza curarsi di giudicarli moralmente (altrimenti
sarebbe uno stato etico), mentre lo stato totalitario pretende invece di
indirizzarli secondo un presunto “bene superiore”.
Molto
significativo il fatto che (qui come in altri contesti) l’opinione delle
dirette interessate non sia stata ascoltata e, in nome della “figura della
donna” (sinistramente simile, come strumento di giustificazione di atti e
pensieri totalitari, ad una delle “figure dello spirito” di hegeliana memoria)
al posto delle ragazze della griglia in carne ed ossa, si siano lasciate
decidere persone estranee sorte a “tutela dei diritti e dell’immagine delle
donne”. Come se si dovesse tutelare un minore. Come se le grid-girls non
fossero ragazze maggiorenni e consenzienti. Tutto in nome della “lotta alla
violenza”. Ricordo solo un periodo storico in cui il discrimine fra violenza e
non-violenza prescindeva dal consenso della donna. Ed era il primo periodo
patriarcale, in cui avere un rapporto con la “propria donna” non era mai reato,
mentre averlo con quella di un altro lo era sempre, a prescindere dal fatto che
i rapporti fossero violenti o consensuali. Ora il femminismo sta tornando a
questo. Perfettamente in linea con quanto in ambito totalmente diverso (ma
avente in comune con la questione in oggetto il discorso sul corpo femminile,
sulla sessualità maschile e sull’immagine delle donne) si è fatto nei paesi
filo-femministi occidentali (vedi la Francia, culla europea del femminismo
“giacobino” che con mio disappunto vedo nel 2018 rientrare nel mondiale) sul
tema della prostituzione: resa reato per l’uomo a prescindere dalla condizione
di maggiore età e di libero arbitrio della donna disposta concedersi in un
rapporto occasionale (il che non significa, come vorrebbero le critiche
femministe ed i sessantottini, “privo di motivazione”, ma “liberamente deciso”
dentro quella sfera di autonomia che, in caso ad esempio di reato, non
priverebbe l’autore della responsabilità penale: quindi le motivazioni
economiche o di “immaturità giovanile” vi rientrano pienamente, non essendosi
mai visto che delinquere per bisogno o brama di soldi o per imitazione di
modelli sbagliati garantiscano l’impunità ad autori adulti di reati), senza per
nulla ascoltare le proteste delle associazioni di prostitute autodeterminate
(ma solo lobbies europee che, partendo da dati faziosamente interpretati e con
il concorso di “commissioni” epurate dai ricercatori scientificamente onesti
non disposti ad assoggettarsi a priori al dogma del “sono tutte schiave”,
stilano documenti da far approvare, senza alcun tipo non dico di democrazia
rappresentativa, ma almeno di effettiva discussione, ad un parlamento di
passacarte). Sempre con il solito ritornello “è una forma di violenza contro le
donne” (come se, appunto, la violenza non fosse determinata, come deve essere
in una concezione individualista e libertaria della sessualità, dalla mancanza
di consenso, ma dalla difformità del rapporto rispetto ad un “modello”
politicamente corretto).
E’
infinitamente scorretto scrivere “non voglio tirare in ballo la violenza sulle
donne” e poi implicitamente argomentare che le grid girls andrebbero abolite
perché soddisfano da un punto di vista visivo e “rappresentativo” gli stessi
desideri sessuali che, se pervertiti dall’eccesso e dalla violenza, conducono a
dei reati. Quando non più il singolo autore del reato viene ritenuto unico
responsabile, ma tutti i suoi simili vengono coinvolti in quanto
“corresponsabili di un certo modo di vedere la donna”, quando non più il reato
in sé viene perseguito, ma il primo desiderio da cui successivi sviluppi
potrebbero far sorgere il crimine, si passa dalla responsabilità individuale
(propria dello stato di diritto) a quella collettiva (caratterizzante la
“giustificazione” di tutte le persecuzioni novecentesche), dalla civiltà
giuridica alla distopia dello psicoreato (processo alle intenzioni).
E’
veramente aberrante che un giornalista (purtroppo Terruzzi non è il solo)
arrivi ad argomentare contro il bisogno maschile di bellezza sostenendo fra le
righe che tale visione del mondo (nel senso tedesco di Weltanshauung, oltre che
nel senso concreto di “bella visione di ragazze sulle schermo”) sia in qualche
maniera complice (o addirittura motore inconscio) di reati a sfondo sessuale.
Con questo schema si potrebbe arrivare a condannare qualunque idea sulla
politica, sul costume, sulla società, sulla vita, argomentando che “è
pericolosa per la sicurezza pubblica”. E questo è sempre stato la motivazione
con cui, dal terrore giacobino in poi, si sono giustificate tutte le tirannie
(la polizia segreta della Germania Est si chiamava significativamente
“Sicurezza di Stato”).
Ma
cosa hanno paura, che un pilota possa arrivare dall’abitacolo a toccar il culo
di una ragazza? Con il nuovo Halo non vi riuscirebbe neanche con braccia da
scimmia! Bisogna dare l’esempio alle nuove generazioni? Allora vogliono
semplicemente che un ragazzo percepisca come sbagliato e da correggere il fatto
stesso di essere attratto dalla bellezza femminile e quindi di soffermarvi lo
sguardo e di dirigervi le fole ad ogni occasione offerta da quel sogno chiamato
giovinezza.
E se
non bastasse tutto questo, si consideri cosa è scappato dalla penna di
Terruzzi, a proposito dell’educazione
dei giovani: “deve essere chiaro cosa può essere fatto e cosa non può essere
fatto, cosa può essere detto e cosa non può essere detto e, soprattutto,
pensato”. E’ arrivato a giustificare la limitazione non solo della libertà
personale (“non può essere fatto”, riferito non si sa bene a cosa, ma detto a
proposito della vicenda delle grid-girls nella quale non ci sono soprusi e
quindi reati, ma solo “rappresentazioni” che “non piacciono” a donne non
coinvolte), non solo della libertà di parola (“non può essere detto”, strano a
dirsi in un’Italia dove in altri ambiti, il “diritto di parola” di certi
giornalisti arriva spesso incontrastato ai limiti dell’insulto, della
diffamazione, della montatura ad arte), ma pure della facoltà di pensare con la
propria testa (“non può essere pensato”: una frase così categorica non ha
precedenti, se non da parte di Parmenide a proposito del “nulla che non può
essere” e quindi neanche “pensato”).
Ben
triste la fine del “fronte storico progressista”. Nato durante l’Illuminismo
con l’idea di introdurre il “pensiero critico”, è arrivato ora ad imporre il
“pensiero unico”. Basta tacciare un’idea dissonante di “essere contro la
storia” per cancellarla (assieme alle attitudini, ai comportamenti, persino
agli istinti naturali, ad essa associabili) come “non essere” senza neppure uno
straccio di argomentazione puntuale (ovvero non genericamente riconducibile ad
una vaga accusa di “complicità”, come fa Terruzzi a proposito del non meglio
precisato “maschilismo” delle corse). Fino a ieri, uno stato liberale di
diritto era razionale perchè, prima di vietare qualcosa, doveva dimostrare la
sua correlazione con un danno oggettivo, con responsabili ben individuabili e
vittime che fossero persone reali (non “figure dello spirito”). Oggi basta che
qualcuno (anzi, qualcuna), si “senta offesa come donna” (quindi, si badi bene,
non oggettivamente lesa nei diritti individuali, ma vagamente “dispiaciuta” da
una “rappresentazione” arbitrariamente definita “offensiva”, che però, nei
fatti, non la coinvolge) perché si arrivi al divieto, alla censura,
addirittura, come ho denunciato prima, allo “psico-reato”.
Altro
che “confronto democratico”! Eh noi, caro Terruzzi, qui, se, al di là della
retorica occidentale, siamo ancora in un “mondo libero”, io penso, parlo e
agisco. Lascia ai tuoi figli divieti, censure e, addirittura, controllo della
mente!
Non
sarei un libero pensatore se non accettassi che altri avessero visioni del
mondo diverse dalla mia. Quello che non posso ammettere è che una narrazione
che non condivido venga posta a motivazione di cambiamenti di leggi e costumi
cui vengo legalmente o socialmente costretto ad adeguarmi. Quello che non posso
accettare è che la narrazione femminista “mainstream” venga presentata come
progresso storico e che in nome di esso si arrivi a dannare e condannare (per
ora solo mediaticamente, ma gli sviluppi in ambito legale, lavorativo e
quotidiano potrebbero essere drammatici) il desiderio naturale mio e di
praticamente tutti i miei simili (nella “caccia alle streghe” innescata a
Hollywood si stanno perseguendo anche attori famosi omosessuali). Questa non è
più questione di differenti opinioni e divergenti visioni del mondo. Qui è
questione di dire la verità o mentire su una realtà biologica o, almeno,
etologica. Qui è questione di lasciare che una visione del mondo di parte (come
è necessariamente quella femminista) imponga a tutti la propria “narrazione”, i
propri costumi, la propria morale. Qui è questione di scegliere la dittatura
del politicamente corretto o la libertà del cosiddetto “maschilismo” (ovvero,
per esclusione ormai, dato che il termine è sempre più usato dalla propaganda
femminista a prescindere dal suo significato originale di
“svaluazione/oppressione” della donna, tutto quanto, semplicemente, non è
femminismo demagogico). Il desiderio di natura dell’uomo per il corpo della
donna è un fatto (nemmeno un costume, come pretenderebbero i banditori di una
sociologia basata sui fumi della propaganda di un certo pseudo-egalitarismo, ma
proprio un dato scientifico, come sa qualunque biologo e qualunque etologo).
“Costume”, anzi “malcostume” è proprio, invece, l’opinione morale femminista
secondo la quale equivarrebbe a “degradare la donna” (valutazione
extrascientifica). Il vecchio Bernie ha parlato di "eccesso di ipocrisia".
Io credo si debba parlare invece apertamente di eccesso di menzogna (se non
scientifica, almeno civile e morale).
Che
mirare e disiare la bellezza (in questo caso simboleggiata dall'eterno
femminino, la cui contemporanea espressione si incarna nelle cosiddette
"grid girls") equivalga a ridurre la donna ad un oggetto è una
menzogna aperta (significativamente sostenuta dalla più moderna forma di
manipolazione della realtà rappresentata dal femminismo demagogico e da tutti i
suoi servi, funzionali alla dittatura del "Pensiero Unico", vero e
proprio totalitarismo del corrente secolo segnato ormai in ogni campo della
vita dalla tirannide della finanza senza patria ma con sede in USA).
Essa
è infatti in contrasto non solo con le verità della Natura e della Poesia (il
disio naturale per il corpo della donna ha la stessa naturalità delle stelle
scorrenti del cielo, delle spiagge luminose del mare, dell'avvento della
primavera, della fiera che insegue la femmina nei boschi chi sa dove, e
dell'altre espressioni della "voluptas cinetica" cantata da Lucrezio
nel "de rerum natura" e risulta al contempo il motore immoto di ogni
creazione di immagini e suoni tramite la parola chiamata "Poesia", da
quando Jacopo da Lentini inventò la metrica perfetta del sonetto a quando il
Petrarca la colorò del suo stile puro e rarefatto senza eguali nel mondo, da
quando Dante, Guido e Lapo, scegliendo la bella donna quale immagine della
conoscenza divina, inondarono l'aria del "dolce stilnovo ch'i odo" a
quando D'Annunzio, godendo delle grazie di "dive" più moderne, mostrò
le estreme possibilità musicali e oniriche del verso, da quando il Poliziano,
organizzatore di feste per "Il Magnifico", riuscì a dipingere la
nostalgia per il paradiso terrestre, che ogni uomo è destinato con il crepuscolo
della giovinezza, tramite le sfumature di colore dell'erba verde che
"sotto i dolci passi, bianca, gialla vermiglia e azzurra fassi",a
quando il Tasso inumidì le Rime del più tenue, languido e caldo dei pianti:
"qual rugiada, qual pianto, qual lacrime eran quelle che sparger dal
notturno manto e dal candido volto delle stelle? Fur segni forse della tua
partita, vita de la mia vita?"), ma pure con l'esperienza di vita
quotidiana, poiché proprio l'essere poste sul piedistallo della bellezza
(generata sovente dall'illusione del nostro desiderio), permette alle donne
reali sia di costringere noi a fare sempre qualcosa per essere notati e
apprezzati (non solo in quella occidentale maschera di servitù imposta a tutti
gli uomini verso tutte le donne, chiamata corteggiamento, di cui tutto
l'Oriente ride come ne avrebbero riso i Greci, ma in tutte quelle situazioni
nelle quali una fanciulla, proprio perchè disiata nelle lunghe chiome, nel
claro viso, nelle forme suadenti ed in tutte le grazie "ch'è bello
tacere", con la rapidità del fulmine e l'intensità del tuono, si trova in
una situazione se non altro psicologica di vantaggio, e non di svantaggio, nei
confronti della controparte maschile, impossibilitata, a meno di non parlare di
personaggi ricchi e famosi, a compensare in desiderabilità e potere la bellezza
con doti parimenti apprezzabili ed immediatamente evidenti, e quindi
inevitabilmente sottoposta alla tensione di un esame e costretta a scervellarsi
per capire come parlare per compiacere e come agire per mostrare il meglio di
sè o quanto si suppone possa essere percepito come tale, per trovare un modo di
rendere evidenti ed apprezzate eventuali doti di sentimento o intelletto
potenzialmente gradite, per avere un'incerta speranza di "star di
paro" alla bella donna, il tutto mentre questa può rilassarsi, compiacersi
e scegliere se divertirsi "con" lui o "di" lui), sia di
tirarsela infinitamente (come può, in effetti, sempre permettersi un fine
rispetto ai mezzi per raggiungerlo: altro che "riduzione ad oggetto",
questa è "elevazione a fine" e le femministe riescono a lamentarsi
persino dei privilegi femminili!), poiché, anche senza essere “ombrelline”,
anche senza averne le grazie (ché quando esse mancano, supplisce, come in ogni
aspetto poetico della vita, l'illusione del disio), esse, in ogni modo (dal più
legittimamente personale al più gratuitamente vanaglorioso, quando non
studiatamente perfido), tempo (dal più fugace e casuale incontro al più lungo e
sentimentale rapporto) e luogo (dalle discoteche agli uffici), sfruttano
(sovente pure senza limiti, remore nè regole) il privilegio di essere
universalmente mirate, amorosamente disiate e socialmente accettate per la
"bellezza" (senza dover obbligatoriamente mostrare certe doti o
compiere particolari imprese, cui sono costretti invece i cavalieri, i quali
senza esse restano puro nulla socialmente trasparente e negletto dal sesso
opposto).
4. RETROPENSIERI “RETROGRADI” E “MASCHILISTI”?
NO, WELTANSCHAUUNG ALTERNATIVA!
Nel
mio sentimento della realtà (chè non vale meno di quello che le donne hanno la
pretesa di far valere anche in ambito legale), la donna non rappresenta né la
“povera oppressa” della narrazione femminista, né “l’animale inferiore”
dell’uguale ed opposta narrazione maschilista. Preferisco basarmi sulla realtà
biologica ed etologica, piuttosto che sui pregiudizi morali e sul sentito dire,
su quanto posso sperimentare dalla vita e dagli istinti, piuttosto che su
quanto mi viene “raccontato” come “storia” (da quando Giulio Cesare, parte in
causa, si è finto terza persona per scrivere il “De Bello Gallico”, storia e
fake news rischiano sempre di divenire sinonimi) e “insegnato” come “bene” e
“progresso” dalla sedicente “cultura” ufficiale.
La
donna gode del privilegio (di natura, e quindi di cultura) di ricevere il sorriso
degli astanti, il desiderio subitaneo ed incondizionato dell’altro sesso,
l’apprezzamento e l’accettazione di tutti al primo sguardo, per quello che è,
per la sua grazia, la sua leggiadria, la sua essenza mondana, in una parola per
la “bellezza” (anche quando essa manca, vi supplisce quasi sempre l’illusione
generata dal desiderio), senza bisogno di fare obbligatoriamente qualcosa, di
compiere particolari imprese (cui sono invece costretti i “cavalieri”), di
mostrare questa o quella dote nella speranza di “fare colpo” su qualcuno in
particolare o di emergere nella considerazione generale, proprio perché le è
stato assegnato il privilegiato e confortevole ruolo di “selezione della vita”
(ben simboleggiato dall’immagine dell’ovulo che può ben aspettare l’arrivo
dello spermatozoo più veloce e resistente fra tutti quelli attratti senza
bisogno di muoversi), senza il quale nessuna specie potrebbe preservarsi, ma
con il quale i desideri umani di libertà e felicità hanno un rapporto
necessariamente problematico.
All’uomo
è invece dato l’opposto-complementare, assai più ingrato e disagevole, ruolo di
“propagazione” della vita (disiare la bellezza con la rapidità del fulmine e
l’intensità del tuono, non appena questa si mostra nelle grazie ch’è bello
tacere, mirarla, seguirla e cercare di ottenerla in modo da permettere alla
controparte femminile di selezionare fra i tanti chi eccelle nelle doti volute
perché qualificanti la specie) e quindi, se vuole ottenere lo stesso sorriso
del mondo, la stessa desiderabilità amorosa, lo stesso apprezzamento dal sesso
opposto, la stessa accettazione sociale, deve COSTRUIRE socialmente il proprio
ruolo.
Se
non vi riesce, non solo rimarrà infelice e inappagato nella sfera sessuale,
costretto a confidare i propri teneri sensi alle leopardiane vaghe stelle
dell’orsa (poiché, anche se fosse fisicamente bello come un grid-boy, non
avrebbe mai e poi mai lo stesso “privilegio della bellezza” della controparte
femminile, non contentandosi questa punto della fisicità, ma pretendendo mille
altre doti, alcune delle quali soggettive, come quelle di sentimento o
intelletto non visibili al primo sguardo, e richiedenti tempi e modi
particolari per essere fatte sensibili, oltreché orecchie e menti predisposte
ad apprezzarle, e molte delle quali, oggettive, inscindibili da quanto fa
conseguire posizioni di primato o prestigio sociale), ma sarà pure socialmente
“apolide”, non potendo contare su quel modo proprio della donna di influire
sulle cose e sugli uomini tramite quanto in essi vi è di più profondo e
irrazionale, per mezzo di ruoli quali madre, confidente, amante che nessuna
società, per quanto misogina, potrà mai abolire e per effetto dei quali, come
ben notò persino Rousseau, l’effetto del loro sesso sul nostro è, per natura,
molto maggiore di quello inverso (almeno in assenza di compensazioni).
E
tutto questo non perché le donne siano più “cattive” (non lo sono,
statisticamente né più né meno degli uomini) o “più stronze” (non lo sono più
di quanto, a condizioni invertite, lo sarebbe la media degli uomini che può
approfittare di una debolezza altrui), ma perché, se non si ha nulla di
inter-soggettivamente valido ed immediatamente apprezzabile da offrire per
pareggiare la bellezza (o, ancora se vogliamo essere precisi, la sua “illusione
nascente dal nostro desiderio”), non si può aver alcuna realistica speranza,
nel mondo dei fatti (i rapporti “spirituali”, come quello fra San Francesco e
Santa Chiara, basati sulla fantomatica “gratuità”, esulano da questa
trattazione, trovandosi meglio in mezzo a dissertazioni su miti, leggende e
sogni infranti), di essere accettati, né come potenziali padri della futura
prole (ché anche in natura, senza una posizione sociale paterna elevata, non
potrà avere vita felice) né come occasionali compagni di godimento (ché, per
dirla con il Schopenhauer della “metafisica dell’amore sessuale”, non è la
mente, ma l’istinto a scegliere, per cui, anche quando una donna non è
interessata a procreare, sceglierà sempre e comunque con gli istintivi criteri
con cui lo farebbe una sua omologa di altra specie, alla faccia della mitologia
sessantottina del “sesso libero”).
Tutto
questo non è semplice “stereotipo” (magari lo fosse!) da abbattere con
l’educazione, la cultura, l’esempio. Esso si rileva, infatti, in ogni specie. I
desideri di natura non dipendono da un contratto sociale, sono invarianti per
“civiltà”, sono esenti dalla “evoluzione storica” (conoscono solo quella
naturale, ma il tempo fuori scala per l’effimero individuo). Non vale a nulla
cercare di “moralizzarlo”. In quanto natura, ciò è, per usare le parole di
Nietzsche, “grande e immorale per tutta l’eternità”
Dove
possono iniziare a subentrare gli stereotipi, le considerazioni morali, i buoni
propositi, è il momento in cui si pensa se e come bilanciare tutto ciò.
Ammetto
che in natura molte specie non hanno compensazioni e lasciano i maschi al loro
destino. E’ il caso delle api, dove i fuchi, costretti comunque a inseguire la
regina per sperare di riprodursi, sono uccisi da essa dopo l’accoppiamento se
vincono, o vengono lasciati morire di fame se perdono. E’ il caso anche degli
elefanti, dove, se questi sapessero poetare, ci racconterebbero di pene
peggiori di quelle dantesche, vissute continuamente nella continua frustrazione
del disio per via del branco matriarcale e nella solitudine dopo la cacciata.
Significativamente, donne particolarmente perfide e uomini completamente
stupidi giustificherebbero la trasposizione di tale preminenza femminile
nell’amore sessuale al mondo umano con la banale argomentazione che “in natura
funziona”. Meno perfidia femminile e meno stupidità maschile dovrebbero lasciar
comprendere la questione di fondo persa di vista da tale giustificazione: la
“natura matrigna” ha a cuore puramente la propagazione e la conservazione della
vita, mentre il mondo umano dovrebbe pure preoccuparsi della felicità e della
libertà degli individui (fini sconosciuti alla natura), o, almeno, della loro
possibilità di vivere “sopportabilmente” (il maggior grado di coscienza rende
nell’uomo intollerabili molti mali quotidianamente
“sopportati” da altri animali”). Anche senza tirare in ballo motivazioni
”comunitarie a anagogiche“ che richiamino alla capacità di “gettarsi nella
storia” da parte di popoli mitologicamente patrilineari (i quali sono prevalsi
su quelli, altrettanto mitologicamente, matrilineari, anche quando questi –
vedi lo scontro fra Romani ed Etruschi -
potevano vantare tecnologie più avanzate, denotando con ciò una superiore
coesione sociale, una superiore propensione a dare senso, valore e bellezza all’esistenza,
una migliore attitudine, cioè, ad usare la “visione spirituale” per ordinare la
società e fare delle invenzioni tecnologiche strumenti per salti di livello
qualitativo dell’umano) e che volentieri non tirerei in ballo, se la mia
controparte dialettica non allegasse ad ogni più sospinto la propria mitologia
“matriarcale” (giungendo, nei casi estremi di “nazifemminismo”, ad esaltare le
società “insectidi” e a parlare apertamente di “mondo senza maschi”), è, per
chi dà ancora un senso alla parola, una questione di “equità” (intesa non come
uguaglianza, ma come bilanciamento di poteri e scelte) fra consimili.
Anche
le prime società umane, di matrice matriarcale cara alle femministe,
probabilmente erano qualcosa di simile alle società di elefanti: ogni potere
materiale e morale era femminile, e in ogni momento il caro “compagno” poteva
essere “licenziato” senza possibilità di reintegrazione. Non sappiamo come
fosse lo stato degli uomini in quel periodo, ma a giudicare da quanto posso
ricordare del primo periodo scolare, ove in qualunque momento potevo essere
sgridato per qualunque motivo da donne, a cui spettava a capriccio la
definizione di bene e male e che se la potevano avere a male per ogni mia
battuta da fanciullo (e quindi ancora necessariamente innocente) non ho alcuna
curiosità di scoprirlo (né di sostenere la deriva di leggi e costumi per cui il
confine fra lecito e illecito viene sempre meno stabilito oggettivamente a
priori e lasciato invece soggettivamente al giudizio ex-post della presunta
vittima).
Tutto
cambia con il passaggio dalla preistoria alla storia (e questo dovrebbe far
riflettere i progressisti sostenitori dell’endiadi femminile=progresso). Tutte
le civiltà propriamente storiche ad oggi conosciute hanno studiato mezzi più o
meno efficaci, più o meno condivisibili, ma sempre percepiti come necessari
(anzi, in casi come quello romano addirittura fondamento di ogni diritto e di
ogni civiltà) per porre in mano virili non solo, retoricamente, la guida
“comunitaria” e “anagogica” (secondo il principio tradizionale, e quindi sempre
mitologico, della “vita spirituale ed ascendente data dal padre, cui si
accedeva spesso per prova e rito iniziatico da parte di una ristretta cerchia
di aristocratici”, percepita come “vera vita”, contrapposta “all’esistenza
puramente corporale e conservativa data dalla madre, e comune a tutti gli
uomini indistintamente, anche plebei” -
ovvio che tale concezione virile e guerriera non poteva non prediligere
il sesso che, già come spermatozoo, fa coincidere vita e vittoria), ma più
pragmaticamente, la possibilità di vivere liberi e felici.
Tutte
le mirabili strutture dell’arte come della religione, del pensiero come della
società, della politica come della storia, ingiustamente chiamate oppressione
dal femminismo, sono state edificate dai più forti e saggi fra gli uomini non
già per opprimere (non è l’obiettivo dei savi), ma per impedire a tutti gli
uomini di essere troppo oppressi a causa di quei 5/6 di imbecilli – la
percentuale è sempre di Schopenhauer - che in ogni tempo (anche oggi, vero
Terruzzi?) si lascerebbero in tutto e per tutto tiranneggiare dalle donne e di
avere anzi le stesse possibilità di scelta e la stessa forza contrattuale (in
quanto davvero conta dinnanzi alla Natura, alla Discendenza ed alla Felicità
Individuale) date alla donna dai privilegi naturali di cui si è discusso.
Parlando
di periodi di cui si ha traccia provata, e tralasciando le origini
semi-mitologiche in cui un assoluto annichilimento del genere femminile fa da
paio poco credibile assieme a Romolo che ascende al cielo o ai numi che
partecipano attivamente alle battaglie, l’effetto del cosiddetto “patriarcato”
(fra virgolette, perché, in questa accezione, ben poco rimane del significato
“eroico” originario indoeuropeo cui si è sopra accennato) è stato
principalmente quello di non lasciare senza freno la pretesa onnipotenza della
donna nelle questioni di scelta del partner e di discendenza. Ciò non va inteso
come costrizione ad accoppiarsi con un uomo non gradito, ma come possibilità per
l’uomo, tramite le costruzioni sociali di cui sopra, di mostrarsi ed
effettivamente di essere, assai gradito alla donna desiderata. Dal buon partito
che permette alla ragazza di uscire di casa, al cavaliere che appare bello
perché salva la dama da un pericolo, ogni uomo di buona volontà aveva una via
socialmente accettata (senza la stigma di oggi) e ben codificata (senza appunto
il rischio di essere bollati come “molestatori”) per “bilanciare la bellezza”.
Sia detto fra parentesi. Si può anche sorridere di tutto questo, ma cosa ci
offre in cambio il mondo moderno e progredito delle femministe e di Liberty
Media? Nulla. Forse solo i pompini disattesi di Madonna. In attesa dunque che
ci si offra un’alternativa accettata dal politicamente corretto, ben facciamo a
puntare sull’unico valore intersoggettivamente riconosciuto (il denaro e
l’immagine che ne deriva) e a sognare ad occhi aperti quelle fanciulle di
bellezza tanto alta e nova da poter altrimenti essere solo sognate sotto un
plenilunio e che fino a ieri hanno popolato le griglie.
Il
mondo liberale ha scelto una via di mezzo, fra non-compensazione preistorica ed
iper-compensazione storica: dando a tutti (almeno in teoria) la possibilità di
costruire la propria vita e scegliere il lavoro migliore in rapporto a
sacrifici e obiettivi, ha permesso alle donne che lo volessero di svolgere gli
stessi lavori degli uomini, e agli uomini che lo sentissero come necessario, di
fare carriera e denaro per circondarsi di belle donne. In tale libertà di
scelta rientrano pure le grid girls, che hanno scelto il mestiere di
sacerdotesse della Bellezza senza costrizioni e senza sentirsi “sminuite” o
“offese”.
Come
tutte le vie di mezzo, però, tale mondo è suscettibile di oscillare troppo in
un senso o nell’altro. Se le femministe si lamentano di presunte
“discriminazioni culturali” (e fra queste mettono le grid girls, almeno stando
alle boiate di Claire Williams: “spero che questa scelta porti più ragazze a
lavorare con noi”; prima di sostenere l’inopportunità delle grid girls,
dovrebbe riflettere sulla “puttanaggine”
della scelta di preferire i rubli di Sirotkin al talento di Kubica!) che
impedirebbero di avere il disiato (da loro, ma giustamente temuto da me) 50 e
50 in ogni ambito, io mi lamento di quote rose ed iniziative culturali con il
fine di favorire le donne (e quindi, in un mondo a risorse limitate,
penalizzare gli uomini) proprio nei mestieri, nelle posizioni, ed oggi pure
negli sport, grazie ai quali gli uomini possono individualmente e
meritocraticamente ottenere con lo studio, il lavoro, la dedizione, il
sacrificio (e, necessariamente, la fortuna)
i mezzi per avere “pari opportunità” di scelta, di potere e di
apprezzamento nella sfera erotico-sentimentale rispetto alle donne.
Se
non vi è ovunque un 50 e 50 percento fra i sessi, non sempre è colpa di
discriminazioni nascoste nel lavoro o rappresentate nello sport: certi mestieri
richiedenti sacrifizi, rinunce e fatiche fin dallo studio universitario, e
implicanti poi limitazioni di tempi e modi di vita sono probabilmente
ricercati, perseguit e scelti dagli uomini con più frequenza e intensità non
perché le donne siano meno capaci (versione maschilista) o perché ne siano
scoraggiate/impedite (versione femminista), ma semplicemente perché sono
principalmente gli uomini ad averne estrema necessità, pena vedere frustrati i
propri sogni non solo e non tanto lavorativi ed economici, ma soprattutto
psico-amorosi e vitali.
Per
le donne studiare, lavorare, fare carriera è una delle scelte possibili (anche
se il femminismo fa finta sia l’unica), mentre per noi è un obbligo (giacchè
senza “superlavoro” e “superguadagno” non potremmo mai godere stabilmente della
presenza di “supergnocche”, o ricevere tutti i giorni un “super-apprezzamento”
sociale, mentre le nostre controparti femminili, anche disoccupate o senza
titolo di studio, potrebbero con le loro grazie, selezionare fra i
trecentosessantacinque pretendenti giornalieri – non sono di meno, altrimenti
non potrebbero lamentarsi delle molestie quotidiane - quello che per aspetto
fisico, sentimento o intelletto o posizione sociale le attrae di più, e,
comunque riceverebbero sorrisi e complimenti e benvenuti in ogni luogo di
lavoro e divertimento, e potrebbero in ogni unione contare sulla forza
“contrattuale” data dalle disparità dei bisogni psico-sessuali). Questa è la
verità (naturale). Il resto è conseguenza (umana).
Le
femministe, partendo dal dogma dell'uguaglianza e dall'irrealtà del “Gaist”
hegeliano, credono che qualcuno o qualcosa sia necessariamente colpevole della
mancata realizzazione del perfetto egalitarismo nei fatti (e, quando non
trovano il capro espiatorio, arrivano agli eccessi isterici delle accuse random
hollywoodiane e delle campagne “moralizzatrici” nello sport e nella
pubblicità); io, osservando le verità della natura e la realtà degli istinti,
comprendo che le ingiustamente vituperate “disuguaglianze sociali” fra i generi
sono la conseguenza non di una discriminazione , bensì di un previlegio, ovvero
del tentativo necessario, matto e a volte disperatissimo, dell'uomo di
bilanciare il privilegio naturale
femminile con lo studio, il lavoro, la
posizione di potere, prestigio, preminenza. Mistificando il nostro umano
bilanciamento sociale dei loro privilegi naturali come “discriminazione”,
giustificano le “discriminazioni positive” per rendere ancora più difficile, se
non impossibile, a noi, raggiungere “pari opportunità” di vivere liberi e
felici, nella realtà del “mondo come volontà”, non nell’apparenza del “mondo
come rappresentazione”.
Ecco
perché Nietzsche scriveva “il femminismo contiene una tale dose di stupidità
tipicamente maschile di cui ogni donna ben riuscita, che è sempre una donna
intelligente, dovrebbe vergognarsi”. Sembra quasi che il visionario professore
di Basilea abbia potuto prevedere più di un secolo prima le aberrazioni del
femminismo attuale. E dire che non ha potuto leggere né le stupidaggini di
Laura Boldrini e di Giorgio Terruzzi, né le puntuali ed intelligenti
osservazioni della “grid-girl” Veronica (la cui “ottima riuscita” come donna è resa
evidente dalle foto pubblicate sull’ultimo numero di Autosprint: la capacità di
“intus legere” la realtà della cose, centrando subito la questione dell’utile
economico delle lobbies, né è solo la conferma).
5. DISCRIMINAZIONI? NO, COMPENSAZIONI: PILOTI E
GRID GIRLS COME METAFORE DELLA NASCITA DELLA VITA
E’
inutile che il dogma politicamente corretto di Women’s Sport Trust mi predichi
“«il pubblico di molti eventi sportivi è
portato ad ammirare gli uomini forti e di talento che prendono parte alle
competizioni, mentre il ruolo delle donne nelle stesse è basato solo sul loro
aspetto fisico». Secondo il Women’s Sport Trust è importante che le donne non
siano considerate un semplice «abbellimento» nelle manifestazioni sportive,
cosa che rafforza dei vecchi stereotipi e dà alle ragazze un esempio sbagliato
delle cose a cui aspirare.”
Il
mio più profondo istinto e le mie intime esperienze mi convincono con verità
più vive che, se una fanciulla ha la bellezza per essere mirata, disiata ed
accettata al primo sguardo, da tutti, e a prescindere da tutto – e questo non è
affatto messo in discussione né dal femminismo, né da Liberty Media, né
tantomeno dalla società moderna (la quale, ahimè, non può prescindere dalla
biologia) – allora è santamente giusto, o perlomeno moralmente equo, che i
garzoncelli abbiano qualcosa di parimenti efficace per essere immediatamente
ammirati , desiderati da tutte e accettati socialmente, a prescindere dalle
eventuali doti di sentimento o intelletto di apprezzamento soggettivo ed arbitrario
(e perciò inadatti ad essere “moneta” in quell’asta delle offerte per la più
bella a cui, dietro le mentite spoglie del cosiddetto “romanticismo”, si riduce
ogni corteggiamento non velleitario). E se ciò, almeno a livello
rappresentativo, si può trovare, oltre che nel lavoro, pure nello sport, allora
è assolutamente positivo ed altamente educativo per ambo i sessi, altro che
sbagliato! Sbagliato è continuare ad illudere i ragazzi che, anche senza
raggiungere particolari livelli di prestigio o preminenza sociali, potranno
avere occasione di conquistare i cuori o comunque i favori temporanei di tante
belle fanciulle. Sbagliato è anche provare ad illudere le ragazze (ma queste
sono meno ingenue) che il loro carrierismo femminista possa in qualche modo renderle
più desiderabili (quando, al contrario, i tempi stressanti di certi
“superlavori” rendono difficile seguire stili di vita salutari, i quali solo
possono garantire il perpetuarsi nel tempo di quella bellezza senza la quale
nessun uomo, che non sia tanto falso da poter mentire anche nell’istinto, potrà
mai sentirsi appagato nella sfera dell’amore sessuale).
Che
le fanciulle siano immediatamente disiate per la bellezza è un dato naturale,
vero ben al di là delle griglie di partenza e sfruttabile dalle stesse anche
senza dover tenere ombrelli. Se si potesse eliminare questo iniquo privilegio,
ci penseremmo noi uomini per primi, nel nostro interesse (come in effetti si
tenta, da tanto tempo ed in vano, di fare in certo mondo arabo). Supporre che possa essere cancellato
semplicemente oscurandone la rappresentazione televisiva è poco credibile.
Credo quindi che la campagna femminista sia, per l'ennesima volta, mirata
semplicemente a distruggere la nostra capacità di compensazione, a renderci la
vita invivibile, senza più modo di fronteggiare quel “privilegio della
bellezza” che esse fingono “superficiale” e “trascurabile rispetto al potere
maschile” semplicemente per poterlo usare senza limiti, remore, né regole. Non
siamo noi uomini ad averlo creato. Ne subiamo semplicemente le conseguenze. Ed
allora abbiano creato le compensazioni. Come la gloria sportiva, che rende
riconoscibili e idolatrati al primo sguardo più della più bella fra le belle,
come la religione della velocità e del pericolo, che rende gli adepti più
divini delle dive, come l'eroismo motoristico, che trasfigura i cavalieri del
rischio rendendoli simili ad amatissimi
principi che sconfiggono draghi e salvano fanciulle. Tutto ciò si sublima
nell'immagine rituale del campione che bacia la bella prima di sfidare la
morte, il tempo e la vertigine e ne riceve il bacio all'arrivo, se vittorioso.
Chi
pretende di abolire tutto questo per “rispetto alla parità” dovrebbe prima
abolire il motivo per cui non c'è affatto parità in partenza fra i sessi.
Poiché però neanche le femministe propongono leggi per costringere le donne a
farsi avanti nella metà dei casi di corteggiamento, o per impedire alle stesse
di usare la bellezza per appagare i bisogni d'autostima, di accettazione e di
riconoscimento, per legittimo interesse personale, sociale o sentimentale,
dentro e fuori l'amore, per avere quello che vogliono dal partner che vogliono,
o anche solo per semplice desiderio naturale e vanità, non posso accettare che
si impongano censure a quanto negli anni, nei secoli, nei millenni, noi uomini
abbiamo saputo costruire per contrapporci a tutto ciò.
Vadano
a raccontare a qualcun altro che “è un innocuo contropotere”. Nascendo da un
desiderio di natura, non può che precedere, e non già seguire, qualunque tipo
di ordine sociale. Quindi è il vituperato “maschilismo”, semmai, ad essere il
(sempre più innocuo, dato che ormai si sono ridotte a combatterne un preteso
residuo simbolico) “contropotere”. Agendo nel “Mondo come volontà” dei più
profondi bisogni esistenziali, sessuali e psichici, per i quali uomini e donne prendono le scelte
nel “mondo come rappresentazione” del denaro, del lavoro, dei ruoli sociali
(gli esseri viventi non sono spinti direttamente, come fa credere il “materialismo
storico”, dalle regole e dalle apparenze razionali di soldi, lavoro, e potere,
ma, semmai, scelgono di ricercare soldi, lavoro e potere come mezzi per
raggiungere l'appagamento dei ben più intimi e atavici bisogni di sentirsi
riconosciuti, apprezzati, desiderati, ammirati: chi, come la donna ha spesso
già l'appagamento di questi senza passare per quelli, ha un privilegio, non uno
svantaggio), è molto più pervasivo di quanto viene visto come “vero potere”
(che in realtà, come visto, è solo un tentativo più o meno efficace di
compensazione).
Se
sono diverse (a priori, e non per meriti/demeriti dei singoli) le posizioni di
partenza, è profondamente ingiusto volere poi uguaglianza nelle condizioni di
gara, se sono diversi i bisogni e quindi gli obiettivi da raggiungere, è
altamente iniquo pretendere parità all’arrivo. Poiché sono gli spermatozoi a
“partire più indietro”, anzi, sono gli unici a dover partire, mentre gli ovuli
sono già nati all’arrivo, uguaglianza (nel diritto alla libertà ed alla
felicità) significa lasciare che siano i primi a ricevere (o a costruirsi
spontaneamente) maggiori risorse, energie e stimoli per correre; se sono gli
spermatozoi a dover correre all’ovulo e non viceversa (e nel caso della
competizione automobilistica, la rappresentazione è più che emblematica),
allora equità significa non imporre “limiti di velocità” ai primi (come sono di
fatto le quote rosa o altre leggi e costumi che limitano gli uomini) e non
lamentarsi se le rappresentazioni pubbliche come lo sport incitano più i primi
che non il secondo a “correre”.
Se io
sono naturalmente, ineludibilmente ed irrefrenabilmente attratto dalle lunghe
chiome, dal claro viso, dall’alta figura che bella e lontana la fa mentre la si
mira come luna in cielo, dalle membra scolpite come da un divino artefice, dal
ventre piatto e levigato, dalla pelle liscia ed indorata come di sabbia baciata
dall’onda, dalle chilometriche gambe di modella, e dall’altre grazie che, per
dirla con Dante, è “bello tacere”, ed ho profondo e naturale bisogno, tanto nel
corpo quanto nella psiche, di sentirmi disiato, ammirato e accettato da chi
incarna tale bellezza per qualcosa di altrettanto poeticamente bello,
immediatamente percepibile e socialmente luminoso, allora non dico mi si debba
spingere a forza una modella nel letto, ma almeno allevare in un contesto nel
quale, tanto materialmente quanto psicologicamente, abbia possibilità concrete
(ovviamente se l’eccellenza e la costanza nello studio temprate nelle
discipline più severe me ne rendono meritevole, e se la delicatezza d’animo e
la raffinatezza di spirito, coltivate nelle letture più profonde e grandiose mi
rendono sufficientemente degno di cercare di accostare alla bellezza corporale
e mortale della donna quella non corporale e non mortale della poesia da essa
ispirata) di non apparire ridicolo soltanto per osare un approccio.
Non
certo nel contesto lavorativo in cui si introducono quote rosa “perché ci sono
troppi uomini”. Come se non fosse un merito essere riusciti, nonostante
l’istruzione in mano a donne spesso pure femministe, a sopravvivere alla noia e
alla demoralizzazione per emergere poi, al liceo ed all’università, in
discipline scientifiche! Come se, quando sono le donne ad essere più brave a
scuola e ad emergere in altre discipline (ad esempio lettere e giornalismo),
queste non fossero esaltate, e non si desse merito ai loro risultati scolastici
“migliori di quelli dei maschi” (il cui minore risultato viene attribuito a
minori qualità e non ad eventuali discriminazioni psico-sociali anti-maschili).
Non
certo nel contesto psicologico attuale, prodotto dalla cultura ufficiale (dalla
quale tutto quanto è, più o meno ragionevolmente, visto come “femminile”, è
presentato quale “bello”, “buono”, “pacifico”, “moderno”, “evoluto”,
“raffinato”, ”complesso”, mentre tutto ciò che viene più o meno fondatamente
sentito come maschile viene visto quale “brutto”, “cattivo”, “violento”,
“vecchio”, “primitivo”, “rozzo”, “semplice”) e dall’immaginario hollywoodiano
(nel quale i personaggi maschili sono troppo spesso raffigurati o come
“molesti”, “bruti”, “violentatori” da punire nel modo più profondo, vasto e
doloroso e umiliante possibile, dal calcio nelle palle all’omicidio, o come
mezzi ritardati psichici resi ancor più ingenui dal desiderio, pezzi di legno
davanti a cui permettersi di tutto, pupazzi da sollevare nell’illusione e
gettare nella delusione)! Come se non fosse stata scritta da Torquato Tasso la
“Gerusalemme liberata”, nella quale, a contraltare dell’eroe maschile Tancredi
(costretto allo stereotipo dalla necessità di conformare la trama principale
alla storia reale delle Crociate e i tratti umani ai precetti della
Controriforma) appaiono diverse figure femminili (più libere e variegate
proprio perché non costrette ad avere un ruolo preciso nella “grande storia”),
nelle quali (si pensi alla figura di Erminia ed alla sua passione nascosta) il
poeta nasconde le più tenui, delicate, languide, complesse fino al chiaroscuro,
sfaccettature del proprio animo (meglio di quanto potrebbero mai fare mille
bloggers intimiste), e le più illuminanti, sconvolgenti, a tratti pure moderne
(si pensi alla figura di Clorinda guerriera) descrizioni dell’animo femminile
(prima di quanto abbia potuto fare il femminismo storico)! Come se il vertice
della storia in questa parte di mondo, figlia della Grecia e di Roma, rispetto
a cui noi contemporanei appariamo “gnomi sulle spalle dei giganti” non solo per
la grandezza delle opere che ancora noi possiamo ammirare, non fosse stato
edificato da corpi e menti maschili, come se quei popoli fondatori di città e
civiltà di cui le stesse donne (in misura quantitativamente molto maggiore di
quanto non facciano gli uomini, se pensiamo all’insegnamento scolastico)
continuano (ironicamente?) a studiare e a far studiare, ad amare e far amare
l’eredità di pensiero, di monumenti e di leggi, i costumi, la lingua, la
letteratura, gli insegnamenti, le idee e le vicende storiche e persino gli dèi,
fossero stati composti di altri che di uomini! Non amo la retorica, ma la mia
capacità di sopportazione della propaganda femminista ha raggiunto ormai il
limite estremo. Non desidererei lanciarmi in dichiarazione che, fuori contesto,
potrebbero davvero apparire “maschiliste”, ma il livello raggiunto dal
martellamento mediatico avverso necessita ben di una compensazione!
Se
non si può cambiare la struttura naturale nella quale spetta sempre e solo ai
maschi il dovere della cosiddetta conquista (dalle fiere che devono con certa
fatica ed incerto successo inseguire la femmina fuggente chi sa dove, agli
usignoli che devono continuamente spandere armonia fino a morire di languore,
dai pavoni che devono diffondere la bellezza colorata dalle loro ruota per
sperare di essere notati dall’amata ai cervi che devono riservare ogni forza ed
ogni abilità nell’incornarsi fra loro per cogliere l’unica opportunità di essere
premiati amorosamente), né la sua conseguenza sociale (per la quale, in certi
locali notturni, laddove i ragazzi devono pagare e passare una selezione, le
coetanee entrano gratis fra grandi sorrisi, ed in ogni luogo e tempo della vita
qualunque fanciulla, avente una sia pur lontana simiglianza con qualcosa in
grado di suscitare un sia pur minimo palpito di desiderio, è circondata da un
corteo di amici-ammiratori pronti a tutto per un sorriso, da una corte di
cavalieri serventi disposti a dare tutto in pensieri parole e opere per la sola
speranza, da una fila di mendicanti d’amore in perenne attesa della sportula da
colei da un cui sì e da un cui no dipendono il paradiso o l’inferno), allora
non devono essere cambiate neppure le naturalmente ed umanamente conseguenti
compensazioni sociali, (per le quali, nella realtà del lavoro, in certe
posizioni non vi è parità uomo-donna, e, nella rappresentazione dello sport, il
campione famoso ed apprezzato per capacità e coraggio è attorniato di fanciulle
sfolgoranti primieramente per la bellezza)!
Ad
una mia amica che sosteneva le pene amorose dover comunque essere sopportate
dai maschi in quanto naturali, io auguro che, essendo naturale pure il mal di
denti, le venga estratto un molare malato senza la “innaturale” anestesia! La
perfidia femminile di queste argomentazioni (è naturale, quindi sopportabile) è
evidente dalla constatazione che “l’umano consorzio”, per dirla alla Leopardi,
dovrebbe avere quale precipuo fine proprio il tutelare gli individui dal
“duolo” che “spontaneo sorge” e, più in generale, permettergli di appagare i
bisogni naturali con quante meno difficoltà possibili fra quelle altrimenti
postegli contro dalla “Natura Matrigna”. Naturale sarebbe anche lasciare morire
i fanciulli più deboli e gli adulti malati “per selezione”. Civile è invece
proteggere quelli e curare questi. In natura chi non sa procurarsi il cibo
muore di fame. Nel mondo civile, chi svolge il proprio ruolo in società può
comprare il cibo con il proprio lavoro. Ecco perché anche il bisogno naturale
di bellezza e piacere dei sensi deve, se necessario, poter essere appagato a
pagamento. Chi vorrebbe vietare la prostituzione e lasciare il corteggiamento
(che, sia detto di passaggio, è prostituzione psichica dell’uomo con ricompensa
incerta) come unica possibilità, è ridicolo come chi volesse costringere gli
affamati a sedurre una fornaia per potersi sfamare (anziché aprire il
portafoglio e comprare il pane con civile accordo). Riconoscere e non reprimere
i desideri naturali non deve implicare sottomettersi a disagi, fatiche e
privazioni evitabili grazie alla civiltà storica, né tantomeno ai capricci
della “dama di turno”. Chi vuole giustificare la naturale preminenza femminile
nella sfera psico-sessuale con ragionamenti del tipo “peggio per i maschi se
sono naturalmente svantaggiati in quel campo”, dovrebbe essere messa a tacere
con repliche del tenore “allora peggio per voi se siete più deboli fisicamente
e chiunque può abusare di voi”. Come c’è la cavalleria per tutelare le donne da
chi volesse usare violenza per strappare favori senza consenso, così deve
esistere un opposto-complementare accordo per permettere ai maschi più deboli e
bisognosi nella sfera psico-sessuale di non essere maltrattabili con perfidia o
“tiranneggiabili per fame” in quel campo. Ecco perché la propaganda del
femminismo maistream, il quale mira a rendere invivibile la vita agli uomini,
mette tutto ciò (dalla prostituzione adulta e consenziente agli “stereotipi di
genere” che producono “disuguaglianze sul lavoro”) nel calderone del termine
“discriminazione”. Il nome infamante serve a non far riflettere sulla cosa in
sé (chè, altrimenti, se ne vedrebbero l’umanità e l’equità).
Non
mi stupisce l’insistente menzogna femminista del voler far apparire come
risultato di una discriminazione “maschilista” l’effetto di un privilegio
naturale femminile, facendo perfidamente apparire in colpa quegli stessi uomini
che fin da fanciulli, proprio per non subirlo, hanno iniziato ad avviarsi
all’eccellenza nello studio meritandosi una superiore posizione lavorativa (da
cui bilanciare con cultura, denaro e potere l’arma della bellezza muliebre).
Quello
che non finisce mai di stupirmi è la stupidità di una così gran parte degli
uomini moderni (ivi compresi, non l’avrei mai detto, insospettabili giornalisti
di Autosprint) del permettere alle femmine contemporanee di mantenere la
propria posizione di naturale preminenza nelle sfere dell’amore sessuale, dei
rapporti sentimentali, delle scelte riproduttive, nello stesso periodo in cui
reclamano pari diritti e pari rappresentanza in tutte quelle sfere (dall’arte
alla politica, dal lavoro allo sport) che sono state nei secoli costruite
dall’uomo proprio per bilanciare tale preminenza.
6. CONTESTAZIONI PUNTO PER PUNTO ALLE MENZOGNE
BOLDRINIANE DI GIORGIO TERRUZZI
Ora
che, come vogliono le regole della campagna elettorale, le differenti visioni
del mondo (che prendono qui il posto
degli schieramenti politici) si sono chiarite e dichiarate, si può procedere
alla contestazione punto per punto delle argomentazioni del Teruzzi.
Quando
Giorgio Teruzzi parla di corse maschilista, deve riflettere sul fatto che:
1)
Forse la preponderanza di maschi fra spettatori, piloti ed ingegneri dipende
semplicemente dal fatto che tutti noi, prima ancora di nascere, eravamo
naturalmente “corridori” (spermatozoi) e che, se siamo nati, è perché “quella
volta” abbiamo vinto (e voler la miss all’arrivo ad accogliere il pilota con un
bacio è un rivivere quell’archetipo di vita-vittoria); si chiama natura, non
maschilismo;
2)
Forse, anche, molti ragazzi dedicano l’anima all’automobilismo, e, se non hanno
la fortuna e i soldi per correre, passano i w/e guardando gare e le notti
sognando auto, proprio perché, nella vita sociale con le coetanee, sono
trattati con malcelata sufficienza quando non aperto disprezzo da fanciulle di
bellezza quasi mai alta ma di comportamento sempre altezzoso (le quali così si
possono atteggiare solo e soltanto per la penuria tipicamente italiana di vera
bellezza femminile e la dote tipicamente italica di tirarsela vedendosi
circondate di tanti maschi focosamente amanti di ogni minima parvenza di
beltà), non avendo ancora doti e strumenti per ribaltare i rapporti di forza
contrattuale o per cercare altrove altre e meno finte bellezze, si rifugiano nelle
auto per comprensibile momentanea disperazione (ed in tal caso, le bellezze
siderali svettanti in griglia hanno il positivo effetto di mostrare alle
melanzane quanto veramente siano distanti dal modello di beltà dei cui
privilegi iniquamente abusano e di indurle a riconsiderare le loro pretese); si
chiama stronzaggine femminile, non maschilismo;
3) Se
anche il mondo dei motori apparisse davvero così maschilista nella sostanza dei
rapporti fra i generi e nel colpo d’occhio sulla griglia, al giudizio del politicamente
corretto femminil-femminista, perché dovremmo voler correggerci? Essendo
maschile la maggioranza degli appassionati, dei praticanti, e dei protagonisti
tanto tecnici per sportivi, perché dovremmo lasciar decidere alle donne, ultime
arrivate con già pretese di dettar legge? E addirittura lasciare decidere non
alle addette ai lavori (come le stesse grid girls), non alle pilotesse (come
Susie Stoddard che terrebbe le grid girls), ma a donne di lobbies che magari
non guardano neanche i gran premi? In democrazia decide la maggioranza. E anche
negli stati non-democratici, decide la casta dei fondatori e dei guardiani, non
la “gente nova” dai “subiti guadagni” di dantesca memoria. Ci permettiamo forse
noi di cambiare le regole dei gruppi femministi che per discutere escludono gli
uomini? Chiediamo forse noi appassionati di cambiare qualcosa nel grigiore
delle riunioni politicamente corrette cui le donne partecipano? A me certi
ambienti non piacciono e quindi cerco di starne alla larga. Si chiama scelta personale.
Se alle donne non piace il mondo dei motori perché maschilista, possono
benissimo non guardare i gran premi. Sarebbe una perdita numericamente molto
meno rilevante di quella dei ragazzi che magari iniziano a guardare le griglia
per le grid girls. Quindi lasciare le grid girls è razionalismo democratico,
non maschilismo;
Quando
Giorgio Teruzzi parla di violenza, si deve ricordare che:
1)
I cosiddetti “grandi numeri” della violenza
nascono da “sondaggi” nei quali alla voce “violenza” viene conteggiata
qualunque risposta positiva a domande del genere “ha mai alzato la voce?“, “ha mai mostrato
disprezzo per le tue opinioni?”, “ti ha mai rifiutato qualcosa”, o “ti ha mai
criticata”, cui qualunque persona non abbia vissuto soltanto nella cella di un
commento potrebbe dire “sì” pur senza avendo subito nulla di oggettivamente
violento dall'altro sesso. Se le stesse domande e gli stessi criteri di
definizione lasca, arbitraria ed unilaterale di violenza (senza peraltro alcun
obbligo di riscontro o possibilità per la controparte di ribattere) fossero
concessi anche agli uomini, si scoprirebbe che, magari non due uomini su tre,
ma proprio tre su tre hanno subito violenza fisica o psicologica dalle donne.
2)
Parlando di fatti decisamente più gravi e
dimostrabili, non vi è alcuna “emergenza femminicidio”. I dati basati sulla
realtà non registrano da decenni alcun aumento delle uccisioni di donne da
parte di uomini. I giornali ne parlano solo perché, da qualche anno, c'è la
volontà di vedere ogni singolo caso come parte di un intento “collettivo”
maschile di “genocidio”. Certo, umanamente, anche un caso soltanto è
"troppo". Lo stesso però potrebbe essere detto di ogni omicidio,
anzi, di ogni reato. Gli omicidi sono sempre "troppi", ma se da anni
sono assestati su un minimo statisticamente "fisiologico" (343,
l’anno scorso, su milioni di abitanti), non si può gridare all'allarme
sicurezza solo perchè non sono ridotti a zero. Lo stesso dicasi per i furti.
Parlare di "escalation" quando i dati non si discostano dallo storico
serve solo a creare insicurezza a fini politici. Tutti ci auguriamo che nessuno
ruba o uccida. Nessuno giustifica il furto o l'omicidio in alcun modo, nè ne
sminuisce la gravità. Il fatto però che, nonostante questo, furto ed omicidio
non siano spariti del tutto “in anni e anni di parole”, non autorizza nessuno a
sostenere che gli Italiani "abbiano una sospetta complicità con i
ladri" o "siano portatori di una cultura in parte omicida".
Questo sarebbe, ancora una volta, lo schema di ragionamento "medievale"
che punta a far sentire in colpa le persone "collettivamente" (per
l'inevitabile "peccato" che segna il genere umano) in modo da far poi
loro accettare qualunque sopruso e qualunque assurdità come
"redenzione". E l'ultimo femminismo, Boldrini in testa, sta facendo
proprio questo contro gli uomini. Utilizzando alcuni episodi di cronaca nera
come "paradigmatici" (quando, numeri alla mano, sono l'eccezione, non
la regola), si sta montando una campagna diffamatoria contro il genere
maschile, tentando di giustificare con essa futuri provvedimenti contrari al
diritto ed alla ragione (come, ad esempio, con la scusa di "proteggere
prima le vittime", dare a qualunque donna il potere di mandare in galera
qualunque uomo con la sola parola dell'accusa, anche prima ed anche senza
riscontri oggettivi e testimonianze terze della presunta "violenza",
come già avviene in certi caso nell'anglosfera) e per far accettare in toto,
senza possibilità di replica, riflessione e dibattimento, la “narrazione
femminista” di cui si è discusso nei capitoli precedenti (chi non è d'accordo
con essa è tacciato di maschilismo, di complicità con i violenti, di collusione
con la "cultura della violenza").
3)
Il fatto che il cosiddetto femminicidio sia una
montatura non vuol dire che reati contro le donne non esistano, ma
semplicemente che sono spesso la spia non di una particolare
"malvagità" maschile, bensì di una umana incapacità di tollerare la
perfidia femminea unita all'oppressione femminista. Si usa spesso snocciolare
cifre di omicidi e degli omicidi/suicidi per passione. Le cifre non sono
bilanciate. Si riporta il marito che (magari prima di vedersi costretto a
vivere privato degli affetti e dei beni, della casa, delle ricchezze e dei
figliuoli, e dunque delle ragioni e dei mezzi per vivere) uccide la moglie, ma
non si riporta il ragazzo che, caduto nella trappola amorosa della
"dama" di turno, si impicca per disperazione sentimentale. La
violenza è nel mondo, e per ovvi motivi gli uomini tendono ad usare quella
fisica, le donne quella psicologica, ma non è scontato quale delle due sia più
grave. Dipende dai casi. Inoltre non ci si può stupire se con l’inganno si
genera quasi la follia nell’animo altrui e le reazioni sono inconsulte. Non vi
è infatti il diritto di molestare nel sesso il prossimo con la menzogna o la
falsa illusione (sia essa fisica o psicologica), né per gli uomini né per le
donne. Se ammettete l'irrazionalità nel comportamento umano dovete ammetterla
in amendue i sessi, non solo dove vi fa comodo. Fra uno che spara e una che
suscita ad arte la disperazione per indurre al suicidio non trovo differenza.
Distinguerei poi i delitti fra fidanzati e amanti, il cui movente è solo
passionale puramente, da quelli fra coniugi, in cui subentrano molti altri
fattori, quali la necessità di sopravvivere economicamente, di non farsi
defraudare degli averi e dei figli, di doversi ricostruire una vita, di veder
distrutto tutto quello per cui si era lavorato e sofferto (la famiglia, i beni,
la casa ecc., l'avvenire sereno in famiglia, la vecchiaia consolatrice ecc.).
Nel primo caso, spesso, il tutto è accompagnato sovente dal suicidio (per cui è
il classico esempio di ciò che si dice "omicidio altruista"): si
tratta di una dimostrazione di quanto detto da Nietzsche: "le donne sembrano
sentimentali, gli uomini invece lo sono. Gli uomini sembrano crudeli, le donne
invece lo sono". Se noi uomini fossimo davvero crudeli di una
superficialità da rieducare, come vuole il femminismo, non potremmo essere
portati alla disperazione da motivi sentimentali. Nessuno ucciderebbe o si
suiciderebbe se considerasse l'amore come puro divertimento sessuale e la donna
un mero “oggetto di desiderio”, come siamo accusati di fare. Se davvero spesso
gli uomini non possono rassegnarsi alla perdita dell'amata (come non vi si sono
rassegnati i poeti da Tibullo a Petrarca) è invece solo e soltanto perché
quanto per le donne, alla fine, è solo un mezzo per ottenere apprezzamenti,
appagamenti di vanità, sicurezza per la prole, bella vita per sè, regali,
mantenimenti o anche solo momenti psicologicamente piacevoli, per gli uomini è
davvero, parafrasando il Tasso, "vita de la loro vita", un'essenza e
un senso vitale senza i quali la vita stessa perde significato e al di là dei
quali resta solo la possibilità di uccidere o essere uccisi. Se solo gli
omicidi commessi per mano maschile fossero maggiori di quelli compiuti da
donne, allora si potrebbe (volendo rimanere ciechi alle motivazioni di chi di
fatto viene in occidente dalle donne vampirizzato con beneficio di legge)
ancora ammettere per ipotesi la tesi della "violenza maschile".
Poichè invece, parallelamente, anche i suicidi amorosi sono maggiori da parte
degli uomini, allora si deve concludere in favore della mia tesi. E far passare
per maggiore malvagità quanto è invece maggiore e più profonda sentimentalità
significa avere nel cuore non il chiaro di luna, bensì il NERO DI SEPPIA. Nel
secondo caso, invece, il tema amoroso non è sempre quello scatenante. Come
detto, vi sono altri elementi decisivi. Lo vedo quasi come un distruggere pria
di essere distrutti, una sorta di "muoia Sansone con tutti i filistei (le
filistee?)". Spesso si tratta di una lotta per la sopravvivenza, di una
vendetta per non subire la distruzione della propria famiglia, della propria
identità, della propria vita, della propria dignità, del proprio onore. La vita
dell'uomo separato è troppo spesso simile a quella dell'esule: senza famiglia,
privato degli averi, della casa, dei mezzi di spostamento, spesso inviso
all'ambiente sociale, lontano dai figli, vaga in cerca di una nuova vita, di un
tetto e di un lavoro (anche umile o faticoso) che gli permetta di pagare i
debiti (magari un mutuo contratto per la casa ora non più sua) e gli alimenti.
Vi è chi prende tutto con dignità e con filosofia e con entusiasmo ricomincia
daccapo (anzi, da meno quello che deve pagare della vita precedente), e chi
invece concepisce tutto questo come un'insanabile ingiustizia (perché, se i
sessi sono pari, i figli e la casa finiscono sempre alla donna, e la colpa
quasi sempre a lui? Perché i capricci e le difficoltà psicologiche della donna
sono sempre giustificate, con frasi del genere "è insoddisfatta della vita
di coppia, della noia casalinga o del doppio lavoro ecc., del disinteresse del
marito, si sente oppressa, soffocata ecc." e quelle dell'uomo, come le
scappatelle, no?) alla quale si ribella nel solo modo possibile (una volta che
la legge e la società gli sono contro): quello del tirannicida alfieriano (o,
se vogliamo, del terrorista). Poichè però si tratta di migliaia di casi su
milioni di cittadini e di cittadine, e che, per dirla chiaramente, anche
ammettendo la percentuale di “stronze” attorno ad un prudenziale dieci
percento, resta infinitesima la probabilità anche per la più stronza fra le
stronze di venire uccisa, violentata, o anche solo picchiata per vendetta, è
un'impostura parlare di “violenza maschile contro le donne” e tanto più di “femminicidio”.
4)
il numero delle donne uccise è minore di quello
degli uomini che muoiono sul lavoro (e quindi per il profitto di una società
che continua, come in un non troppo lontano passato in cui le donne venivano
esentate, per esempio, dal servizio militare, a considerare quello maschile
come “sesso sacrificabile”) o assassinati (da altri uomini e non da donne,
certo, ma comunque all’interno di episodi criminali nei quali rimangono
invischiati con probabilità maggiore dell’altro sesso proprio perché, al
contrario, come spiegato più volte, delle donne, non hanno modo di ottenere
ruolo sociale e considerazione amorosa se non raggiungono una certa posizione e
un certo guadagno: e quando le condizioni oggettive o le capacità soggettive
non permettono di ottenere tali obiettivi legalmente, non restano alternative
all’accettazione del rischio insito nelle attività malavitose).
5)
Il numero di donne che subiscono violenza dagli
uomini è un infinitesimo di ordine superiore rispetto a quello degli uomini la
cui vita può essere distrutta in qualunque momento dalle donne. Non sono le
donne potenzialmente meno assassine degli uomini, lo sono (per forza di cose)
in maniera diversa: possono (per tutti i motivi variabili dall’irragionevolezza
momentanea all'interesse economico-sentimentale, dal rancore generalizzato al
patologico bisogno di sentirsi vittime, dalla vendetta arbitraria al gratuito
sfoggio di preminenza sociale) distruggere (materialmente, moralmente,
socialmente, economicamente, giudiziariamente, psicologicamente o anche
fisicamente) la vita di chi vogliono (fino ucciderlo o a renderlo un morto
vivente) senza doversi esporre in prima persona, ma semplicemente inducendo un
altro uomo ad uccidere per loro o (sfruttando a fini personali le leggi a senso
unico su aborto, divorzio e violenza sessuale) inducendo l'intera società ad
essere l'esecutrice della volontà di assassinare socialmente la vittima
designata. La vita di un uomo preso di mira da “stalking giudiziario”
femminista può divenire simile a quella dell'esule ottocentesco, privato di
famiglia, casa, roba, depredato di ogni avere, allontanato dai figli e dagli
affetti materiali e morali, derubato di ogni possibilità materiale e morale di
rifarsi una vita e di ogni residua speranza di felicità, a volte pure della
libertà e della salute con accuse false o strumentalmente esagarate ad arte
(conducenti alla galera preventiva grazie a stupidità cavalleresca e demagogia
femminista applicate alla giurisprudenza, per la quale si può finire in galera
sulla sola parola di una donna anche prima e anche senza riscontri oggettivi e
testimonianze terze della presunta "violenza"). Ho visto tante situazioni in cui i mariti
vengono bersagliati dalle ex-mogli in ogni modo umanamente immaginabile, vivono
quasi peggio dell'esule ottocentesco (alcuni dormono davvero in macchina perché
non riescono a pagare l'affitto, tanti svolgono lavori faticosi con straordinari
impossibili per pagare alimenti impossibili, tanti cambiano lavoro e città) e
devono subire umiliazioni (pubbliche e private) di ogni sorta (dagli schiaffi
ai quali non possono replicare per non essere accusati di violenza, alla
calunnia con amici e tribunali), accuse false e infamanti (di default quella di
violenza, spesso accompagnate da altre invenzioni più fantasiose riguardo ad
abitudini sessuali, comportamenti e fatti privati in famiglia), falsità e
malignità (mettere i figli contro e sparlare con i conoscenti dando al marito
la colpa di tutto), soprusi ed angherie, pignoramenti improvvisi e
ingiustificati, veri e propri espropri (di auto e di case), e il tutto in
maniera perfettamente legale e protetta dalla mentalità femminista e dalla
società galante, che persino un uomo mite e pacifico come me (una volta ferito
nell'intimo e in quello che doveva essere un aspetto di dolcezza) potrebbe
trasformarsi in un efferato killer.
6)
le presunte "violenze" potrebbero
essere non arbitrari e unilaterali strumenti di oppressione di un carnefice su
una vittima, ma mezzi di offesa/difesa all'interno di un rapporto conflittuale
in cui ciascuno, per interesse, tirannia ed ottenimento della preminenza, usa
(con poche remore, regole e limitazioni) le armi che ha, e in cui l'uso magari
da parte della donna della violenza psicologica al posto di quella fisica non
dimostra maggiore bontà bensì maggiore perfidia, non denota un essere vittima
ma un diverso modo di essere carnefice. Se si parla di violenza verbale o
psicologica, le donne (al contrario di quanto accade nello scontro fisico) non
hanno certo per natura meno armi, anzi (le disparità di desideri nell'amore
sessuale e quelle psicologiche, legate alla predisposizione all'esser madri, e
quindi a manipolare anime pur mo' nate, le permetterebbero di sfruttare
dipendenze erotiche e affettive e a fine di tirannia, ricatto, prepotenza,
vanità), e per legge e costumi hanno la possibilità del vittimismo e della
violenza della legge (o di quella da agire per interposta persona: vedi
mandanti di varia natura, non ultima quella che aizza i figli contro il padre),
quindi non ha senso considerarle meno violente a priori (come implica , anche
perchè, come mostrano certe statistiche di cui non si parla, con i bambini, più
deboli, lo sono spesso anche fisicamente (e statisticamente più degli uomini) e
soprattutto l'esperienza quotidiana mostra che ad alzare la voce e a criticare
il partner in pubblico o anche a tirare oggetti e ad alzare le mani per prime
(confidando in cavalleria, o timore della legge, e colpo a tradimento o
scorretto) le donne superano spesso gli uomini;
7)
Specie all'interno di legami sentimentali
degenerati in litigi, contese e ripicche, le testimonianze possono essere
completamente inventate o esagerate ad arte (per capriccio, vendetta, ricatto,
interesse di risarcimento o gratuita volontà di distruzione della vita
dell'altro). Già così si rischia sulla sola parola della donna, anche prima e
anche senza riscontri oggettivi e testimonianze terze della presunta violenza,
di essere allontanati dalla casa, dai figli e costretti a sostenere i rischi e
i costi di un processo per violenza (per non dire per pedofilia su false
accuse), e se l'ex trova un'amica pronta a testimoniare (di aver visto anche
solo uno schiaffo), pure di essere arrestati prima del processo. Vorreste forse
tu e i tuoi amichetti femministi filo-boldriniani, la “legge integrale” spagnola,
per cui si può addirittura finire in galera come criminali, privati di ogni
bene, di ogni libertà, di ogni rispettabilità sociale e di ogni speranza
materiale e morale di ricostruirsi una vita, non solo senza prove ma pure senza
processo?
Quando
Giorgio Teruzzi parla di molestie, deve tenere presente che:
1) i
“casi che non cessano di emergere” nascono semplicemente dall’ultima moda delle
attrici di Hollywood un po’ stagionate e un po’ bisognose di soldi, notorietà e
vendetta, di accusare ex-post chi a suo tempo ha concesso loro una corsia
preferenziale di carriera in cambio di favori particolari, facendo passare per
abuso quanto è stato a suo tempo un do ut des (di cui oggi, riscosse tutti i
vantaggi in fama e guadagni, fingono di pentirsi riscoprendo una “dignità” che
rima piuttosto con menzogna, ipocrisia, caccia alle streghe);
2)
per quanto molesto o insistente sia un approccio, sarà sempre meno molesto e
meno pressante della condizione stessa di chi è obbligato a farsi avanti alla
cieca (senza sapere cosa e come sarà gradito, dovendo scervellarsi per divinare
quale eventuale dote o aspetto di sé debba far emergere dal primo contatto, e
implorare il cielo per avere una minima occasione di rendere sensibili quelle
proprie sfumature di sentimento o intelletto con cui essere potenzialmente, se
non apprezzato, almeno distinto dalla massa degli altri pretendenti
giornalieri, con il rischio invece di essere irriso, posto in ridicolo,
trattato come uno fra i tanti, un banale scocciatore, o addirittura additato ed
accusato di “molestare”) e della consapevolezza di doverlo fare sempre, ovunque
e comunque (legge dei grandi numeri) per avere una non infinitesima speranza di
riuscita (provando tutte le volte l’illusione e la delusione);
3)
non si può accettare che possa a posteriori, e su arbitraria e soggettiva
definizione demandata alla “sensibilità” della presunta vittima, essere classificato
fra le “molestie” qualunque sguardo, detto, atto o toccata non abbia altra
colpa se non manifestare (in maniera vagamente poetica o decisamente prosaica,
in modo psicologicamente raffinato o fisicamente semplice, con modalità
aristocraticamente letteraria o volgarmente schietta, l’interesse dell’uomo per
il corpo della donna e magari comunicare (più o meno consciamente, più o meno
ironicamente, più o meno direttamente), specie se da parte delle donne si
continua, in massa, a pretendere comunque che sia sempre e solo l’uomo a fare
la prima mossa (già è problematico vincere l’irrazionale timidezza del farsi
avanti, già è faticoso dover inventarsi dal nulla un tentativo non velleitario,
già è difficile superare il razionale pessimismo del calcolo delle probabilità,
che, se anche solo il primo tentativo è a rischio di denuncia, allora tanto
vale davvero dedicarsi solo alle puttane) e considerando che (per insondabili
motivi di interesse –aumento del proprio valore economico-sentimentale per via
del numero degli ammiratori - o di gratuita vanità – godere delle pene e delle
incertezze altrui) raramente esse si degnano di non essere ambigue, ma anzi
sovente usano il diniego o il forse per testare l’effettivo interesse dell’uomo
e costringerlo a soffrire ed offrire sempre di più in ogni termina materiale e
morale (esse si sbaglia intendendo un no per un sì mascherato da contrasto
madonna-messere di Cielo d’Alcamo, si rischia la denuncia, ma se si sbaglia in
senso in verso, prendendo per no vero un diniego momentaneo posto ad arte, si
ha la sicurezza di essere disprezzati come “non abbastanza pazienti” e “pavidi
nel corteggiamento”);
Quando
Giorgio Teruzzi parla di battute sessiste e offensive, dovrebbe vedere anche
che:
1)
anche la più volgare delle battute a sfondo sessuale, contiene un fondo di
complimento, se non altro nel fatto stesso di denunciare un sincero, profondo
ed istintivo desiderio naturale per le grazie della donne che la volgarità
certo abbruttisce e a volte nasconde, ma sicuramente non cancella; al
contrario, quando battute femminile volgono a farci apparire “sfigati”, e
quando respingimenti alle nostra advances sono effettuati con studiata perfidia
di corpo e d’anima, plateale
2) le
donne non si scusano mai, ma continuano a ridere quando, seguendo la moda della
televisione e del cinema, e di certa pubblicità denigratoria antimaschile (che
nessuna Boldrini si è mai preoccupata di censurare) si permettono su di noi
battute del genere “voi uomini siete lenti” (per noi appassionati di velocità,
offesa sanguinosa ben oltre il suo valore di pregiudizio di genere sul nostro
modo di pensare e di vivere) o “ormai non servite più a niente” – e sono
battute dette con intento; di conseguenza io, se per caso offendessi qualcuna
con una battuta osè o sessista senza volerlo, non sentirei certo il dovere di
scusarmi;
3) la
principale forma di molestia-violenza femminile ai nostri danni, di cui non
solo le donne non si scusano mai, da di cui anzi rivendicano il diritto ad
esercitare, ovvero il “fare la stronza” (ossia suscitare ad arte il disio solo
per compiacersi della sua negazione e di come questa, resa massimamente
beffarda, dolorosa e umiliante da una studiata e raffinata perfidia, possa
gettare nell'inferno della delusione dopo le promesse del paradiso della
concessione; attirare direttamente o indirettamente chi non si è affatto
interessate a conoscere bensì soltanto a respingere, deridere intimamente o
pubblicamente facendolo sentire uno fra i tanti, un banale scocciatore;
mostrare le proprie forme fra vesti discinte solo per porsi su un piedistallo
di irraggiungibilità, per generare frustrazione negli astanti, per farli
sentire nullità di fronte ad una bellezza non compensabile, per maltrattarli se
tentano un qualunque approccio; usare sguardi, movenze, e svestimenti per
indurre a farsi avanti chi si vuole soltanto disprezzare, rendere ridicolo a se
stesso e agli altri, ferire nell'intimo e irridere nel disio in maniera
traumatica e indelebile, trattare da molesto e far sentire privo di qualità
come uno straccio da gettare; sfruttare le debolezze erotico-sentimentali per
infliggere dolore fisico e mentale, per provocare disagi da sessuali ad
esistenziali, per realizzare sbranamento economico-sentimentali o comunque
psicologici; usare insomma l'arma della bellezza per ingannare, irridere,
ferire, umiliare, come e peggio di quanto un bullo farebbe della forza fisica
verso un ragazzo più debole) è ormai nell'occidente femminista divenuto comune
tanto sui luoghi di lavoro quanto in quelli di divertimento, tanto nei rapporti
più fugaci e occasionali quanto in quelli più lunghi e sentimentali. Qui quale
simbolica iniziativa culturale o sportiva possiamo intraprendere per educare le
nuove donne a non “stronzeggiare” così? Minacciamo loro di togliere George
Clooney dai teleschermi?
Quando
Giorgio Teruzzi parla di “figli da educare”, dovrebbe assolutamente tener
presente che:
1)
Chi ha oggi un figlio maschio, non può augurarsi che Quella sottospecie di
stato di natura rappresentato dall'età scolare (nella quale, mentre sulle
coetanee già fiorisce la bellezza, ai maschi non è ancora data la possibilità
di conseguire e mostrare doti con cui essere parimenti disiati amorosamente,
accettati socialmente, ammirati immediatamente e quindi, in attesa delle
ricchezze e dei poteri cui aspireranno con merito o fortuna da adulti, vivono
“giorni orrendi in così verde etade” se non troppo stupidi per capire la
situazione dietro il velo di maya dell'amore pseudouniversale predicato dalle
insegnanti) duri a vita, con delle presunte insegnanti in diritto di dirgli
sempre cosa è bene e cosa è male dall'alto di una presunta superiorità morale o
di una presunta maggiore maturità e delle belle fanciulle in potere di
irriderlo (nel pubblico o nel privato), ferirlo (nella psiche, nel sentimento, nel
disio) o tiranneggiarlo (nell'erotismo o nella vita) grazie a una
desiderabilità non compensabile. Leopardi ha scritto verità immortali ed
incancellabili su come si comportano le “melanzane”, soprattutto verso chi ha
intelligenza e sensibilità. E' evidente da come l'hanno trattato. E poi si
lamentano di chi diventa (o si finge) stupidi e insensibili! C'è sì da agire su
ragazzi e ragazze, ma non nel senso auspicato dal femminismo e propagandato da
Hollywood e Liberty Media.
2)
Hanno un effetto devastante sulla psiche e l’autostima dei giovani maschi
quelle pubblicità “glamour” nelle quali la figura dell’uomo, denudata anche
fisicamente, è ridotta a quella di un pupazzo da sollevare nell’illusione e
gettare nella delusione con il massimo dell’umiliazione e del dolore possibili,
addirittura (vedi quella della Breil di qualche anno fa) da gettare, ad
esempio, da un’auto in corsa (a differenza delle tanto vituperate pubblicità
“degradanti” per la donna rappresentata come un’oca bella, nelle quali comunque
rimane al sesso femminile il privilegio dell’apprezzamento per la bellezza e
del desiderio della fisicità, qui il nudo è veramente umiliante proprio perché
non ha valenza erotica e al sesso maschile non resta nulla per ricevere un
minimo di stima, di interesse, di ragion d’essere: solo disprezzo, rancore,
inganni e perfidia), nonché tutta quella cultura tanto “ufficiale” quanto
“informale” la quale, a volte con interpretazioni giornalistiche estemporanee
di notizie originariamente scientifiche (vedi gli studi sul cervello presunto
“multitasking”), a volte con dati parziali (si dice che le ragazze sono
mediamente più brave a scuola, ma non si fa menzione del dato sulla varianza –
la maggior varianza fra i maschi fa sì che fra noi ci sia sì il maggior numero
di somari, ma pure il maggior numero di menti eccellenti – verità che è costata
il posto, qualche anno fa, al rettore di Harvard) a volte proprio partendo dal
nulla (tipo “le donne sono rock”), non perde mai occasione per mostrare le
donne “superiori” in tutto (anche perché, laddove si mostrano invece superiori
gli uomini, interviene il femminismo più politically correct a parlare di
discriminazioni).
3)
Ormai le metastasi del politicamente corretto sono penetrate tanto in
profondità nell’istruzione che anche in corsi a livello universitario, con la
scusa di parlare in Inglese, si ascoltano “istruttivi e divertenti programmi
comici” dell’anglosfera in cui le due principali battute vorrebber non troppo
ironicamente convincere che (contrapposta a quella piena, raffinata complessa e
bla bla bla della donna) la mente dell’uomo sia una scatola vuota (come se, dal
vuoto di questa vita umana (data, guarda caso, dalle donne), non fossero stati
proprio gli uomini a creare le principali consolazioni dell’esser nati: l’arte,
la matematica, le religioni spirituali, e, non ultime, da ormai più di un
secolo a questa parte, le automobili da corsa) e un futuro progredito debba
possa soltanto essere a guida femminile (come se, nella realtà storica, non
fossero stati al contrario i popoli patriarcali – la Grecia Omerica, la Roma
Repubblicana, l’India Vedica, la Persia Iranica, la Germania Sacra e Imperiale
- secondo quei principi etico-spirituali virili, aristocratici e guerrieri, di
cui riecheggiano l’Iliade, l’Eneide, la Baghavad Gita, i poemi persiani l’Edda,
il Beowulf, a segnare, in fasi, luoghi e tempi diversi, il passaggio dal tutto
indifferenziato di un’umanità una-e-primordiale – egalitaria, matriarcale e
senza classi- alle strutture, alle gerarchie ed alle identità propriamente
storiche - senza le quali nulla, di quanto, nel bene e nel male, rende unica la
nostra specie, avrebbe mai potuto esistere, senza le quali nulla di quanto
siamo, come popoli e nazioni, avrebbe potuto differenziarsi, senza le quali la
storia stessa non avrebbe avuto nulla di diverso dalla zoologia - ad ordinare,
insomma, il chaos in kosmos e a prevalere sistematicamente, in ogni scontro di
civiltà, sui popoli matriarcali, non solo con le armi, ma anche e soprattutto
con la maggiore coesione sociale e la più decisa volontà di destino, petto alla
quale, sia detto per inciso, gli strumenti della cultura e della tecnologia
sono sempre agiti e giammai agiscono, come accade invece con noi, uomini
moderni dalla piccola politica e dalla debole volontà, che ci lasciamo cambiare
– ma dovrei dire degenerare antropologicamente - senza consapevolezza né
controllo da facebook e dallo smartphone, altro che “evoluti”!).
0. INTRODUZIONE
Un
giornalista sportivo dovrebbe, intelligentemente, limitarsi a dissertare dello
sport di cui è appassionato ed esperto, evitando di intraprendere discussioni
su storia, filosofia, politica e costume, perché, in primis, fa perdere tempo
al lettore su argomenti diversi da quelli per cui è stato acquistato il
giornale, in secundis rischia di indispettirlo propinandogli, sotto l’aurea
etichetta “informazione”, una certa visione del mondo a cui ogni libero pensatore
ha tutto il diritto di non aderire ed infine rischia, proprio su quest’ultimo
aspetto, di essere platealmente confutato dai lettori, i quali non sono tutti
superficiali scolaretti cui si può insegnare come “verità” (e pure col tono
della ramanzina) una narrazione del tutto arbitraria pur se, ahimè, oggi
universalmente diffusa presso i media mainstream (leggasi: controllati da certi
ambienti vicini alla finanza da sempre senza patria ma oggi con sede in USA).
1. LA PEGGIOR MITOLOGIA PROGRESSISTA FA BRECCIA
IN QUELLO CHE FU UN GIORNALE DA CORSA
La
mitologia del “progresso storico” (che non va affatto confuso, come si tende a
fare da due secoli, con il fatto del progresso scientifico, sviluppatosi,
semmai, “nonostante”, e non “grazie a”, il primo), quale è riuscito a
sopravvivere alle smentite tanto della grande storia (abbiamo visto tutti dove
hanno condotto le utopie del “sol dell’avvenire”) quanto della piccola
attualità quotidiana (ove tutto si può dire delle donne tranne che siano le “creature
svantaggiate ed oppresse” quale emergerebbe dalla grande menzogna femminista di
cui la presidente della Camera è solo l’ultima strillante, piagnucolosa,
“coccodrillesca” epigona), si fonda sull’assunto hegeliano secondo il quale
tempo della storia sarebbe una linea retta sulla quale le varie “figure dello
spirito” sarebbero fatalmente destinata a muoversi “a senso unico”, secondo un
“inevitabile” sviluppo “fenomenologico”, verso un altrettanto inevitabile “fine
ultimo”.
Nella
visione del mondo che sento come mia (in parte ispirata dal principale
“allievo” di Schopenhauer: Friedrich Nietzsche), invece, il tempo della storia
è sferico, e in ogni momento l’uomo può decidere se proseguire tornando sempre
sullo stesso punto o virare cambiando direzione ed esplorando nuovi spazi. E la
“decisione” (spesso nemmanco consapevole) non è determinata da nulla di
“teleologico” (per chi sa cosa significhi: finalistico, stabilito dalla
pre-scienza divina), ma è puramente casuale (come casuale, ah Epicuro, è il
mondo) e dipende, di volta in volta, dal risultato dello scontrarsi o del
congiungersi di diverse forze puramente umane e puramente storiche.
Ne
consegue che per me non c’è nessuno “sviluppo storico”, nessuna sedicente
“evoluzione umana” da seguire “necessariamente”. Specie se si tratta di
convincermi a cancellare, dannare e condannare la parte più intima e vera di me
(che, Nietzsche docet, è sempre sicuro e ben radicato istinto, mai
“superficiale” e “fallace” “ragione”).
Quando
parla di “evoluzione autentica”, Giorgio Teruzzi dimentica la grande lezione
nietzscheana secondo la quale l’autenticità non può risedere nella cosiddetta
“Ragione”, intesa come i(la quale, per il semplice fatto di prendere uno
sviluppo lineare e logico in qualcosa di intimamente circolare, anzi labirintico,
e necessariamente ricco di contraddizioni, come il pensiero e l’animo umani, ha
sempre un fondo di mistificazione e tradimento, ben sintetizzato nel motto
“ogni parola scritta è una menzogna”), né, più in generale, in costruzioni
culturali, ideali o ideologiche (le quali, tanto più pretendono di dare ordine
al mondo e senso alla vita, tanto più mistificano l’uno e tradiscono l’ altra),
bensì in sani, profondi ed infallibili istinti.
Anche
il termine stesso di “evoluzione”, se vuole avere un significato non
mistificatorio, deve ricondursi agli “antichi” istinti (i quali dalla nascita
della vita permettono a questa, specie per specie, di mantenersi, diffondersi,
selezionarsi, perpetuarsi ed accrescersi), piuttosto che alle “moderne” facoltà
umane (sedicenti “superiori”, ma in realtà, proprio perché più recenti nella
scala temporale dell’evoluzione, ancora fallibilissime).
Sebbene
certe “teorie gender” (esse sì, antiscientifiche, in quanto negatrici della
dimostrabilissima distinzione biologica fra i sessi) vogliano far credere il
contrario, il naturale desiderio dell’uomo per il corpo della donna è natura,
non cultura. Anzi, è una delle poche variabili umane a non poter mutare per
contratto sociale, uno dei pochi esempi di “valore umano universale” (ovvero accumunante
i popoli più diversi alle più diverse latitudini). E’ quanto di più profondo e
vero (o vogliamo dire “autentico”?) esista al mondo. Proprio il sorgere del
pensiero “con una così chissà cosa farei”, di cui Teruzzi “ci” (o “si”?) accusa
come di una deviazione o di una colpa, ha tutta naturalità di un fiore che
sboccia pei campi, di una cascata che irrompe alla calura, dell’avvento della
primavera o (se vogliamo citare Oscar Wilde per non essere tacciati di
omofobia) del “riflesso sull’onda lucente del mare notturno di quella
conchiglia d’argento che chiamiamo luna”.
Per questo pretendere da tutti noi di “non sentirsi autorizzati, alla vista di
una bella donna, a pensare che, con una così, chissà cosa farei” significa
voler far sentire in colpa l’uomo non per quello poi che fa o che dice, ma per
quello che prima (mosso dal più profondo ed autentico dei propri desideri),
pensa e sogna, ovvero per quello che è. Poiché nessun uomo potrà evitare, prima
di tutto e a prescindere da tutto, di desiderare una creatura come la “grid
girl”, appena il suo sorriso, rosso di promesse e di misteri, la sua figura,
alta e statuaria come la perfezione di una divinità, le sue chiome al vento e
tutte quelle grazie che, come direbbe Dante, “è bello tacere”, si fanno sensibili
agli occhi, e poiché sempre, nel suo pensiero, parlerà per primo il desiderio
(se tale primato non fosse “natura”, nessun maschio di nessuna specie si
muoverebbe per primo, con tutti i disagi, le fatiche e i rischi, a volte
mortali, conseguenti) e con esso la fantasia (senza la quale l’umanità non
conoscerebbe la Poesia), la “mancata autorizzazione” a pensare “cosa farei” ha
il solo scopo di farlo sentire in colpa per quello che è intimamente (e non
potrà mai cessare di essere finché non accetterà di mentire a se stesso, di
farsi altro da sé, di essere “inautentico”) e la sola conseguenza di rendergli
alla lunga insopportabili o se stesso (con ovvie conseguenze autodistruttive su
vita, psiche e autostima) o le stesse donne (rispetto alle quali sarà separato
da una muraglia di ipocrisie, di sensi di colpa, di inibizioni, di
comprensibili rancori nei confronti di coloro che lo vogliono dannare, punire o
comunque disprezzare solo perché, nel modo più immediato, intenso e sincero, le
sta apprezzando e proprio perché le sta apprezzando, senza avere ancora modo di
farsi parimenti apprezzare, altro che “emancipazione condivisa”!).
Che
la prima conseguenza, a parole, sia una battuta volgare piuttosto che un
sonetto petrarchesco, e che eventuali successive conseguenze, nei fatti,
portino a tentare un abuso piuttosto che ad offrire gentilmente qualcosa che la
controparte ha la libertà di accettare o rifiutare, con cui si calcola di
“bilanciare” la bellezza (tramite, magari, ciò verso cui quella donna è mossa da
bisogno, desiderio, apprezzamento e brama pari a quanto da noi provato per le
sue grazie) è cosa, questa sì, dipendente dalla cultura, dal gusto,
dall’intelligenza e dal “progresso mentale” dei singoli uomini. Non è decisa in
partenza dal dannato e condannato “pensare con quella lì cosa farei”.
Supporre
a priori che capiti sempre la prima delle alternative elencate è, questo sì, un
pregiudizio di genere (antimaschile). Ed utilizzarlo per convincerci a
reprimere persino nel pensiero e nella fantasia il nostro desiderio naturale,
come vuole fare il femminismo mainstream è, prima ancora che impossibile,
totalmente inaccettabile e sbagliato. Difatti:
1.
L’immediatezza e l’intensità con cui il
desiderio dei sensi sorge in noi non appena le grazie ch’è bello tacere si
fanno sensibili danno ad esso l’insopprimibilità di un bisogno, e come tale,
non può essere cancellato da “mancata autorizzazione” né tantomeno da giudizi
morali negativi;
2.
Se anche si volessero utilizzare giudizi morali,
non essendo una nostra scelta quella di essere soggetti a mirare, disiare,
seguire e cercare di ottenere la bellezza nella vastità multiforme delle
creature femminine non appena queste mostrano le loro grazie, non può nemmeno
essere ascritta come nostra colpa (noi ne subiamo, semmai le conseguenze, e,
come proverò di descrivere qualche capitolo più avanti, cerchiamo di
bilanciarle al meglio delle nostre umane, troppo umane, possibilità);
3.
Tale bisogno di bellezza, tale disio dei sensi,
non riduce, di per sé, la figura della donna ad oggetto (come correttamente
rilevato dalla “grid girl” Veronica qualche pagina dopo su Autosprint, laddove
una ragazza manifesta un consenso, non si può parlare di “mercificazione”,
perché solo un soggetto, e giammai una merce, può esprimere consenso), ma, semmai,
la eleva a fine dell’agire dell’uomo (essere oggetti di desiderio pone le donne
sul piedistallo della bellezza, da cui, peraltro, come avrò modo di evidenziare
in seguito, dimostrano di aver ben poca voglia di scendere);
4.
La questione della “donna-oggetto” è
un’impostura anche solo da un punto di vista puramente grammaticale, poiché
qualunque azione implica un soggetto ed un complemento oggetto. Se vogliono
interagire fra loro, uomini e donne devono accettare di alternarsi fra l’essere
soggetti e oggetti gli uni delle altre: non mi pare che, l’alternanza
sfavorisca la donna. L’essere oggetto di desiderio al primo contatto visivo è
proprio quanto permette (anticipo qui: troppo spesso e troppo unilateralmente)
alla donna di essere soggetto della scelta, nelle successive eventuali fasi del
rapporto. Mi pare quindi che certe donne (belle) si stiano lamentando di un
privilegio, mentre altre (men belle) stiano utilizzando il giudizio morale come
espressione di invidia e rancore, o - il sospetto è sempre più forte - come
ultima arma disperata per costringerci (con la condanna morale e – tutte le
volte in cui è possibile - anche penale, del nostro desiderio di bellezza) a
corteggiarle controvoglia, a dare cioè ad esse tutto quanto, di materiale o
sentimentale, vorremmo invece riservare alle “giovin donne e belle” (che ci
attraggono naturalmente e che esse vorrebbero far sparire dal nostro raggio
visivo e d’azione);
5.
Quasi tutto quello che di bello e di sublime
esiste al mondo, tutti quei sogni soavi, quelle incantate parvenze che,
condensate in immagini e suoni attraverso la parola e il verso, il mondo chiama
poesia, è sorto dalla fantasia di uomini fecondati da quel “pensiero” che,
secondo Teruzzi, “non può essere pensato”, anzi, sono proprio la sublimazione
artistica del “con una così che cosa farei”. Ad altro non pensò Guinicelli,
quando, effondendo le rime del “Dolce Stilnovo ch'i'odo” incipiò l'autentica
poesia italica, ad altro non sospirò Petrarca, quando creò con suoni e i ritmi
l'atmosfera pura e rarefatta dei suoi immortali sonetti, forgiando lo stile
perfetto senza uguali nel mondo, ad altro non mirava Boccaccio, quando,
narrando le storie che restituirono l'Italia alla religione delle Lettere e
della Bellezza, riportò nella nascente prosa italiana quello stile ampio ed
armonioso proprio del grande eloquio Latino e degno del nome di
Concinnitas. Ne fossero coscienti o
meno, ne fossero socialmente o intellettualmente liberi o meno, anche quando
hanno parlato di altro, anche quando hanno creduto di vedere nella donna solo
un’immagine simbolica di idee eteree e divine, hanno in realtà parlato di lei,
hanno scritto ciò che il desiderio per lei, magari nascosto, magari inibito da
ideologie e religioni, ha ispirato (per dirla ancora con Nietzsche: “in un uomo
d’intelletto, il grado e la specie della sua sessualità si elevano fino ai
vertici del suo spirito”).
E’
no, caro Terruzzi, no che non sono disposto a “rinunciarmi a sentire
autorizzato, alla vista di una bella donna, a pensare chissà con una così cosa
farei”. Non sono disposto né a rinunciare al mio desiderio ed alla sua
espressione più schietta, né ad accettare che esso, con le fantasie ed i
pensieri conseguenti, sia una colpa! Non ne condivido i motivi, non posso
accettarne le conseguenze, non vedo alcun diritto altrui ad impormelo.
“Cosa
faremmo?”, “Con una così chissà cosa faremmo”? Intendi forse: “allungare le
mani”, “abusare”, “trattare come un essere subordinato”? Perché non comporre un immortale inno,
compiere un’impresa cavalleresca, offrire doni, ori e bella vita per avere una
speranza di essere a nostra volta apprezzati?
Anche
l’associazione maschile=maschilista denota il totalitarismo femminil-femminista
interiorizzato da “gente moderna” come Teruzzi. Un tempo si distinguevano i due
aggettivi. Maschile era (e, tanto legittimamente quando orgogliosamente, deve
continuare ad essere) l’amare e disiare la bella donna al primo sguardo (a
prescindere ad altre eventuali virtù che pure vi possono essere ma, per essere
apprezzate, necessitano di tempi, modi e conoscenze approfondite), come si fa
con una poesia, la cui immediata fulgente bellezza si fa sensibile (agli occhi
dell’anima prima che a quelli della mente, alle corde dell’inconscio prima che
al vaglio della ragione) al primo risuonare delle parole, anche senza
parafrasi, analisi del testo, contestualizzazioni.
Maschilista
è sempre stato (e sempre deve rimanere) soltanto l’atteggiamento di chi
considera la donna un essere inferiore, di chi vorrebbe tenerla sottomessa, di
chi ritiene proprio diritto addirittura allungare le mani, o di chi comunque
pensa che basti raccontare due cretinate, fare due battute di dubbia ironia e
certa volgarità, per costringere qualunque donna a concedersi.
Un
gentiluomo, proprio perché non la considera inferiore, non la desidera
sottomessa, non la ritiene stupida, e non prende nemmeno in considerazione
l’idea di usarle violenza, sa di dover offrire alla donna di cui sta disiando
la bellezza qualcosa di altrettanto intersoggettivamente valido ed
immediatamente apprezzabile, sa di dover fare qualcosa per non trovarsi per
tutta la vita a “fare all’amore col telescopio”.
Ben
sapendo di essere, nel migliore dei casi, come la prosa del Boccaccio, ampia ed
armoniosa, e quindi necessitante di tempo e spazio per esplicarsi, e di non
risultare agli occhi dell’amata come un verso nemmeno se fosse bello come un
“grid boy”, sa di dover offrire un valido motivo per far desiderare ed
accettare alla donna un incontro solus ad solam in cui avere almeno l’occasione
di rendere sensibili quelle doti di sentimento e intelletto, di apprezzamento
soggettivo ed arbitrario, che non possono essere visibili al primo sguardo, ma
si esprimono soltanto nei dialoghi non banali, nella condivisione di
suggestioni letterarie o filosofiche, nel flusso bidirezionale di “colloqui,
sogni e taciti pensieri”, attraverso la scelta dei vocaboli, la modulazione
della voce, il tempo dato al corteggiamento, che non possono rendersi sensibili
nei fugaci incontri della vita moderna, ma senza le quali non si potrà mai
sperare di essere scelti o accettati in qualunque tipo di rapporto intimo.
Gli
idealisti continuano a pensare che il “valido motivo” per suscitare un primo
interesse nella donna possa ancora essere il “cor gentil” cui “rempaira sempre
amore”, e sperano sempre di potersi procurare occasioni di incontro accostando
alla bellezza corporale e mortale della donna quella non corporale e non
mortale della poesia eternatrice con cui, secondo il mito rivelato dal Foscolo
nell’Ode all’Amica Risanata, Diana, Bellona e Venere da donne mortali sarebbero
divenute dee pel canto dei poeti e con cui in generale, le fanciulle disiate
come quella raffigurata sull’Urna Greca della lirica di Keats, da fanciulle
terrene soggette alla corruzione del tempo e della morte, potrebbero restare,
al pari delle stelle e delle nature siderali, eternamente uguali a sé,
eternamente belle (“she cannot fade, though thou hast not thy bliss,/ for ever
wilt thou love, and she be fair!”).
I
pragmatici ritengono al contrario che un motivo valido in questo “superbo e
sciocco” universo consumista e turbocapitalista, cui i concetti di sacro e di
eterno sono totalmente estranei, e in cui anche arte e letteratura sono puro
commercio, non possa escludere l’offerta o perlomeno la tacita promessa (tramite
magari l’ostentazione “social”) di regali costosi, viaggi da sogno, tenore di
vita superiore a quello attuale della ragazza, quando non (con tutti i casi
intermedi), denaro o altre utilità economiche, promesse di carriera o comunque
possibilità di entrare (magare anche solo nei weekend) in un mondo “esclusivo”
e “cool”.
Nessuno
dei due casi è maschilismo. Sempre che non si voglia includere tale parola
qualunque dissenso dalla narrazione femminista attuale.
Vedo,
infatti, che queste distinzioni sono divenute desuete. Il desiderio
propriamente maschile è tacciato di per sé di maschilismo. Di conseguenza si
considerano già a priori le fantasia ed i pensieri del desiderio come
“molestie” e i tentativi non velleitari della ragione di realizzare il
desiderio stesso come “violenza”. Allora non ci si può più sorprendere di alcun
“grande numero” sulle “violenze” o le “molestie”. Con tali onnicomprensive
definizioni, possono essere trovati tutti gli interi da zero ad infinito. Ed
ogni uomo è accusabile in quanto tale.
Con
il condannare il pensiero, con il pretendere che anche un pensiero possa essere
illecito, con il sottoporre il pensiero stesso ad una necessità di
autorizzazione, tu stai confermando il mio giudizio sul femminismo attuale che
degenera in totalitarismo, sulla “tutela della donna” (volutamente minuscola
qui) che scivola nella corsa allo “psicoreato”.
2. LA STORIA NON E’ UN TRACCIATO E IL SUO
TEMPO NON E’ LINEARE
A
Carlo Vanzini, che, per rendere meno amara la “medicina” del divieto di “grid
girls” prescritta dall’articolo di Terruzzi, inizia l’articolo successivo con
la scontata immagine del “pilota che deve guardare solo in avanti”, si può ben
rispondere che la storia non è una pista. Una pista presuppone un progettista
che l’abbia voluta tale e quale è e dei costruttori che l’abbiano realizzata. A
meno di non voler supporre progetti ed interventi divini nella storia, quindi,
questa dovrebbe essere paragonata non già ad un tracciato, bensì ad uno spazio
aperto e condiviso, ad una piazza, insomma, dove auto, pedoni e ciclisti sono
liberi di circolare in ogni direzione. E se chi guida l’auto prende una
direzione che minaccia di investire una persona a me cara, io ho tutto il
diritto (e tutto il dovere), se non di fargli fare retromarcia (il termine
“indietro” piace poco ai moderni), almeno di farlo sterzare! Poichè la “cara
persona” di cui parlo altri non è (come ho tentato di spiegare al capitolo
precedente) se non l’uomo in quanto maschio mammifero senziente, in quanto
espressione vivente della volontà che la vita ha di propagarsi tramite il
desiderio subitaneo (opposto-complementare dell’impulso di selezione della vita
incarnato dall’attitudine femminile ad apparire belle e disiabili per scegliere
fra tutti chi eccelle nelle doti volute perché qualificanti la specie), in
quanto ragazzo mosso da una grande in quanto adolescente non ancora totalmente
corrotto dalla “ri-educazione” femminista, in quanto fanciullo ancora capace di
chiamare le cose con il loro nome e di essere mosso da ingenuo trasporto verso la
bellezza (non mediato dalle ideologie, non travisato dal “dover essere”), in
quanto poeta della grande passione (sia essa quella per le belle fanciulle, sia
essa quella per le auto da corsa) che non conosce censure, non accetta divieti
e non si vincola ad obblighi di giustificazioni razionali o utilitaristiche, in
quanto, insomma “appassionato”, ovvero siamo tutti noi, non posso certo far
finta di niente e guardare avanti consolandomi al pensiero di come sarà
divertente ed interessante la prossima stagione.
E’
vero che al centro del dibattito dovrebbero esservi i test invernali e le
ambizioni dei piloti, ma se davvero “ci sono cose più importanti di cui
occuparsi”, perché questo non è valso per Liberty Media? Perché hanno deciso di
agire così? E, soprattutto, perché dovremmo stare tutti zitti? Perché dovremmo
prendere per vera la “narrazione” femminista propinataci a tradimento (fino a
ieri, erano gli articoli ben più dotti e argomentati che richiamavano al legame
incancellabile fra Eros e Thanatos a tenere banco sulle pagine di Autosprint
difendendo la presenza delle “grid girls”) da Giorgio Terruzzi? Condita fra
l’altro di menzogne (sempre di origine femminista) che mi permetterò nei
capitoli successivi di smascherare una ad una!
Anche
l’abusata frase “il futuro è davanti a noi”, non argomenta alcunché. Se il
tempo della storia è sferico, il passato, lungi dall’essere qualcosa “da
consegnare agli archivi”, può invece, come insegna chiunque studi il mito,
fungere da meta e modello per il futuro. Senza scomodare gli studi di Dumezil
sui miti degli Indoeuropei (immagini di quello che eravamo in funzione di
quello che vogliamo diventare), e rimanendo alla Formula 1, non è forse vero
che tutti noi abbiamo come archetipo di “corsa” il GP di Francia del 1979 del duello
a suon di ruotate e tagli di tracciato (altro che le decisioni di Pirro e
compagnia!) fra Arnoux e Villeneuve e come archetipo di “qualifica” le gomme
larghe, gli alettoni grandi come tavole da pranzo e i 1000 cavalli dei turbo
anni 80 che si sfidavano per pochissimi, effimeri (e per questo poetici come
poetica è ogni “conquista dell’inutile”) giri della morte? Nessuno di noi vuole
“ripetere esattamente” le stesse gare e le stesse qualifiche. Altrimenti
basterebbe riguardarsi le registrazioni. Tutti o quasi, però, vorremmo
qualifiche e gare nuove, moderne, ma con lo stesso genere di agonismo
“vintage”. Non è forse vero che, come qualità archetipiche del pilota, molto
più della “professionalità” estremizzata e razionale di un Jackie Stewart e
della capacità “calcolatrice” di un Alain Prost, riconosciamo piuttosto la
“follia aviatoria” mai doma di Villeneuve, il sorriso bellissimo e malinconico
di Francois Cevert poche ore prima di morire a Mosport (“un uomo deve saper
scegliere fra sicurezza di annoiarsi ed il rischio di divertirsi”),
l’ossessione per la perfezione spinta a volte all’irrazionalità (vedi
Montecarlo 1988, dove dare un giro a Prost non sarebbe servito) di Ayrton
Senna? Questo non significa che vogliamo tutti corse pericolose esattamente
come quelle di trenta e passa anni fa, ma solo che le moderne corse sicure
riprendano da quelle la “irragionevolezza” agonistica, la tendenza a “osare
l’inosabile”, a “inventarsi l’impensabile”, la disposizione ad “amare ogni
pericolo” e a “credere ad ogni tentativo assurdo di sorpasso”, le quali sole
possono rendere un gran premio qualcosa di non simulabile a priori dai box o al
calcolatore in fabbrica.
Tutto
questo per dire che condannare una certa deriva “noiosa”, “standardizzata,
“sterilizzata”, “politicamente corretta” delle gare (come, del resto, della
vita), giustificata con sintagmi stereotipati quali “stare al passo coi tempi”
non significa “passatismo” e “immobilismo”. Significa solo volere un’evoluzione
storica diversa prendendo gli esempi giusti e non quelli sbagliati (considerati
“inevitabili” solo perché più recenti).
Che
l’uomo di oggi sia il “più progredito di sempre”, migliore, ad esempio,
dell’uomo del Rinascimento, è una tipica “idea moderna”, vale a dire un’idea
falsa (provare a paragonare le canzonette di Sanremo e le feste in discoteca di
oggi con le “Stanze per la giostra” alla corte medicea per credere all’istante,
se non basta il raggelante contrasto fra lo stereotipato – quello sì -
linguaggio, privo di aggettivi espressivi e ricco di emoticons, utilizzato dai
“millennials”, con la capacità di generare immagine e suoni dalle parole
propria di quei “ragazzi del Cinquecento” che per diletto imitavano Petrarca).
Il
fatto (ovviamente positivo, ben lungi da me parole come “neo-luddismo”,
“conservatorismo“, “de-crescita”) che l’uomo di oggi possa vantare mirabilie
tecnologiche ormai quasi da fantascienza (merito degli ingegneri moderni, non
dei moderni professori di lettere, filosofia, sociologia o scienze politiche, e
magari quegli ingegneri, come nel caso del sottoscritto, hanno preferito la
scienza alle lettere proprio per non doversi sorbire le continue menate
“progressiste” dei suddetti accademici al servizio del “senso storico”) non
cancella la piccolezza degli “ignoranti specializzati” prodotti dal sistema
made-in-usa di oggi rispetto al genio multidisciplinare di un Leonardo, né
compensa la grettezza del neo-moralismo femminista di cui stiamo parlando
rispetto alla libera morale di un Rinascimento in cui convivevano senza
contraddizione cortigiane e regine, poeti sensibili alla follia come il Tasso e
condottieri spietatamente grandiosi come Cesare Borgia, Cristianesimo e
Paganesimo, dotti profondissimi e poetesse sublimi come Gaspara Stampa.
Insomma,
se l’uomo rinascimentale era una Ferrari 250 GTO, una Ford GT40, una Porsche
917, noi non siamo certo la Ferrari Enzo, la Ford GT ultima versione, e neppure
una “semplice” Porsche 991 GT3 RS. Non siamo, cioè, l’evoluzione moderna di ciò
che un tempo fu rombante e glorioso. Siamo, invece, la rinuncia dell’uomo
moderno alla grandezza ed alla “passione”. Siamo, piuttosto, delle piccole
utilitarie coreane, degli ibridi in tutti i sensi delle costose ma svalutabili
SUV che come grandezza conoscono solo l’aumento degli ingombri, degli
elettrodomestici su quattro ruote il cui unico fine è andare da A a B senza
disconnettersi dai social, delle silenziose e pesanti berline che per
“accendere la passione” hanno bisogno di un impianto stereo che simuli
doppiette e borbottii allo scarico: falsi come una birra analcolica!
Non
c’è mai stato “uno schieramento per il progresso” ed uno “per la reazione”, un
tipo umano moderno contrapposto ad un tipo arcaico, come racconta la favola
progressista. Ci sono invece sempre stati nella storia schieramenti in lotta
fra loro, tipi umani diversi e inconciliabili che generavano storia proprio
scontrandosi. E chi emergeva appariva tautologicamente “più moderno” e “più
progredito”. Dopo la prima guerra mondiale, gli stati nazionali parevano agli
occhi dei “progressisti” più “moderni” degli imperi sovranazionali sconfitti,
che però, con il senno di poi, oggi sarebbero (per la capacità di unire grandi
spazi, di far convivere diversi popoli, di preservare differenti identità senza
appiattirle) assai più “adeguati ai tempi” in un periodo in cui ogni nazione è
necessariamente “troppo piccola” per le “sfide della globalizzazione”.
Anche
per quanto riguarda il tipo umano, non vi è nessun modello assoluto cui tendere
(espressioni come “uomini e donne progrediti” mi fanno sorridere): il termina
“progredito” è solo una temporanea lode per chi momentaneamente sembra
prevalere, a prescindere dall’effettiva raffinatezza dei propri “valori”
(d’altronde, quali valori potrebbe raccontare di avere l’attuale tipo umano
dominante, quello mercantile, anzi, speculatore, i cui unici criteri sono
l’utile e il tempo e per cui, ad esempio, in concetto di eternità non ha alcun
significato?). Anzi, se è vero, come ci ricordava Eraclito, che Polemos è padre
di tutte le cose, essere vivi significa proprio combattere per affermare quel
tipo umano di cui ci si sente rappresentanti, non accettare passivamente i
valori di tipologie umane inconciliabili con la nostra solo perché,
attualmente, hanno potere economico e culturale e quindi risonanza mediatica.
Se essere evoluto significa accettare la tirannia del femminismo e rinnegare la
mia natura, se essere moderno significa non poter appagare (anzi, non poter
neppure esprimere) il naturale bisogno di bellezza femminea (non poter avere le
grid-girls da guardare prima di un gran premio, non potersi rivolgere alla
sacerdotesse di Venere prostituta per evitare la prostituzione psichica del
corteggiamento, eccetera) e dover sottoporre ogni atto e pensiero della vita
(anzi, oggi pure ogni motto di spirito) a un giudizio politicamente corretto in
senso femminil-femminista, allora preferisco non evolvere. Essere uomini
significa a questo punto combattere perché sia cancellata dalla terra
l’associazione fra evoluzione e femminismo.
Nella
fattispecie delle grid-girls, io vedo semplicemente una lobby femminista, la
Women’s Sport Trust, che viene ascoltata da una lobby dello show-business,
Liberty Media, per compiacere un’altra lobby (quella di Hollywood) nel momento
del cosiddetto “caso Weinstein”, ovvero il “casus belli” utilizzato dalla
propaganda femminista mainstream per dare la caccia alle streghe ad ogni uomo
in quanto tale (in quanto “soggetto disiante” e “costretto a conquistare”, come
spiegherò meglio in seguito). Sul perché le lobbies finanziarie citate fin
dall’inizio abbiano interesse a propagandare tale visione del mondo non ho
ovviamente risposte precise (forse, semplicemente, per avere un mondo in cui
–altro che sindacati – si possa licenziare chiunque in qualunque momento con
un’accusa montata ad arte di molestie? Forse per distruggere, con la teoria del
gender, ogni identità naturale, in questo caso sessuale, degli individui,
regnando poi su una massa amorfa di individui senza più neanche l’istinto e con
bisogni solo consumistici? Forse per rendere impossibili i rapporti uomo-donna,
a iniziare dal primo corteggiamento, e ridurre così definitivamente - altro che
“piano Kalergi” – la natalità degli occidentali? Continuare nelle ipotesi
porterebbe fuori tema, e approfondirle senza prove scadrebbe nel complottismo).
Quello che posso rilevare senza tema di smentita è che:
·
tale propaganda è in atto ovunque, dalla scuola
alla televisione, dal cinema allo sport;
·
essa fa presa su molte donne (mano a mano che
statisticamente la popolazione femminile, più o meno felicemente, invecchia),
cui, una volta viste sfiorire le proprie grazie (ammesso e non concesso ne
abbiano mai effettivamente avute) non pare vero possedere uno strumento
“culturale” per tentare di cancellare dalla vista giovane e belle
rappresentanti dell’eterno femminino, gettando oltretutto colpe e discredito
sul genere maschile “reo” di guardare e desiderare (della serie: “come
l’invidia fra donne diventa moralismo contro gli uomini”, pare la riedizione
contemporanea di tutte quelle morali sorte per invidia, a cominciare da quella
“degli schiavi” denunciata da Nietzsche);
·
ora coinvolge pure (e non temo di essere
smentito) un giornalista di Autosprint che fino all’altro ieri credevo
indipendente e stimabile.
Cosa
ha spinto Teruzzi ad uscire dal seminato e a scrivere qualcosa che potrebbe
essere uscito dalla penna di Laura Boldrini? Una minaccia dall’alto
(compensazione per articoli precedenti troppo “filo-maschili” di colleghi?) o
una convinzione interna? Nel primo caso, sarebbe solo uno dei tanti
pennivendoli. Nel secondo, cadrebbe in una categoria simile a quella degli
esterofili fustigati da Dante, per il quale, chi parla male dell’identità cui
appartiene (in quel caso la patria fiorentina, in questo caso il “mondo delle
corse maschilista”) è mosso o da cechitade di discrezione (incapacità di
discernere il vero dal falso) o da cupidigia di vanagloria (ricerca di consenso
e apprezzamento da parte dell’altro, in questo caso delle tanto decantate ed
esaltate “Donne”, ironicamente con la maiuscola, dato l’abisso che separa certe
melanzane femminil-femministe, di cui la terza carica dello stato è degno
emblema istituzionale, da “Monna Vanna e Monna Lagia e Colei ch’è nel numer de
le Trenta”).
In
ogni caso, è dovere degli uomini liberi abbattere la tirannia, per cui anche
noi sportivi dobbiamo, nel nostro picciol mondo (chè sì picciol non è se ha
attirato le attenzioni delle lobbies), combatterla dialetticamente, se si serve
dell’hegelismo.
3. IL FEMMINISMO COME FORMA CONTEMPORANEA E
POLITICAMENTE CORRETTA DI TOTALITARISMO
Hegel
(cui, lo ricordiamo, il contemporaneo Schopenhauer, ben conscio di come la
realtà umana non sia fatta di figure dello spirito, ma di uomini e donne in
carne ed ossa, mossi innanzitutto da quella “volontà di vivere” da studiare
forse con la biologia piuttosto che non con le speculazioni idealiste,
scagliava le sue urla da sotto le finestre dell’università, indignato per come
la filosofia stesse barattando la verità in cambio della vanità accademica e
dell’ambizione politica) ha avuto fortuna al di là del proprio secolo “superbo
e sciocco”.
Per
tutto il Novecento, ha alimentato culturalmente quasi tutti i totalitarismi
(sicuramente, e con grande evidenza, il marxismo-leninismo, probabilmente,
anche se in maniera più indiretta e parziale, pure fascismo e nazismo) e
continua ancora oggi a fornire un’arma dialettica alle forme ultime del
totalitarismo: il politicamente corretto ed il femminismo mainstream. E’ ovvio,
infatti, che, se basta l’accusa di “essere contro il progresso” per
squalificare qualunque idea, qualunque posizione politica, qualunque stile di
vita, non si conformi a quanto è stato imposto con tale nome, non serve più
confutare le idee in un dibattito filosofico, prendere le decisioni
democraticamente, e convincere l’altro senza usare coercizione, ma si può
procedere con i metodi spicci del totalitarismo: messa a tacere del dissenso
(), imposizione dall’alto (e qui non faccio esempi in politica per non uscire
dal tema suscitando un vespaio, ma ce ne sarebbero assai…), divieti coercitivi
(). Il tutto vantando pure un “nobile fine”.
Il
Terruzzi, che ha usato questo modo di argomentare, dovrebbe ricordarsi che è
proprio di tutti i totalitarismi mangiarsi fette di libertà in nome di un
futuro bene superiore. Quanto mi spinge a definire l’ultimo femminismo come una
forma di totalitarismo è proprio la sua pretesa (comune a tutto quanto di
totalitario abbiamo conosciuto nel novecento) di cambiare antropologicamente
l’uomo, perché l’uomo quale è nella realtà effettuale, con le sue bassezze ed i
suoi slanci, le sue pulsioni e le sue idealità, i suoi vizi e le sue virtù,
sarebbe “sbagliato” di fronte ad una presunta “necessità storica superiore” di
cui il vostro giornalista pare voler convincere noi lettori. Non è difficile
vedere in questa pretesa totalitaria la “Hybris” di chi, proclamatosi laico, in
realtà si crede Dio: da quale cielo di purezza si può mai dire che la natura
terrestre dell’uomo, buona o cattiva che sia, sia “da rettificare”?
La
Chiesa ha fatto questo per secoli proprio per poter far sentire tutti in colpa
e tiranneggiarli con minacce ultraterrene (oltrechè con più terreni roghi). Un
certo femminismo (il quale, più che di donne, è fatto di interessi lobbistici),
se non ve ne siete accorti, sta facendo questo con l’uomo, con mezzi più
sottili, per lo stesso fine. Vuole che ogni uomo si senta in colpa (o
“sbagliato”) in ogni momento, per qualunque potenziale motivo, a prescindere da
qualunque effettiva intenzione o colpa, non per quello che fa, ma per quello
che è, ad esempio, perché è soggetto al desiderio della bellezza, all’impulso
dell’attrazione, alla necessità di agire per condurla a buon fine. Ad altro non
mira il considerare potenzialmente molestia un semplice sguardo (questo è
successo già dieci anni fa in quest’Italia definita “maschilista”, non nella
cultura liberticida ma coerente del burqua, ma nella stessa “cultura” in cui
resta “diritto”, per la donna, mostrare le grazie volute per il tempo che vuole
e nel modo che vuole, per capriccio, moda vanità, interesse
economico-sentimentale o gratuito sfoggio di preminenza erotica, per un bisogno
naturale, in fondo, non meno “animale” né più “raffinato o spirituale” del
nostro deprecato “guardare da porci”), potenzialmente “violenza” (o comunque
“costume di cui vergognarsi”) qualunque rapporto “do ut des” in cui la forza
contrattuale dell’uomo sia finalmente “non nulla” grazie a quanto, in cambio
degli agognati favori, può offrire alla donna
(sia esso l’accesso, tramite unione/fidanzamento/matrimonio, ad uno
stile di vita superiore, la promessa, tramite una posizione di prestigio/potere
nella società, di una facile carriera in un mondo all’apparenza dorato, o,
tramite il “sacro antichissimo culto di Venere prostituta”, soldi immediati e
facili).
Tutto
questo è “brutto costume da cancellare”? Beh, nella mia visione è l’unico
costume possibile, stando le cose quale esse sono nella biologia, posto che non
si voglia vivere perennemente infelici ed inappagati (nonché potenzialmente
tiranneggiabili, come tutti i bisognosi) nella sfera sessuale e da lì, tramite
i ben noti meccanismo della psicanalisi, in tutto.
E
anche se fosse “brutto”, perché dovrebbe essere vietato e dannato, se vi è, al
momento, consensualità fra adulti? Lo stato liberale regola a posteriori i
fenomeni sociali tenendo fermi i diritti fondamentali di ciascuno ed il
concreto bene pubblico, senza curarsi di giudicarli moralmente (altrimenti
sarebbe uno stato etico), mentre lo stato totalitario pretende invece di
indirizzarli secondo un presunto “bene superiore”.
Molto
significativo il fatto che (qui come in altri contesti) l’opinione delle
dirette interessate non sia stata ascoltata e, in nome della “figura della
donna” (sinistramente simile, come strumento di giustificazione di atti e
pensieri totalitari, ad una delle “figure dello spirito” di hegeliana memoria)
al posto delle ragazze della griglia in carne ed ossa, si siano lasciate
decidere persone estranee sorte a “tutela dei diritti e dell’immagine delle
donne”. Come se si dovesse tutelare un minore. Come se le grid-girls non
fossero ragazze maggiorenni e consenzienti. Tutto in nome della “lotta alla
violenza”. Ricordo solo un periodo storico in cui il discrimine fra violenza e
non-violenza prescindeva dal consenso della donna. Ed era il primo periodo
patriarcale, in cui avere un rapporto con la “propria donna” non era mai reato,
mentre averlo con quella di un altro lo era sempre, a prescindere dal fatto che
i rapporti fossero violenti o consensuali. Ora il femminismo sta tornando a
questo. Perfettamente in linea con quanto in ambito totalmente diverso (ma
avente in comune con la questione in oggetto il discorso sul corpo femminile,
sulla sessualità maschile e sull’immagine delle donne) si è fatto nei paesi
filo-femministi occidentali (vedi la Francia, culla europea del femminismo
“giacobino” che con mio disappunto vedo nel 2018 rientrare nel mondiale) sul
tema della prostituzione: resa reato per l’uomo a prescindere dalla condizione
di maggiore età e di libero arbitrio della donna disposta concedersi in un
rapporto occasionale (il che non significa, come vorrebbero le critiche
femministe ed i sessantottini, “privo di motivazione”, ma “liberamente deciso”
dentro quella sfera di autonomia che, in caso ad esempio di reato, non
priverebbe l’autore della responsabilità penale: quindi le motivazioni
economiche o di “immaturità giovanile” vi rientrano pienamente, non essendosi
mai visto che delinquere per bisogno o brama di soldi o per imitazione di
modelli sbagliati garantiscano l’impunità ad autori adulti di reati), senza per
nulla ascoltare le proteste delle associazioni di prostitute autodeterminate
(ma solo lobbies europee che, partendo da dati faziosamente interpretati e con
il concorso di “commissioni” epurate dai ricercatori scientificamente onesti
non disposti ad assoggettarsi a priori al dogma del “sono tutte schiave”,
stilano documenti da far approvare, senza alcun tipo non dico di democrazia
rappresentativa, ma almeno di effettiva discussione, ad un parlamento di
passacarte). Sempre con il solito ritornello “è una forma di violenza contro le
donne” (come se, appunto, la violenza non fosse determinata, come deve essere
in una concezione individualista e libertaria della sessualità, dalla mancanza
di consenso, ma dalla difformità del rapporto rispetto ad un “modello”
politicamente corretto).
E’
infinitamente scorretto scrivere “non voglio tirare in ballo la violenza sulle
donne” e poi implicitamente argomentare che le grid girls andrebbero abolite
perché soddisfano da un punto di vista visivo e “rappresentativo” gli stessi
desideri sessuali che, se pervertiti dall’eccesso e dalla violenza, conducono a
dei reati. Quando non più il singolo autore del reato viene ritenuto unico
responsabile, ma tutti i suoi simili vengono coinvolti in quanto
“corresponsabili di un certo modo di vedere la donna”, quando non più il reato
in sé viene perseguito, ma il primo desiderio da cui successivi sviluppi
potrebbero far sorgere il crimine, si passa dalla responsabilità individuale
(propria dello stato di diritto) a quella collettiva (caratterizzante la
“giustificazione” di tutte le persecuzioni novecentesche), dalla civiltà
giuridica alla distopia dello psicoreato (processo alle intenzioni).
E’
veramente aberrante che un giornalista (purtroppo Terruzzi non è il solo)
arrivi ad argomentare contro il bisogno maschile di bellezza sostenendo fra le
righe che tale visione del mondo (nel senso tedesco di Weltanshauung, oltre che
nel senso concreto di “bella visione di ragazze sulle schermo”) sia in qualche
maniera complice (o addirittura motore inconscio) di reati a sfondo sessuale.
Con questo schema si potrebbe arrivare a condannare qualunque idea sulla
politica, sul costume, sulla società, sulla vita, argomentando che “è
pericolosa per la sicurezza pubblica”. E questo è sempre stato la motivazione
con cui, dal terrore giacobino in poi, si sono giustificate tutte le tirannie
(la polizia segreta della Germania Est si chiamava significativamente
“Sicurezza di Stato”).
Ma
cosa hanno paura, che un pilota possa arrivare dall’abitacolo a toccar il culo
di una ragazza? Con il nuovo Halo non vi riuscirebbe neanche con braccia da
scimmia! Bisogna dare l’esempio alle nuove generazioni? Allora vogliono
semplicemente che un ragazzo percepisca come sbagliato e da correggere il fatto
stesso di essere attratto dalla bellezza femminile e quindi di soffermarvi lo
sguardo e di dirigervi le fole ad ogni occasione offerta da quel sogno chiamato
giovinezza.
E se
non bastasse tutto questo, si consideri cosa è scappato dalla penna di
Terruzzi, a proposito dell’educazione
dei giovani: “deve essere chiaro cosa può essere fatto e cosa non può essere
fatto, cosa può essere detto e cosa non può essere detto e, soprattutto,
pensato”. E’ arrivato a giustificare la limitazione non solo della libertà
personale (“non può essere fatto”, riferito non si sa bene a cosa, ma detto a
proposito della vicenda delle grid-girls nella quale non ci sono soprusi e
quindi reati, ma solo “rappresentazioni” che “non piacciono” a donne non
coinvolte), non solo della libertà di parola (“non può essere detto”, strano a
dirsi in un’Italia dove in altri ambiti, il “diritto di parola” di certi
giornalisti arriva spesso incontrastato ai limiti dell’insulto, della
diffamazione, della montatura ad arte), ma pure della facoltà di pensare con la
propria testa (“non può essere pensato”: una frase così categorica non ha
precedenti, se non da parte di Parmenide a proposito del “nulla che non può
essere” e quindi neanche “pensato”).
Ben
triste la fine del “fronte storico progressista”. Nato durante l’Illuminismo
con l’idea di introdurre il “pensiero critico”, è arrivato ora ad imporre il
“pensiero unico”. Basta tacciare un’idea dissonante di “essere contro la
storia” per cancellarla (assieme alle attitudini, ai comportamenti, persino
agli istinti naturali, ad essa associabili) come “non essere” senza neppure uno
straccio di argomentazione puntuale (ovvero non genericamente riconducibile ad
una vaga accusa di “complicità”, come fa Terruzzi a proposito del non meglio
precisato “maschilismo” delle corse). Fino a ieri, uno stato liberale di
diritto era razionale perchè, prima di vietare qualcosa, doveva dimostrare la
sua correlazione con un danno oggettivo, con responsabili ben individuabili e
vittime che fossero persone reali (non “figure dello spirito”). Oggi basta che
qualcuno (anzi, qualcuna), si “senta offesa come donna” (quindi, si badi bene,
non oggettivamente lesa nei diritti individuali, ma vagamente “dispiaciuta” da
una “rappresentazione” arbitrariamente definita “offensiva”, che però, nei
fatti, non la coinvolge) perché si arrivi al divieto, alla censura,
addirittura, come ho denunciato prima, allo “psico-reato”.
Altro
che “confronto democratico”! Eh noi, caro Terruzzi, qui, se, al di là della
retorica occidentale, siamo ancora in un “mondo libero”, io penso, parlo e
agisco. Lascia ai tuoi figli divieti, censure e, addirittura, controllo della
mente!
Non
sarei un libero pensatore se non accettassi che altri avessero visioni del
mondo diverse dalla mia. Quello che non posso ammettere è che una narrazione
che non condivido venga posta a motivazione di cambiamenti di leggi e costumi
cui vengo legalmente o socialmente costretto ad adeguarmi. Quello che non posso
accettare è che la narrazione femminista “mainstream” venga presentata come
progresso storico e che in nome di esso si arrivi a dannare e condannare (per
ora solo mediaticamente, ma gli sviluppi in ambito legale, lavorativo e
quotidiano potrebbero essere drammatici) il desiderio naturale mio e di
praticamente tutti i miei simili (nella “caccia alle streghe” innescata a
Hollywood si stanno perseguendo anche attori famosi omosessuali). Questa non è
più questione di differenti opinioni e divergenti visioni del mondo. Qui è
questione di dire la verità o mentire su una realtà biologica o, almeno,
etologica. Qui è questione di lasciare che una visione del mondo di parte (come
è necessariamente quella femminista) imponga a tutti la propria “narrazione”, i
propri costumi, la propria morale. Qui è questione di scegliere la dittatura
del politicamente corretto o la libertà del cosiddetto “maschilismo” (ovvero,
per esclusione ormai, dato che il termine è sempre più usato dalla propaganda
femminista a prescindere dal suo significato originale di
“svaluazione/oppressione” della donna, tutto quanto, semplicemente, non è
femminismo demagogico). Il desiderio di natura dell’uomo per il corpo della
donna è un fatto (nemmeno un costume, come pretenderebbero i banditori di una
sociologia basata sui fumi della propaganda di un certo pseudo-egalitarismo, ma
proprio un dato scientifico, come sa qualunque biologo e qualunque etologo).
“Costume”, anzi “malcostume” è proprio, invece, l’opinione morale femminista
secondo la quale equivarrebbe a “degradare la donna” (valutazione
extrascientifica). Il vecchio Bernie ha parlato di "eccesso di ipocrisia".
Io credo si debba parlare invece apertamente di eccesso di menzogna (se non
scientifica, almeno civile e morale).
Che
mirare e disiare la bellezza (in questo caso simboleggiata dall'eterno
femminino, la cui contemporanea espressione si incarna nelle cosiddette
"grid girls") equivalga a ridurre la donna ad un oggetto è una
menzogna aperta (significativamente sostenuta dalla più moderna forma di
manipolazione della realtà rappresentata dal femminismo demagogico e da tutti i
suoi servi, funzionali alla dittatura del "Pensiero Unico", vero e
proprio totalitarismo del corrente secolo segnato ormai in ogni campo della
vita dalla tirannide della finanza senza patria ma con sede in USA).
Essa
è infatti in contrasto non solo con le verità della Natura e della Poesia (il
disio naturale per il corpo della donna ha la stessa naturalità delle stelle
scorrenti del cielo, delle spiagge luminose del mare, dell'avvento della
primavera, della fiera che insegue la femmina nei boschi chi sa dove, e
dell'altre espressioni della "voluptas cinetica" cantata da Lucrezio
nel "de rerum natura" e risulta al contempo il motore immoto di ogni
creazione di immagini e suoni tramite la parola chiamata "Poesia", da
quando Jacopo da Lentini inventò la metrica perfetta del sonetto a quando il
Petrarca la colorò del suo stile puro e rarefatto senza eguali nel mondo, da
quando Dante, Guido e Lapo, scegliendo la bella donna quale immagine della
conoscenza divina, inondarono l'aria del "dolce stilnovo ch'i odo" a
quando D'Annunzio, godendo delle grazie di "dive" più moderne, mostrò
le estreme possibilità musicali e oniriche del verso, da quando il Poliziano,
organizzatore di feste per "Il Magnifico", riuscì a dipingere la
nostalgia per il paradiso terrestre, che ogni uomo è destinato con il crepuscolo
della giovinezza, tramite le sfumature di colore dell'erba verde che
"sotto i dolci passi, bianca, gialla vermiglia e azzurra fassi",a
quando il Tasso inumidì le Rime del più tenue, languido e caldo dei pianti:
"qual rugiada, qual pianto, qual lacrime eran quelle che sparger dal
notturno manto e dal candido volto delle stelle? Fur segni forse della tua
partita, vita de la mia vita?"), ma pure con l'esperienza di vita
quotidiana, poiché proprio l'essere poste sul piedistallo della bellezza
(generata sovente dall'illusione del nostro desiderio), permette alle donne
reali sia di costringere noi a fare sempre qualcosa per essere notati e
apprezzati (non solo in quella occidentale maschera di servitù imposta a tutti
gli uomini verso tutte le donne, chiamata corteggiamento, di cui tutto
l'Oriente ride come ne avrebbero riso i Greci, ma in tutte quelle situazioni
nelle quali una fanciulla, proprio perchè disiata nelle lunghe chiome, nel
claro viso, nelle forme suadenti ed in tutte le grazie "ch'è bello
tacere", con la rapidità del fulmine e l'intensità del tuono, si trova in
una situazione se non altro psicologica di vantaggio, e non di svantaggio, nei
confronti della controparte maschile, impossibilitata, a meno di non parlare di
personaggi ricchi e famosi, a compensare in desiderabilità e potere la bellezza
con doti parimenti apprezzabili ed immediatamente evidenti, e quindi
inevitabilmente sottoposta alla tensione di un esame e costretta a scervellarsi
per capire come parlare per compiacere e come agire per mostrare il meglio di
sè o quanto si suppone possa essere percepito come tale, per trovare un modo di
rendere evidenti ed apprezzate eventuali doti di sentimento o intelletto
potenzialmente gradite, per avere un'incerta speranza di "star di
paro" alla bella donna, il tutto mentre questa può rilassarsi, compiacersi
e scegliere se divertirsi "con" lui o "di" lui), sia di
tirarsela infinitamente (come può, in effetti, sempre permettersi un fine
rispetto ai mezzi per raggiungerlo: altro che "riduzione ad oggetto",
questa è "elevazione a fine" e le femministe riescono a lamentarsi
persino dei privilegi femminili!), poiché, anche senza essere “ombrelline”,
anche senza averne le grazie (ché quando esse mancano, supplisce, come in ogni
aspetto poetico della vita, l'illusione del disio), esse, in ogni modo (dal più
legittimamente personale al più gratuitamente vanaglorioso, quando non
studiatamente perfido), tempo (dal più fugace e casuale incontro al più lungo e
sentimentale rapporto) e luogo (dalle discoteche agli uffici), sfruttano
(sovente pure senza limiti, remore nè regole) il privilegio di essere
universalmente mirate, amorosamente disiate e socialmente accettate per la
"bellezza" (senza dover obbligatoriamente mostrare certe doti o
compiere particolari imprese, cui sono costretti invece i cavalieri, i quali
senza esse restano puro nulla socialmente trasparente e negletto dal sesso
opposto).
4. RETROPENSIERI “RETROGRADI” E “MASCHILISTI”?
NO, WELTANSCHAUUNG ALTERNATIVA!
Nel
mio sentimento della realtà (chè non vale meno di quello che le donne hanno la
pretesa di far valere anche in ambito legale), la donna non rappresenta né la
“povera oppressa” della narrazione femminista, né “l’animale inferiore”
dell’uguale ed opposta narrazione maschilista. Preferisco basarmi sulla realtà
biologica ed etologica, piuttosto che sui pregiudizi morali e sul sentito dire,
su quanto posso sperimentare dalla vita e dagli istinti, piuttosto che su
quanto mi viene “raccontato” come “storia” (da quando Giulio Cesare, parte in
causa, si è finto terza persona per scrivere il “De Bello Gallico”, storia e
fake news rischiano sempre di divenire sinonimi) e “insegnato” come “bene” e
“progresso” dalla sedicente “cultura” ufficiale.
La
donna gode del privilegio (di natura, e quindi di cultura) di ricevere il sorriso
degli astanti, il desiderio subitaneo ed incondizionato dell’altro sesso,
l’apprezzamento e l’accettazione di tutti al primo sguardo, per quello che è,
per la sua grazia, la sua leggiadria, la sua essenza mondana, in una parola per
la “bellezza” (anche quando essa manca, vi supplisce quasi sempre l’illusione
generata dal desiderio), senza bisogno di fare obbligatoriamente qualcosa, di
compiere particolari imprese (cui sono invece costretti i “cavalieri”), di
mostrare questa o quella dote nella speranza di “fare colpo” su qualcuno in
particolare o di emergere nella considerazione generale, proprio perché le è
stato assegnato il privilegiato e confortevole ruolo di “selezione della vita”
(ben simboleggiato dall’immagine dell’ovulo che può ben aspettare l’arrivo
dello spermatozoo più veloce e resistente fra tutti quelli attratti senza
bisogno di muoversi), senza il quale nessuna specie potrebbe preservarsi, ma
con il quale i desideri umani di libertà e felicità hanno un rapporto
necessariamente problematico.
All’uomo
è invece dato l’opposto-complementare, assai più ingrato e disagevole, ruolo di
“propagazione” della vita (disiare la bellezza con la rapidità del fulmine e
l’intensità del tuono, non appena questa si mostra nelle grazie ch’è bello
tacere, mirarla, seguirla e cercare di ottenerla in modo da permettere alla
controparte femminile di selezionare fra i tanti chi eccelle nelle doti volute
perché qualificanti la specie) e quindi, se vuole ottenere lo stesso sorriso
del mondo, la stessa desiderabilità amorosa, lo stesso apprezzamento dal sesso
opposto, la stessa accettazione sociale, deve COSTRUIRE socialmente il proprio
ruolo.
Se
non vi riesce, non solo rimarrà infelice e inappagato nella sfera sessuale,
costretto a confidare i propri teneri sensi alle leopardiane vaghe stelle
dell’orsa (poiché, anche se fosse fisicamente bello come un grid-boy, non
avrebbe mai e poi mai lo stesso “privilegio della bellezza” della controparte
femminile, non contentandosi questa punto della fisicità, ma pretendendo mille
altre doti, alcune delle quali soggettive, come quelle di sentimento o
intelletto non visibili al primo sguardo, e richiedenti tempi e modi
particolari per essere fatte sensibili, oltreché orecchie e menti predisposte
ad apprezzarle, e molte delle quali, oggettive, inscindibili da quanto fa
conseguire posizioni di primato o prestigio sociale), ma sarà pure socialmente
“apolide”, non potendo contare su quel modo proprio della donna di influire
sulle cose e sugli uomini tramite quanto in essi vi è di più profondo e
irrazionale, per mezzo di ruoli quali madre, confidente, amante che nessuna
società, per quanto misogina, potrà mai abolire e per effetto dei quali, come
ben notò persino Rousseau, l’effetto del loro sesso sul nostro è, per natura,
molto maggiore di quello inverso (almeno in assenza di compensazioni).
E
tutto questo non perché le donne siano più “cattive” (non lo sono,
statisticamente né più né meno degli uomini) o “più stronze” (non lo sono più
di quanto, a condizioni invertite, lo sarebbe la media degli uomini che può
approfittare di una debolezza altrui), ma perché, se non si ha nulla di
inter-soggettivamente valido ed immediatamente apprezzabile da offrire per
pareggiare la bellezza (o, ancora se vogliamo essere precisi, la sua “illusione
nascente dal nostro desiderio”), non si può aver alcuna realistica speranza,
nel mondo dei fatti (i rapporti “spirituali”, come quello fra San Francesco e
Santa Chiara, basati sulla fantomatica “gratuità”, esulano da questa
trattazione, trovandosi meglio in mezzo a dissertazioni su miti, leggende e
sogni infranti), di essere accettati, né come potenziali padri della futura
prole (ché anche in natura, senza una posizione sociale paterna elevata, non
potrà avere vita felice) né come occasionali compagni di godimento (ché, per
dirla con il Schopenhauer della “metafisica dell’amore sessuale”, non è la
mente, ma l’istinto a scegliere, per cui, anche quando una donna non è
interessata a procreare, sceglierà sempre e comunque con gli istintivi criteri
con cui lo farebbe una sua omologa di altra specie, alla faccia della mitologia
sessantottina del “sesso libero”).
Tutto
questo non è semplice “stereotipo” (magari lo fosse!) da abbattere con
l’educazione, la cultura, l’esempio. Esso si rileva, infatti, in ogni specie. I
desideri di natura non dipendono da un contratto sociale, sono invarianti per
“civiltà”, sono esenti dalla “evoluzione storica” (conoscono solo quella
naturale, ma il tempo fuori scala per l’effimero individuo). Non vale a nulla
cercare di “moralizzarlo”. In quanto natura, ciò è, per usare le parole di
Nietzsche, “grande e immorale per tutta l’eternità”
Dove
possono iniziare a subentrare gli stereotipi, le considerazioni morali, i buoni
propositi, è il momento in cui si pensa se e come bilanciare tutto ciò.
Ammetto
che in natura molte specie non hanno compensazioni e lasciano i maschi al loro
destino. E’ il caso delle api, dove i fuchi, costretti comunque a inseguire la
regina per sperare di riprodursi, sono uccisi da essa dopo l’accoppiamento se
vincono, o vengono lasciati morire di fame se perdono. E’ il caso anche degli
elefanti, dove, se questi sapessero poetare, ci racconterebbero di pene
peggiori di quelle dantesche, vissute continuamente nella continua frustrazione
del disio per via del branco matriarcale e nella solitudine dopo la cacciata.
Significativamente, donne particolarmente perfide e uomini completamente
stupidi giustificherebbero la trasposizione di tale preminenza femminile
nell’amore sessuale al mondo umano con la banale argomentazione che “in natura
funziona”. Meno perfidia femminile e meno stupidità maschile dovrebbero lasciar
comprendere la questione di fondo persa di vista da tale giustificazione: la
“natura matrigna” ha a cuore puramente la propagazione e la conservazione della
vita, mentre il mondo umano dovrebbe pure preoccuparsi della felicità e della
libertà degli individui (fini sconosciuti alla natura), o, almeno, della loro
possibilità di vivere “sopportabilmente” (il maggior grado di coscienza rende
nell’uomo intollerabili molti mali quotidianamente
“sopportati” da altri animali”). Anche senza tirare in ballo motivazioni
”comunitarie a anagogiche“ che richiamino alla capacità di “gettarsi nella
storia” da parte di popoli mitologicamente patrilineari (i quali sono prevalsi
su quelli, altrettanto mitologicamente, matrilineari, anche quando questi –
vedi lo scontro fra Romani ed Etruschi -
potevano vantare tecnologie più avanzate, denotando con ciò una superiore
coesione sociale, una superiore propensione a dare senso, valore e bellezza all’esistenza,
una migliore attitudine, cioè, ad usare la “visione spirituale” per ordinare la
società e fare delle invenzioni tecnologiche strumenti per salti di livello
qualitativo dell’umano) e che volentieri non tirerei in ballo, se la mia
controparte dialettica non allegasse ad ogni più sospinto la propria mitologia
“matriarcale” (giungendo, nei casi estremi di “nazifemminismo”, ad esaltare le
società “insectidi” e a parlare apertamente di “mondo senza maschi”), è, per
chi dà ancora un senso alla parola, una questione di “equità” (intesa non come
uguaglianza, ma come bilanciamento di poteri e scelte) fra consimili.
Anche
le prime società umane, di matrice matriarcale cara alle femministe,
probabilmente erano qualcosa di simile alle società di elefanti: ogni potere
materiale e morale era femminile, e in ogni momento il caro “compagno” poteva
essere “licenziato” senza possibilità di reintegrazione. Non sappiamo come
fosse lo stato degli uomini in quel periodo, ma a giudicare da quanto posso
ricordare del primo periodo scolare, ove in qualunque momento potevo essere
sgridato per qualunque motivo da donne, a cui spettava a capriccio la
definizione di bene e male e che se la potevano avere a male per ogni mia
battuta da fanciullo (e quindi ancora necessariamente innocente) non ho alcuna
curiosità di scoprirlo (né di sostenere la deriva di leggi e costumi per cui il
confine fra lecito e illecito viene sempre meno stabilito oggettivamente a
priori e lasciato invece soggettivamente al giudizio ex-post della presunta
vittima).
Tutto
cambia con il passaggio dalla preistoria alla storia (e questo dovrebbe far
riflettere i progressisti sostenitori dell’endiadi femminile=progresso). Tutte
le civiltà propriamente storiche ad oggi conosciute hanno studiato mezzi più o
meno efficaci, più o meno condivisibili, ma sempre percepiti come necessari
(anzi, in casi come quello romano addirittura fondamento di ogni diritto e di
ogni civiltà) per porre in mano virili non solo, retoricamente, la guida
“comunitaria” e “anagogica” (secondo il principio tradizionale, e quindi sempre
mitologico, della “vita spirituale ed ascendente data dal padre, cui si
accedeva spesso per prova e rito iniziatico da parte di una ristretta cerchia
di aristocratici”, percepita come “vera vita”, contrapposta “all’esistenza
puramente corporale e conservativa data dalla madre, e comune a tutti gli
uomini indistintamente, anche plebei” -
ovvio che tale concezione virile e guerriera non poteva non prediligere
il sesso che, già come spermatozoo, fa coincidere vita e vittoria), ma più
pragmaticamente, la possibilità di vivere liberi e felici.
Tutte
le mirabili strutture dell’arte come della religione, del pensiero come della
società, della politica come della storia, ingiustamente chiamate oppressione
dal femminismo, sono state edificate dai più forti e saggi fra gli uomini non
già per opprimere (non è l’obiettivo dei savi), ma per impedire a tutti gli
uomini di essere troppo oppressi a causa di quei 5/6 di imbecilli – la
percentuale è sempre di Schopenhauer - che in ogni tempo (anche oggi, vero
Terruzzi?) si lascerebbero in tutto e per tutto tiranneggiare dalle donne e di
avere anzi le stesse possibilità di scelta e la stessa forza contrattuale (in
quanto davvero conta dinnanzi alla Natura, alla Discendenza ed alla Felicità
Individuale) date alla donna dai privilegi naturali di cui si è discusso.
Parlando
di periodi di cui si ha traccia provata, e tralasciando le origini
semi-mitologiche in cui un assoluto annichilimento del genere femminile fa da
paio poco credibile assieme a Romolo che ascende al cielo o ai numi che
partecipano attivamente alle battaglie, l’effetto del cosiddetto “patriarcato”
(fra virgolette, perché, in questa accezione, ben poco rimane del significato
“eroico” originario indoeuropeo cui si è sopra accennato) è stato
principalmente quello di non lasciare senza freno la pretesa onnipotenza della
donna nelle questioni di scelta del partner e di discendenza. Ciò non va inteso
come costrizione ad accoppiarsi con un uomo non gradito, ma come possibilità per
l’uomo, tramite le costruzioni sociali di cui sopra, di mostrarsi ed
effettivamente di essere, assai gradito alla donna desiderata. Dal buon partito
che permette alla ragazza di uscire di casa, al cavaliere che appare bello
perché salva la dama da un pericolo, ogni uomo di buona volontà aveva una via
socialmente accettata (senza la stigma di oggi) e ben codificata (senza appunto
il rischio di essere bollati come “molestatori”) per “bilanciare la bellezza”.
Sia detto fra parentesi. Si può anche sorridere di tutto questo, ma cosa ci
offre in cambio il mondo moderno e progredito delle femministe e di Liberty
Media? Nulla. Forse solo i pompini disattesi di Madonna. In attesa dunque che
ci si offra un’alternativa accettata dal politicamente corretto, ben facciamo a
puntare sull’unico valore intersoggettivamente riconosciuto (il denaro e
l’immagine che ne deriva) e a sognare ad occhi aperti quelle fanciulle di
bellezza tanto alta e nova da poter altrimenti essere solo sognate sotto un
plenilunio e che fino a ieri hanno popolato le griglie.
Il
mondo liberale ha scelto una via di mezzo, fra non-compensazione preistorica ed
iper-compensazione storica: dando a tutti (almeno in teoria) la possibilità di
costruire la propria vita e scegliere il lavoro migliore in rapporto a
sacrifici e obiettivi, ha permesso alle donne che lo volessero di svolgere gli
stessi lavori degli uomini, e agli uomini che lo sentissero come necessario, di
fare carriera e denaro per circondarsi di belle donne. In tale libertà di
scelta rientrano pure le grid girls, che hanno scelto il mestiere di
sacerdotesse della Bellezza senza costrizioni e senza sentirsi “sminuite” o
“offese”.
Come
tutte le vie di mezzo, però, tale mondo è suscettibile di oscillare troppo in
un senso o nell’altro. Se le femministe si lamentano di presunte
“discriminazioni culturali” (e fra queste mettono le grid girls, almeno stando
alle boiate di Claire Williams: “spero che questa scelta porti più ragazze a
lavorare con noi”; prima di sostenere l’inopportunità delle grid girls,
dovrebbe riflettere sulla “puttanaggine”
della scelta di preferire i rubli di Sirotkin al talento di Kubica!) che
impedirebbero di avere il disiato (da loro, ma giustamente temuto da me) 50 e
50 in ogni ambito, io mi lamento di quote rose ed iniziative culturali con il
fine di favorire le donne (e quindi, in un mondo a risorse limitate,
penalizzare gli uomini) proprio nei mestieri, nelle posizioni, ed oggi pure
negli sport, grazie ai quali gli uomini possono individualmente e
meritocraticamente ottenere con lo studio, il lavoro, la dedizione, il
sacrificio (e, necessariamente, la fortuna)
i mezzi per avere “pari opportunità” di scelta, di potere e di
apprezzamento nella sfera erotico-sentimentale rispetto alle donne.
Se
non vi è ovunque un 50 e 50 percento fra i sessi, non sempre è colpa di
discriminazioni nascoste nel lavoro o rappresentate nello sport: certi mestieri
richiedenti sacrifizi, rinunce e fatiche fin dallo studio universitario, e
implicanti poi limitazioni di tempi e modi di vita sono probabilmente
ricercati, perseguit e scelti dagli uomini con più frequenza e intensità non
perché le donne siano meno capaci (versione maschilista) o perché ne siano
scoraggiate/impedite (versione femminista), ma semplicemente perché sono
principalmente gli uomini ad averne estrema necessità, pena vedere frustrati i
propri sogni non solo e non tanto lavorativi ed economici, ma soprattutto
psico-amorosi e vitali.
Per
le donne studiare, lavorare, fare carriera è una delle scelte possibili (anche
se il femminismo fa finta sia l’unica), mentre per noi è un obbligo (giacchè
senza “superlavoro” e “superguadagno” non potremmo mai godere stabilmente della
presenza di “supergnocche”, o ricevere tutti i giorni un “super-apprezzamento”
sociale, mentre le nostre controparti femminili, anche disoccupate o senza
titolo di studio, potrebbero con le loro grazie, selezionare fra i
trecentosessantacinque pretendenti giornalieri – non sono di meno, altrimenti
non potrebbero lamentarsi delle molestie quotidiane - quello che per aspetto
fisico, sentimento o intelletto o posizione sociale le attrae di più, e,
comunque riceverebbero sorrisi e complimenti e benvenuti in ogni luogo di
lavoro e divertimento, e potrebbero in ogni unione contare sulla forza
“contrattuale” data dalle disparità dei bisogni psico-sessuali). Questa è la
verità (naturale). Il resto è conseguenza (umana).
Le
femministe, partendo dal dogma dell'uguaglianza e dall'irrealtà del “Gaist”
hegeliano, credono che qualcuno o qualcosa sia necessariamente colpevole della
mancata realizzazione del perfetto egalitarismo nei fatti (e, quando non
trovano il capro espiatorio, arrivano agli eccessi isterici delle accuse random
hollywoodiane e delle campagne “moralizzatrici” nello sport e nella
pubblicità); io, osservando le verità della natura e la realtà degli istinti,
comprendo che le ingiustamente vituperate “disuguaglianze sociali” fra i generi
sono la conseguenza non di una discriminazione , bensì di un previlegio, ovvero
del tentativo necessario, matto e a volte disperatissimo, dell'uomo di
bilanciare il privilegio naturale
femminile con lo studio, il lavoro, la
posizione di potere, prestigio, preminenza. Mistificando il nostro umano
bilanciamento sociale dei loro privilegi naturali come “discriminazione”,
giustificano le “discriminazioni positive” per rendere ancora più difficile, se
non impossibile, a noi, raggiungere “pari opportunità” di vivere liberi e
felici, nella realtà del “mondo come volontà”, non nell’apparenza del “mondo
come rappresentazione”.
Ecco
perché Nietzsche scriveva “il femminismo contiene una tale dose di stupidità
tipicamente maschile di cui ogni donna ben riuscita, che è sempre una donna
intelligente, dovrebbe vergognarsi”. Sembra quasi che il visionario professore
di Basilea abbia potuto prevedere più di un secolo prima le aberrazioni del
femminismo attuale. E dire che non ha potuto leggere né le stupidaggini di
Laura Boldrini e di Giorgio Terruzzi, né le puntuali ed intelligenti
osservazioni della “grid-girl” Veronica (la cui “ottima riuscita” come donna è resa
evidente dalle foto pubblicate sull’ultimo numero di Autosprint: la capacità di
“intus legere” la realtà della cose, centrando subito la questione dell’utile
economico delle lobbies, né è solo la conferma).
5. DISCRIMINAZIONI? NO, COMPENSAZIONI: PILOTI E
GRID GIRLS COME METAFORE DELLA NASCITA DELLA VITA
E’
inutile che il dogma politicamente corretto di Women’s Sport Trust mi predichi
“«il pubblico di molti eventi sportivi è
portato ad ammirare gli uomini forti e di talento che prendono parte alle
competizioni, mentre il ruolo delle donne nelle stesse è basato solo sul loro
aspetto fisico». Secondo il Women’s Sport Trust è importante che le donne non
siano considerate un semplice «abbellimento» nelle manifestazioni sportive,
cosa che rafforza dei vecchi stereotipi e dà alle ragazze un esempio sbagliato
delle cose a cui aspirare.”
Il
mio più profondo istinto e le mie intime esperienze mi convincono con verità
più vive che, se una fanciulla ha la bellezza per essere mirata, disiata ed
accettata al primo sguardo, da tutti, e a prescindere da tutto – e questo non è
affatto messo in discussione né dal femminismo, né da Liberty Media, né
tantomeno dalla società moderna (la quale, ahimè, non può prescindere dalla
biologia) – allora è santamente giusto, o perlomeno moralmente equo, che i
garzoncelli abbiano qualcosa di parimenti efficace per essere immediatamente
ammirati , desiderati da tutte e accettati socialmente, a prescindere dalle
eventuali doti di sentimento o intelletto di apprezzamento soggettivo ed arbitrario
(e perciò inadatti ad essere “moneta” in quell’asta delle offerte per la più
bella a cui, dietro le mentite spoglie del cosiddetto “romanticismo”, si riduce
ogni corteggiamento non velleitario). E se ciò, almeno a livello
rappresentativo, si può trovare, oltre che nel lavoro, pure nello sport, allora
è assolutamente positivo ed altamente educativo per ambo i sessi, altro che
sbagliato! Sbagliato è continuare ad illudere i ragazzi che, anche senza
raggiungere particolari livelli di prestigio o preminenza sociali, potranno
avere occasione di conquistare i cuori o comunque i favori temporanei di tante
belle fanciulle. Sbagliato è anche provare ad illudere le ragazze (ma queste
sono meno ingenue) che il loro carrierismo femminista possa in qualche modo renderle
più desiderabili (quando, al contrario, i tempi stressanti di certi
“superlavori” rendono difficile seguire stili di vita salutari, i quali solo
possono garantire il perpetuarsi nel tempo di quella bellezza senza la quale
nessun uomo, che non sia tanto falso da poter mentire anche nell’istinto, potrà
mai sentirsi appagato nella sfera dell’amore sessuale).
Che
le fanciulle siano immediatamente disiate per la bellezza è un dato naturale,
vero ben al di là delle griglie di partenza e sfruttabile dalle stesse anche
senza dover tenere ombrelli. Se si potesse eliminare questo iniquo privilegio,
ci penseremmo noi uomini per primi, nel nostro interesse (come in effetti si
tenta, da tanto tempo ed in vano, di fare in certo mondo arabo). Supporre che possa essere cancellato
semplicemente oscurandone la rappresentazione televisiva è poco credibile.
Credo quindi che la campagna femminista sia, per l'ennesima volta, mirata
semplicemente a distruggere la nostra capacità di compensazione, a renderci la
vita invivibile, senza più modo di fronteggiare quel “privilegio della
bellezza” che esse fingono “superficiale” e “trascurabile rispetto al potere
maschile” semplicemente per poterlo usare senza limiti, remore, né regole. Non
siamo noi uomini ad averlo creato. Ne subiamo semplicemente le conseguenze. Ed
allora abbiano creato le compensazioni. Come la gloria sportiva, che rende
riconoscibili e idolatrati al primo sguardo più della più bella fra le belle,
come la religione della velocità e del pericolo, che rende gli adepti più
divini delle dive, come l'eroismo motoristico, che trasfigura i cavalieri del
rischio rendendoli simili ad amatissimi
principi che sconfiggono draghi e salvano fanciulle. Tutto ciò si sublima
nell'immagine rituale del campione che bacia la bella prima di sfidare la
morte, il tempo e la vertigine e ne riceve il bacio all'arrivo, se vittorioso.
Chi
pretende di abolire tutto questo per “rispetto alla parità” dovrebbe prima
abolire il motivo per cui non c'è affatto parità in partenza fra i sessi.
Poiché però neanche le femministe propongono leggi per costringere le donne a
farsi avanti nella metà dei casi di corteggiamento, o per impedire alle stesse
di usare la bellezza per appagare i bisogni d'autostima, di accettazione e di
riconoscimento, per legittimo interesse personale, sociale o sentimentale,
dentro e fuori l'amore, per avere quello che vogliono dal partner che vogliono,
o anche solo per semplice desiderio naturale e vanità, non posso accettare che
si impongano censure a quanto negli anni, nei secoli, nei millenni, noi uomini
abbiamo saputo costruire per contrapporci a tutto ciò.
Vadano
a raccontare a qualcun altro che “è un innocuo contropotere”. Nascendo da un
desiderio di natura, non può che precedere, e non già seguire, qualunque tipo
di ordine sociale. Quindi è il vituperato “maschilismo”, semmai, ad essere il
(sempre più innocuo, dato che ormai si sono ridotte a combatterne un preteso
residuo simbolico) “contropotere”. Agendo nel “Mondo come volontà” dei più
profondi bisogni esistenziali, sessuali e psichici, per i quali uomini e donne prendono le scelte
nel “mondo come rappresentazione” del denaro, del lavoro, dei ruoli sociali
(gli esseri viventi non sono spinti direttamente, come fa credere il “materialismo
storico”, dalle regole e dalle apparenze razionali di soldi, lavoro, e potere,
ma, semmai, scelgono di ricercare soldi, lavoro e potere come mezzi per
raggiungere l'appagamento dei ben più intimi e atavici bisogni di sentirsi
riconosciuti, apprezzati, desiderati, ammirati: chi, come la donna ha spesso
già l'appagamento di questi senza passare per quelli, ha un privilegio, non uno
svantaggio), è molto più pervasivo di quanto viene visto come “vero potere”
(che in realtà, come visto, è solo un tentativo più o meno efficace di
compensazione).
Se
sono diverse (a priori, e non per meriti/demeriti dei singoli) le posizioni di
partenza, è profondamente ingiusto volere poi uguaglianza nelle condizioni di
gara, se sono diversi i bisogni e quindi gli obiettivi da raggiungere, è
altamente iniquo pretendere parità all’arrivo. Poiché sono gli spermatozoi a
“partire più indietro”, anzi, sono gli unici a dover partire, mentre gli ovuli
sono già nati all’arrivo, uguaglianza (nel diritto alla libertà ed alla
felicità) significa lasciare che siano i primi a ricevere (o a costruirsi
spontaneamente) maggiori risorse, energie e stimoli per correre; se sono gli
spermatozoi a dover correre all’ovulo e non viceversa (e nel caso della
competizione automobilistica, la rappresentazione è più che emblematica),
allora equità significa non imporre “limiti di velocità” ai primi (come sono di
fatto le quote rosa o altre leggi e costumi che limitano gli uomini) e non
lamentarsi se le rappresentazioni pubbliche come lo sport incitano più i primi
che non il secondo a “correre”.
Se io
sono naturalmente, ineludibilmente ed irrefrenabilmente attratto dalle lunghe
chiome, dal claro viso, dall’alta figura che bella e lontana la fa mentre la si
mira come luna in cielo, dalle membra scolpite come da un divino artefice, dal
ventre piatto e levigato, dalla pelle liscia ed indorata come di sabbia baciata
dall’onda, dalle chilometriche gambe di modella, e dall’altre grazie che, per
dirla con Dante, è “bello tacere”, ed ho profondo e naturale bisogno, tanto nel
corpo quanto nella psiche, di sentirmi disiato, ammirato e accettato da chi
incarna tale bellezza per qualcosa di altrettanto poeticamente bello,
immediatamente percepibile e socialmente luminoso, allora non dico mi si debba
spingere a forza una modella nel letto, ma almeno allevare in un contesto nel
quale, tanto materialmente quanto psicologicamente, abbia possibilità concrete
(ovviamente se l’eccellenza e la costanza nello studio temprate nelle
discipline più severe me ne rendono meritevole, e se la delicatezza d’animo e
la raffinatezza di spirito, coltivate nelle letture più profonde e grandiose mi
rendono sufficientemente degno di cercare di accostare alla bellezza corporale
e mortale della donna quella non corporale e non mortale della poesia da essa
ispirata) di non apparire ridicolo soltanto per osare un approccio.
Non
certo nel contesto lavorativo in cui si introducono quote rosa “perché ci sono
troppi uomini”. Come se non fosse un merito essere riusciti, nonostante
l’istruzione in mano a donne spesso pure femministe, a sopravvivere alla noia e
alla demoralizzazione per emergere poi, al liceo ed all’università, in
discipline scientifiche! Come se, quando sono le donne ad essere più brave a
scuola e ad emergere in altre discipline (ad esempio lettere e giornalismo),
queste non fossero esaltate, e non si desse merito ai loro risultati scolastici
“migliori di quelli dei maschi” (il cui minore risultato viene attribuito a
minori qualità e non ad eventuali discriminazioni psico-sociali anti-maschili).
Non
certo nel contesto psicologico attuale, prodotto dalla cultura ufficiale (dalla
quale tutto quanto è, più o meno ragionevolmente, visto come “femminile”, è
presentato quale “bello”, “buono”, “pacifico”, “moderno”, “evoluto”,
“raffinato”, ”complesso”, mentre tutto ciò che viene più o meno fondatamente
sentito come maschile viene visto quale “brutto”, “cattivo”, “violento”,
“vecchio”, “primitivo”, “rozzo”, “semplice”) e dall’immaginario hollywoodiano
(nel quale i personaggi maschili sono troppo spesso raffigurati o come
“molesti”, “bruti”, “violentatori” da punire nel modo più profondo, vasto e
doloroso e umiliante possibile, dal calcio nelle palle all’omicidio, o come
mezzi ritardati psichici resi ancor più ingenui dal desiderio, pezzi di legno
davanti a cui permettersi di tutto, pupazzi da sollevare nell’illusione e
gettare nella delusione)! Come se non fosse stata scritta da Torquato Tasso la
“Gerusalemme liberata”, nella quale, a contraltare dell’eroe maschile Tancredi
(costretto allo stereotipo dalla necessità di conformare la trama principale
alla storia reale delle Crociate e i tratti umani ai precetti della
Controriforma) appaiono diverse figure femminili (più libere e variegate
proprio perché non costrette ad avere un ruolo preciso nella “grande storia”),
nelle quali (si pensi alla figura di Erminia ed alla sua passione nascosta) il
poeta nasconde le più tenui, delicate, languide, complesse fino al chiaroscuro,
sfaccettature del proprio animo (meglio di quanto potrebbero mai fare mille
bloggers intimiste), e le più illuminanti, sconvolgenti, a tratti pure moderne
(si pensi alla figura di Clorinda guerriera) descrizioni dell’animo femminile
(prima di quanto abbia potuto fare il femminismo storico)! Come se il vertice
della storia in questa parte di mondo, figlia della Grecia e di Roma, rispetto
a cui noi contemporanei appariamo “gnomi sulle spalle dei giganti” non solo per
la grandezza delle opere che ancora noi possiamo ammirare, non fosse stato
edificato da corpi e menti maschili, come se quei popoli fondatori di città e
civiltà di cui le stesse donne (in misura quantitativamente molto maggiore di
quanto non facciano gli uomini, se pensiamo all’insegnamento scolastico)
continuano (ironicamente?) a studiare e a far studiare, ad amare e far amare
l’eredità di pensiero, di monumenti e di leggi, i costumi, la lingua, la
letteratura, gli insegnamenti, le idee e le vicende storiche e persino gli dèi,
fossero stati composti di altri che di uomini! Non amo la retorica, ma la mia
capacità di sopportazione della propaganda femminista ha raggiunto ormai il
limite estremo. Non desidererei lanciarmi in dichiarazione che, fuori contesto,
potrebbero davvero apparire “maschiliste”, ma il livello raggiunto dal
martellamento mediatico avverso necessita ben di una compensazione!
Se
non si può cambiare la struttura naturale nella quale spetta sempre e solo ai
maschi il dovere della cosiddetta conquista (dalle fiere che devono con certa
fatica ed incerto successo inseguire la femmina fuggente chi sa dove, agli
usignoli che devono continuamente spandere armonia fino a morire di languore,
dai pavoni che devono diffondere la bellezza colorata dalle loro ruota per
sperare di essere notati dall’amata ai cervi che devono riservare ogni forza ed
ogni abilità nell’incornarsi fra loro per cogliere l’unica opportunità di essere
premiati amorosamente), né la sua conseguenza sociale (per la quale, in certi
locali notturni, laddove i ragazzi devono pagare e passare una selezione, le
coetanee entrano gratis fra grandi sorrisi, ed in ogni luogo e tempo della vita
qualunque fanciulla, avente una sia pur lontana simiglianza con qualcosa in
grado di suscitare un sia pur minimo palpito di desiderio, è circondata da un
corteo di amici-ammiratori pronti a tutto per un sorriso, da una corte di
cavalieri serventi disposti a dare tutto in pensieri parole e opere per la sola
speranza, da una fila di mendicanti d’amore in perenne attesa della sportula da
colei da un cui sì e da un cui no dipendono il paradiso o l’inferno), allora
non devono essere cambiate neppure le naturalmente ed umanamente conseguenti
compensazioni sociali, (per le quali, nella realtà del lavoro, in certe
posizioni non vi è parità uomo-donna, e, nella rappresentazione dello sport, il
campione famoso ed apprezzato per capacità e coraggio è attorniato di fanciulle
sfolgoranti primieramente per la bellezza)!
Ad
una mia amica che sosteneva le pene amorose dover comunque essere sopportate
dai maschi in quanto naturali, io auguro che, essendo naturale pure il mal di
denti, le venga estratto un molare malato senza la “innaturale” anestesia! La
perfidia femminile di queste argomentazioni (è naturale, quindi sopportabile) è
evidente dalla constatazione che “l’umano consorzio”, per dirla alla Leopardi,
dovrebbe avere quale precipuo fine proprio il tutelare gli individui dal
“duolo” che “spontaneo sorge” e, più in generale, permettergli di appagare i
bisogni naturali con quante meno difficoltà possibili fra quelle altrimenti
postegli contro dalla “Natura Matrigna”. Naturale sarebbe anche lasciare morire
i fanciulli più deboli e gli adulti malati “per selezione”. Civile è invece
proteggere quelli e curare questi. In natura chi non sa procurarsi il cibo
muore di fame. Nel mondo civile, chi svolge il proprio ruolo in società può
comprare il cibo con il proprio lavoro. Ecco perché anche il bisogno naturale
di bellezza e piacere dei sensi deve, se necessario, poter essere appagato a
pagamento. Chi vorrebbe vietare la prostituzione e lasciare il corteggiamento
(che, sia detto di passaggio, è prostituzione psichica dell’uomo con ricompensa
incerta) come unica possibilità, è ridicolo come chi volesse costringere gli
affamati a sedurre una fornaia per potersi sfamare (anziché aprire il
portafoglio e comprare il pane con civile accordo). Riconoscere e non reprimere
i desideri naturali non deve implicare sottomettersi a disagi, fatiche e
privazioni evitabili grazie alla civiltà storica, né tantomeno ai capricci
della “dama di turno”. Chi vuole giustificare la naturale preminenza femminile
nella sfera psico-sessuale con ragionamenti del tipo “peggio per i maschi se
sono naturalmente svantaggiati in quel campo”, dovrebbe essere messa a tacere
con repliche del tenore “allora peggio per voi se siete più deboli fisicamente
e chiunque può abusare di voi”. Come c’è la cavalleria per tutelare le donne da
chi volesse usare violenza per strappare favori senza consenso, così deve
esistere un opposto-complementare accordo per permettere ai maschi più deboli e
bisognosi nella sfera psico-sessuale di non essere maltrattabili con perfidia o
“tiranneggiabili per fame” in quel campo. Ecco perché la propaganda del
femminismo maistream, il quale mira a rendere invivibile la vita agli uomini,
mette tutto ciò (dalla prostituzione adulta e consenziente agli “stereotipi di
genere” che producono “disuguaglianze sul lavoro”) nel calderone del termine
“discriminazione”. Il nome infamante serve a non far riflettere sulla cosa in
sé (chè, altrimenti, se ne vedrebbero l’umanità e l’equità).
Non
mi stupisce l’insistente menzogna femminista del voler far apparire come
risultato di una discriminazione “maschilista” l’effetto di un privilegio
naturale femminile, facendo perfidamente apparire in colpa quegli stessi uomini
che fin da fanciulli, proprio per non subirlo, hanno iniziato ad avviarsi
all’eccellenza nello studio meritandosi una superiore posizione lavorativa (da
cui bilanciare con cultura, denaro e potere l’arma della bellezza muliebre).
Quello
che non finisce mai di stupirmi è la stupidità di una così gran parte degli
uomini moderni (ivi compresi, non l’avrei mai detto, insospettabili giornalisti
di Autosprint) del permettere alle femmine contemporanee di mantenere la
propria posizione di naturale preminenza nelle sfere dell’amore sessuale, dei
rapporti sentimentali, delle scelte riproduttive, nello stesso periodo in cui
reclamano pari diritti e pari rappresentanza in tutte quelle sfere (dall’arte
alla politica, dal lavoro allo sport) che sono state nei secoli costruite
dall’uomo proprio per bilanciare tale preminenza.
6. CONTESTAZIONI PUNTO PER PUNTO ALLE MENZOGNE
BOLDRINIANE DI GIORGIO TERRUZZI
Ora
che, come vogliono le regole della campagna elettorale, le differenti visioni
del mondo (che prendono qui il posto
degli schieramenti politici) si sono chiarite e dichiarate, si può procedere
alla contestazione punto per punto delle argomentazioni del Teruzzi.
Quando
Giorgio Teruzzi parla di corse maschilista, deve riflettere sul fatto che:
1)
Forse la preponderanza di maschi fra spettatori, piloti ed ingegneri dipende
semplicemente dal fatto che tutti noi, prima ancora di nascere, eravamo
naturalmente “corridori” (spermatozoi) e che, se siamo nati, è perché “quella
volta” abbiamo vinto (e voler la miss all’arrivo ad accogliere il pilota con un
bacio è un rivivere quell’archetipo di vita-vittoria); si chiama natura, non
maschilismo;
2)
Forse, anche, molti ragazzi dedicano l’anima all’automobilismo, e, se non hanno
la fortuna e i soldi per correre, passano i w/e guardando gare e le notti
sognando auto, proprio perché, nella vita sociale con le coetanee, sono
trattati con malcelata sufficienza quando non aperto disprezzo da fanciulle di
bellezza quasi mai alta ma di comportamento sempre altezzoso (le quali così si
possono atteggiare solo e soltanto per la penuria tipicamente italiana di vera
bellezza femminile e la dote tipicamente italica di tirarsela vedendosi
circondate di tanti maschi focosamente amanti di ogni minima parvenza di
beltà), non avendo ancora doti e strumenti per ribaltare i rapporti di forza
contrattuale o per cercare altrove altre e meno finte bellezze, si rifugiano nelle
auto per comprensibile momentanea disperazione (ed in tal caso, le bellezze
siderali svettanti in griglia hanno il positivo effetto di mostrare alle
melanzane quanto veramente siano distanti dal modello di beltà dei cui
privilegi iniquamente abusano e di indurle a riconsiderare le loro pretese); si
chiama stronzaggine femminile, non maschilismo;
3) Se
anche il mondo dei motori apparisse davvero così maschilista nella sostanza dei
rapporti fra i generi e nel colpo d’occhio sulla griglia, al giudizio del politicamente
corretto femminil-femminista, perché dovremmo voler correggerci? Essendo
maschile la maggioranza degli appassionati, dei praticanti, e dei protagonisti
tanto tecnici per sportivi, perché dovremmo lasciar decidere alle donne, ultime
arrivate con già pretese di dettar legge? E addirittura lasciare decidere non
alle addette ai lavori (come le stesse grid girls), non alle pilotesse (come
Susie Stoddard che terrebbe le grid girls), ma a donne di lobbies che magari
non guardano neanche i gran premi? In democrazia decide la maggioranza. E anche
negli stati non-democratici, decide la casta dei fondatori e dei guardiani, non
la “gente nova” dai “subiti guadagni” di dantesca memoria. Ci permettiamo forse
noi di cambiare le regole dei gruppi femministi che per discutere escludono gli
uomini? Chiediamo forse noi appassionati di cambiare qualcosa nel grigiore
delle riunioni politicamente corrette cui le donne partecipano? A me certi
ambienti non piacciono e quindi cerco di starne alla larga. Si chiama scelta personale.
Se alle donne non piace il mondo dei motori perché maschilista, possono
benissimo non guardare i gran premi. Sarebbe una perdita numericamente molto
meno rilevante di quella dei ragazzi che magari iniziano a guardare le griglia
per le grid girls. Quindi lasciare le grid girls è razionalismo democratico,
non maschilismo;
Quando
Giorgio Teruzzi parla di violenza, si deve ricordare che:
1)
I cosiddetti “grandi numeri” della violenza
nascono da “sondaggi” nei quali alla voce “violenza” viene conteggiata
qualunque risposta positiva a domande del genere “ha mai alzato la voce?“, “ha mai mostrato
disprezzo per le tue opinioni?”, “ti ha mai rifiutato qualcosa”, o “ti ha mai
criticata”, cui qualunque persona non abbia vissuto soltanto nella cella di un
commento potrebbe dire “sì” pur senza avendo subito nulla di oggettivamente
violento dall'altro sesso. Se le stesse domande e gli stessi criteri di
definizione lasca, arbitraria ed unilaterale di violenza (senza peraltro alcun
obbligo di riscontro o possibilità per la controparte di ribattere) fossero
concessi anche agli uomini, si scoprirebbe che, magari non due uomini su tre,
ma proprio tre su tre hanno subito violenza fisica o psicologica dalle donne.
2)
Parlando di fatti decisamente più gravi e
dimostrabili, non vi è alcuna “emergenza femminicidio”. I dati basati sulla
realtà non registrano da decenni alcun aumento delle uccisioni di donne da
parte di uomini. I giornali ne parlano solo perché, da qualche anno, c'è la
volontà di vedere ogni singolo caso come parte di un intento “collettivo”
maschile di “genocidio”. Certo, umanamente, anche un caso soltanto è
"troppo". Lo stesso però potrebbe essere detto di ogni omicidio,
anzi, di ogni reato. Gli omicidi sono sempre "troppi", ma se da anni
sono assestati su un minimo statisticamente "fisiologico" (343,
l’anno scorso, su milioni di abitanti), non si può gridare all'allarme
sicurezza solo perchè non sono ridotti a zero. Lo stesso dicasi per i furti.
Parlare di "escalation" quando i dati non si discostano dallo storico
serve solo a creare insicurezza a fini politici. Tutti ci auguriamo che nessuno
ruba o uccida. Nessuno giustifica il furto o l'omicidio in alcun modo, nè ne
sminuisce la gravità. Il fatto però che, nonostante questo, furto ed omicidio
non siano spariti del tutto “in anni e anni di parole”, non autorizza nessuno a
sostenere che gli Italiani "abbiano una sospetta complicità con i
ladri" o "siano portatori di una cultura in parte omicida".
Questo sarebbe, ancora una volta, lo schema di ragionamento "medievale"
che punta a far sentire in colpa le persone "collettivamente" (per
l'inevitabile "peccato" che segna il genere umano) in modo da far poi
loro accettare qualunque sopruso e qualunque assurdità come
"redenzione". E l'ultimo femminismo, Boldrini in testa, sta facendo
proprio questo contro gli uomini. Utilizzando alcuni episodi di cronaca nera
come "paradigmatici" (quando, numeri alla mano, sono l'eccezione, non
la regola), si sta montando una campagna diffamatoria contro il genere
maschile, tentando di giustificare con essa futuri provvedimenti contrari al
diritto ed alla ragione (come, ad esempio, con la scusa di "proteggere
prima le vittime", dare a qualunque donna il potere di mandare in galera
qualunque uomo con la sola parola dell'accusa, anche prima ed anche senza
riscontri oggettivi e testimonianze terze della presunta "violenza",
come già avviene in certi caso nell'anglosfera) e per far accettare in toto,
senza possibilità di replica, riflessione e dibattimento, la “narrazione
femminista” di cui si è discusso nei capitoli precedenti (chi non è d'accordo
con essa è tacciato di maschilismo, di complicità con i violenti, di collusione
con la "cultura della violenza").
3)
Il fatto che il cosiddetto femminicidio sia una
montatura non vuol dire che reati contro le donne non esistano, ma
semplicemente che sono spesso la spia non di una particolare
"malvagità" maschile, bensì di una umana incapacità di tollerare la
perfidia femminea unita all'oppressione femminista. Si usa spesso snocciolare
cifre di omicidi e degli omicidi/suicidi per passione. Le cifre non sono
bilanciate. Si riporta il marito che (magari prima di vedersi costretto a
vivere privato degli affetti e dei beni, della casa, delle ricchezze e dei
figliuoli, e dunque delle ragioni e dei mezzi per vivere) uccide la moglie, ma
non si riporta il ragazzo che, caduto nella trappola amorosa della
"dama" di turno, si impicca per disperazione sentimentale. La
violenza è nel mondo, e per ovvi motivi gli uomini tendono ad usare quella
fisica, le donne quella psicologica, ma non è scontato quale delle due sia più
grave. Dipende dai casi. Inoltre non ci si può stupire se con l’inganno si
genera quasi la follia nell’animo altrui e le reazioni sono inconsulte. Non vi
è infatti il diritto di molestare nel sesso il prossimo con la menzogna o la
falsa illusione (sia essa fisica o psicologica), né per gli uomini né per le
donne. Se ammettete l'irrazionalità nel comportamento umano dovete ammetterla
in amendue i sessi, non solo dove vi fa comodo. Fra uno che spara e una che
suscita ad arte la disperazione per indurre al suicidio non trovo differenza.
Distinguerei poi i delitti fra fidanzati e amanti, il cui movente è solo
passionale puramente, da quelli fra coniugi, in cui subentrano molti altri
fattori, quali la necessità di sopravvivere economicamente, di non farsi
defraudare degli averi e dei figli, di doversi ricostruire una vita, di veder
distrutto tutto quello per cui si era lavorato e sofferto (la famiglia, i beni,
la casa ecc., l'avvenire sereno in famiglia, la vecchiaia consolatrice ecc.).
Nel primo caso, spesso, il tutto è accompagnato sovente dal suicidio (per cui è
il classico esempio di ciò che si dice "omicidio altruista"): si
tratta di una dimostrazione di quanto detto da Nietzsche: "le donne sembrano
sentimentali, gli uomini invece lo sono. Gli uomini sembrano crudeli, le donne
invece lo sono". Se noi uomini fossimo davvero crudeli di una
superficialità da rieducare, come vuole il femminismo, non potremmo essere
portati alla disperazione da motivi sentimentali. Nessuno ucciderebbe o si
suiciderebbe se considerasse l'amore come puro divertimento sessuale e la donna
un mero “oggetto di desiderio”, come siamo accusati di fare. Se davvero spesso
gli uomini non possono rassegnarsi alla perdita dell'amata (come non vi si sono
rassegnati i poeti da Tibullo a Petrarca) è invece solo e soltanto perché
quanto per le donne, alla fine, è solo un mezzo per ottenere apprezzamenti,
appagamenti di vanità, sicurezza per la prole, bella vita per sè, regali,
mantenimenti o anche solo momenti psicologicamente piacevoli, per gli uomini è
davvero, parafrasando il Tasso, "vita de la loro vita", un'essenza e
un senso vitale senza i quali la vita stessa perde significato e al di là dei
quali resta solo la possibilità di uccidere o essere uccisi. Se solo gli
omicidi commessi per mano maschile fossero maggiori di quelli compiuti da
donne, allora si potrebbe (volendo rimanere ciechi alle motivazioni di chi di
fatto viene in occidente dalle donne vampirizzato con beneficio di legge)
ancora ammettere per ipotesi la tesi della "violenza maschile".
Poichè invece, parallelamente, anche i suicidi amorosi sono maggiori da parte
degli uomini, allora si deve concludere in favore della mia tesi. E far passare
per maggiore malvagità quanto è invece maggiore e più profonda sentimentalità
significa avere nel cuore non il chiaro di luna, bensì il NERO DI SEPPIA. Nel
secondo caso, invece, il tema amoroso non è sempre quello scatenante. Come
detto, vi sono altri elementi decisivi. Lo vedo quasi come un distruggere pria
di essere distrutti, una sorta di "muoia Sansone con tutti i filistei (le
filistee?)". Spesso si tratta di una lotta per la sopravvivenza, di una
vendetta per non subire la distruzione della propria famiglia, della propria
identità, della propria vita, della propria dignità, del proprio onore. La vita
dell'uomo separato è troppo spesso simile a quella dell'esule: senza famiglia,
privato degli averi, della casa, dei mezzi di spostamento, spesso inviso
all'ambiente sociale, lontano dai figli, vaga in cerca di una nuova vita, di un
tetto e di un lavoro (anche umile o faticoso) che gli permetta di pagare i
debiti (magari un mutuo contratto per la casa ora non più sua) e gli alimenti.
Vi è chi prende tutto con dignità e con filosofia e con entusiasmo ricomincia
daccapo (anzi, da meno quello che deve pagare della vita precedente), e chi
invece concepisce tutto questo come un'insanabile ingiustizia (perché, se i
sessi sono pari, i figli e la casa finiscono sempre alla donna, e la colpa
quasi sempre a lui? Perché i capricci e le difficoltà psicologiche della donna
sono sempre giustificate, con frasi del genere "è insoddisfatta della vita
di coppia, della noia casalinga o del doppio lavoro ecc., del disinteresse del
marito, si sente oppressa, soffocata ecc." e quelle dell'uomo, come le
scappatelle, no?) alla quale si ribella nel solo modo possibile (una volta che
la legge e la società gli sono contro): quello del tirannicida alfieriano (o,
se vogliamo, del terrorista). Poichè però si tratta di migliaia di casi su
milioni di cittadini e di cittadine, e che, per dirla chiaramente, anche
ammettendo la percentuale di “stronze” attorno ad un prudenziale dieci
percento, resta infinitesima la probabilità anche per la più stronza fra le
stronze di venire uccisa, violentata, o anche solo picchiata per vendetta, è
un'impostura parlare di “violenza maschile contro le donne” e tanto più di “femminicidio”.
4)
il numero delle donne uccise è minore di quello
degli uomini che muoiono sul lavoro (e quindi per il profitto di una società
che continua, come in un non troppo lontano passato in cui le donne venivano
esentate, per esempio, dal servizio militare, a considerare quello maschile
come “sesso sacrificabile”) o assassinati (da altri uomini e non da donne,
certo, ma comunque all’interno di episodi criminali nei quali rimangono
invischiati con probabilità maggiore dell’altro sesso proprio perché, al
contrario, come spiegato più volte, delle donne, non hanno modo di ottenere
ruolo sociale e considerazione amorosa se non raggiungono una certa posizione e
un certo guadagno: e quando le condizioni oggettive o le capacità soggettive
non permettono di ottenere tali obiettivi legalmente, non restano alternative
all’accettazione del rischio insito nelle attività malavitose).
5)
Il numero di donne che subiscono violenza dagli
uomini è un infinitesimo di ordine superiore rispetto a quello degli uomini la
cui vita può essere distrutta in qualunque momento dalle donne. Non sono le
donne potenzialmente meno assassine degli uomini, lo sono (per forza di cose)
in maniera diversa: possono (per tutti i motivi variabili dall’irragionevolezza
momentanea all'interesse economico-sentimentale, dal rancore generalizzato al
patologico bisogno di sentirsi vittime, dalla vendetta arbitraria al gratuito
sfoggio di preminenza sociale) distruggere (materialmente, moralmente,
socialmente, economicamente, giudiziariamente, psicologicamente o anche
fisicamente) la vita di chi vogliono (fino ucciderlo o a renderlo un morto
vivente) senza doversi esporre in prima persona, ma semplicemente inducendo un
altro uomo ad uccidere per loro o (sfruttando a fini personali le leggi a senso
unico su aborto, divorzio e violenza sessuale) inducendo l'intera società ad
essere l'esecutrice della volontà di assassinare socialmente la vittima
designata. La vita di un uomo preso di mira da “stalking giudiziario”
femminista può divenire simile a quella dell'esule ottocentesco, privato di
famiglia, casa, roba, depredato di ogni avere, allontanato dai figli e dagli
affetti materiali e morali, derubato di ogni possibilità materiale e morale di
rifarsi una vita e di ogni residua speranza di felicità, a volte pure della
libertà e della salute con accuse false o strumentalmente esagarate ad arte
(conducenti alla galera preventiva grazie a stupidità cavalleresca e demagogia
femminista applicate alla giurisprudenza, per la quale si può finire in galera
sulla sola parola di una donna anche prima e anche senza riscontri oggettivi e
testimonianze terze della presunta "violenza"). Ho visto tante situazioni in cui i mariti
vengono bersagliati dalle ex-mogli in ogni modo umanamente immaginabile, vivono
quasi peggio dell'esule ottocentesco (alcuni dormono davvero in macchina perché
non riescono a pagare l'affitto, tanti svolgono lavori faticosi con straordinari
impossibili per pagare alimenti impossibili, tanti cambiano lavoro e città) e
devono subire umiliazioni (pubbliche e private) di ogni sorta (dagli schiaffi
ai quali non possono replicare per non essere accusati di violenza, alla
calunnia con amici e tribunali), accuse false e infamanti (di default quella di
violenza, spesso accompagnate da altre invenzioni più fantasiose riguardo ad
abitudini sessuali, comportamenti e fatti privati in famiglia), falsità e
malignità (mettere i figli contro e sparlare con i conoscenti dando al marito
la colpa di tutto), soprusi ed angherie, pignoramenti improvvisi e
ingiustificati, veri e propri espropri (di auto e di case), e il tutto in
maniera perfettamente legale e protetta dalla mentalità femminista e dalla
società galante, che persino un uomo mite e pacifico come me (una volta ferito
nell'intimo e in quello che doveva essere un aspetto di dolcezza) potrebbe
trasformarsi in un efferato killer.
6)
le presunte "violenze" potrebbero
essere non arbitrari e unilaterali strumenti di oppressione di un carnefice su
una vittima, ma mezzi di offesa/difesa all'interno di un rapporto conflittuale
in cui ciascuno, per interesse, tirannia ed ottenimento della preminenza, usa
(con poche remore, regole e limitazioni) le armi che ha, e in cui l'uso magari
da parte della donna della violenza psicologica al posto di quella fisica non
dimostra maggiore bontà bensì maggiore perfidia, non denota un essere vittima
ma un diverso modo di essere carnefice. Se si parla di violenza verbale o
psicologica, le donne (al contrario di quanto accade nello scontro fisico) non
hanno certo per natura meno armi, anzi (le disparità di desideri nell'amore
sessuale e quelle psicologiche, legate alla predisposizione all'esser madri, e
quindi a manipolare anime pur mo' nate, le permetterebbero di sfruttare
dipendenze erotiche e affettive e a fine di tirannia, ricatto, prepotenza,
vanità), e per legge e costumi hanno la possibilità del vittimismo e della
violenza della legge (o di quella da agire per interposta persona: vedi
mandanti di varia natura, non ultima quella che aizza i figli contro il padre),
quindi non ha senso considerarle meno violente a priori (come implica , anche
perchè, come mostrano certe statistiche di cui non si parla, con i bambini, più
deboli, lo sono spesso anche fisicamente (e statisticamente più degli uomini) e
soprattutto l'esperienza quotidiana mostra che ad alzare la voce e a criticare
il partner in pubblico o anche a tirare oggetti e ad alzare le mani per prime
(confidando in cavalleria, o timore della legge, e colpo a tradimento o
scorretto) le donne superano spesso gli uomini;
7)
Specie all'interno di legami sentimentali
degenerati in litigi, contese e ripicche, le testimonianze possono essere
completamente inventate o esagerate ad arte (per capriccio, vendetta, ricatto,
interesse di risarcimento o gratuita volontà di distruzione della vita
dell'altro). Già così si rischia sulla sola parola della donna, anche prima e
anche senza riscontri oggettivi e testimonianze terze della presunta violenza,
di essere allontanati dalla casa, dai figli e costretti a sostenere i rischi e
i costi di un processo per violenza (per non dire per pedofilia su false
accuse), e se l'ex trova un'amica pronta a testimoniare (di aver visto anche
solo uno schiaffo), pure di essere arrestati prima del processo. Vorreste forse
tu e i tuoi amichetti femministi filo-boldriniani, la “legge integrale” spagnola,
per cui si può addirittura finire in galera come criminali, privati di ogni
bene, di ogni libertà, di ogni rispettabilità sociale e di ogni speranza
materiale e morale di ricostruirsi una vita, non solo senza prove ma pure senza
processo?
Quando
Giorgio Teruzzi parla di molestie, deve tenere presente che:
1) i
“casi che non cessano di emergere” nascono semplicemente dall’ultima moda delle
attrici di Hollywood un po’ stagionate e un po’ bisognose di soldi, notorietà e
vendetta, di accusare ex-post chi a suo tempo ha concesso loro una corsia
preferenziale di carriera in cambio di favori particolari, facendo passare per
abuso quanto è stato a suo tempo un do ut des (di cui oggi, riscosse tutti i
vantaggi in fama e guadagni, fingono di pentirsi riscoprendo una “dignità” che
rima piuttosto con menzogna, ipocrisia, caccia alle streghe);
2)
per quanto molesto o insistente sia un approccio, sarà sempre meno molesto e
meno pressante della condizione stessa di chi è obbligato a farsi avanti alla
cieca (senza sapere cosa e come sarà gradito, dovendo scervellarsi per divinare
quale eventuale dote o aspetto di sé debba far emergere dal primo contatto, e
implorare il cielo per avere una minima occasione di rendere sensibili quelle
proprie sfumature di sentimento o intelletto con cui essere potenzialmente, se
non apprezzato, almeno distinto dalla massa degli altri pretendenti
giornalieri, con il rischio invece di essere irriso, posto in ridicolo,
trattato come uno fra i tanti, un banale scocciatore, o addirittura additato ed
accusato di “molestare”) e della consapevolezza di doverlo fare sempre, ovunque
e comunque (legge dei grandi numeri) per avere una non infinitesima speranza di
riuscita (provando tutte le volte l’illusione e la delusione);
3)
non si può accettare che possa a posteriori, e su arbitraria e soggettiva
definizione demandata alla “sensibilità” della presunta vittima, essere classificato
fra le “molestie” qualunque sguardo, detto, atto o toccata non abbia altra
colpa se non manifestare (in maniera vagamente poetica o decisamente prosaica,
in modo psicologicamente raffinato o fisicamente semplice, con modalità
aristocraticamente letteraria o volgarmente schietta, l’interesse dell’uomo per
il corpo della donna e magari comunicare (più o meno consciamente, più o meno
ironicamente, più o meno direttamente), specie se da parte delle donne si
continua, in massa, a pretendere comunque che sia sempre e solo l’uomo a fare
la prima mossa (già è problematico vincere l’irrazionale timidezza del farsi
avanti, già è faticoso dover inventarsi dal nulla un tentativo non velleitario,
già è difficile superare il razionale pessimismo del calcolo delle probabilità,
che, se anche solo il primo tentativo è a rischio di denuncia, allora tanto
vale davvero dedicarsi solo alle puttane) e considerando che (per insondabili
motivi di interesse –aumento del proprio valore economico-sentimentale per via
del numero degli ammiratori - o di gratuita vanità – godere delle pene e delle
incertezze altrui) raramente esse si degnano di non essere ambigue, ma anzi
sovente usano il diniego o il forse per testare l’effettivo interesse dell’uomo
e costringerlo a soffrire ed offrire sempre di più in ogni termina materiale e
morale (esse si sbaglia intendendo un no per un sì mascherato da contrasto
madonna-messere di Cielo d’Alcamo, si rischia la denuncia, ma se si sbaglia in
senso in verso, prendendo per no vero un diniego momentaneo posto ad arte, si
ha la sicurezza di essere disprezzati come “non abbastanza pazienti” e “pavidi
nel corteggiamento”);
Quando
Giorgio Teruzzi parla di battute sessiste e offensive, dovrebbe vedere anche
che:
1)
anche la più volgare delle battute a sfondo sessuale, contiene un fondo di
complimento, se non altro nel fatto stesso di denunciare un sincero, profondo
ed istintivo desiderio naturale per le grazie della donne che la volgarità
certo abbruttisce e a volte nasconde, ma sicuramente non cancella; al
contrario, quando battute femminile volgono a farci apparire “sfigati”, e
quando respingimenti alle nostra advances sono effettuati con studiata perfidia
di corpo e d’anima, plateale
2) le
donne non si scusano mai, ma continuano a ridere quando, seguendo la moda della
televisione e del cinema, e di certa pubblicità denigratoria antimaschile (che
nessuna Boldrini si è mai preoccupata di censurare) si permettono su di noi
battute del genere “voi uomini siete lenti” (per noi appassionati di velocità,
offesa sanguinosa ben oltre il suo valore di pregiudizio di genere sul nostro
modo di pensare e di vivere) o “ormai non servite più a niente” – e sono
battute dette con intento; di conseguenza io, se per caso offendessi qualcuna
con una battuta osè o sessista senza volerlo, non sentirei certo il dovere di
scusarmi;
3) la
principale forma di molestia-violenza femminile ai nostri danni, di cui non
solo le donne non si scusano mai, da di cui anzi rivendicano il diritto ad
esercitare, ovvero il “fare la stronza” (ossia suscitare ad arte il disio solo
per compiacersi della sua negazione e di come questa, resa massimamente
beffarda, dolorosa e umiliante da una studiata e raffinata perfidia, possa
gettare nell'inferno della delusione dopo le promesse del paradiso della
concessione; attirare direttamente o indirettamente chi non si è affatto
interessate a conoscere bensì soltanto a respingere, deridere intimamente o
pubblicamente facendolo sentire uno fra i tanti, un banale scocciatore;
mostrare le proprie forme fra vesti discinte solo per porsi su un piedistallo
di irraggiungibilità, per generare frustrazione negli astanti, per farli
sentire nullità di fronte ad una bellezza non compensabile, per maltrattarli se
tentano un qualunque approccio; usare sguardi, movenze, e svestimenti per
indurre a farsi avanti chi si vuole soltanto disprezzare, rendere ridicolo a se
stesso e agli altri, ferire nell'intimo e irridere nel disio in maniera
traumatica e indelebile, trattare da molesto e far sentire privo di qualità
come uno straccio da gettare; sfruttare le debolezze erotico-sentimentali per
infliggere dolore fisico e mentale, per provocare disagi da sessuali ad
esistenziali, per realizzare sbranamento economico-sentimentali o comunque
psicologici; usare insomma l'arma della bellezza per ingannare, irridere,
ferire, umiliare, come e peggio di quanto un bullo farebbe della forza fisica
verso un ragazzo più debole) è ormai nell'occidente femminista divenuto comune
tanto sui luoghi di lavoro quanto in quelli di divertimento, tanto nei rapporti
più fugaci e occasionali quanto in quelli più lunghi e sentimentali. Qui quale
simbolica iniziativa culturale o sportiva possiamo intraprendere per educare le
nuove donne a non “stronzeggiare” così? Minacciamo loro di togliere George
Clooney dai teleschermi?
Quando
Giorgio Teruzzi parla di “figli da educare”, dovrebbe assolutamente tener
presente che:
1)
Chi ha oggi un figlio maschio, non può augurarsi che Quella sottospecie di
stato di natura rappresentato dall'età scolare (nella quale, mentre sulle
coetanee già fiorisce la bellezza, ai maschi non è ancora data la possibilità
di conseguire e mostrare doti con cui essere parimenti disiati amorosamente,
accettati socialmente, ammirati immediatamente e quindi, in attesa delle
ricchezze e dei poteri cui aspireranno con merito o fortuna da adulti, vivono
“giorni orrendi in così verde etade” se non troppo stupidi per capire la
situazione dietro il velo di maya dell'amore pseudouniversale predicato dalle
insegnanti) duri a vita, con delle presunte insegnanti in diritto di dirgli
sempre cosa è bene e cosa è male dall'alto di una presunta superiorità morale o
di una presunta maggiore maturità e delle belle fanciulle in potere di
irriderlo (nel pubblico o nel privato), ferirlo (nella psiche, nel sentimento, nel
disio) o tiranneggiarlo (nell'erotismo o nella vita) grazie a una
desiderabilità non compensabile. Leopardi ha scritto verità immortali ed
incancellabili su come si comportano le “melanzane”, soprattutto verso chi ha
intelligenza e sensibilità. E' evidente da come l'hanno trattato. E poi si
lamentano di chi diventa (o si finge) stupidi e insensibili! C'è sì da agire su
ragazzi e ragazze, ma non nel senso auspicato dal femminismo e propagandato da
Hollywood e Liberty Media.
2)
Hanno un effetto devastante sulla psiche e l’autostima dei giovani maschi
quelle pubblicità “glamour” nelle quali la figura dell’uomo, denudata anche
fisicamente, è ridotta a quella di un pupazzo da sollevare nell’illusione e
gettare nella delusione con il massimo dell’umiliazione e del dolore possibili,
addirittura (vedi quella della Breil di qualche anno fa) da gettare, ad
esempio, da un’auto in corsa (a differenza delle tanto vituperate pubblicità
“degradanti” per la donna rappresentata come un’oca bella, nelle quali comunque
rimane al sesso femminile il privilegio dell’apprezzamento per la bellezza e
del desiderio della fisicità, qui il nudo è veramente umiliante proprio perché
non ha valenza erotica e al sesso maschile non resta nulla per ricevere un
minimo di stima, di interesse, di ragion d’essere: solo disprezzo, rancore,
inganni e perfidia), nonché tutta quella cultura tanto “ufficiale” quanto
“informale” la quale, a volte con interpretazioni giornalistiche estemporanee
di notizie originariamente scientifiche (vedi gli studi sul cervello presunto
“multitasking”), a volte con dati parziali (si dice che le ragazze sono
mediamente più brave a scuola, ma non si fa menzione del dato sulla varianza –
la maggior varianza fra i maschi fa sì che fra noi ci sia sì il maggior numero
di somari, ma pure il maggior numero di menti eccellenti – verità che è costata
il posto, qualche anno fa, al rettore di Harvard) a volte proprio partendo dal
nulla (tipo “le donne sono rock”), non perde mai occasione per mostrare le
donne “superiori” in tutto (anche perché, laddove si mostrano invece superiori
gli uomini, interviene il femminismo più politically correct a parlare di
discriminazioni).
3)
Ormai le metastasi del politicamente corretto sono penetrate tanto in
profondità nell’istruzione che anche in corsi a livello universitario, con la
scusa di parlare in Inglese, si ascoltano “istruttivi e divertenti programmi
comici” dell’anglosfera in cui le due principali battute vorrebber non troppo
ironicamente convincere che (contrapposta a quella piena, raffinata complessa e
bla bla bla della donna) la mente dell’uomo sia una scatola vuota (come se, dal
vuoto di questa vita umana (data, guarda caso, dalle donne), non fossero stati
proprio gli uomini a creare le principali consolazioni dell’esser nati: l’arte,
la matematica, le religioni spirituali, e, non ultime, da ormai più di un
secolo a questa parte, le automobili da corsa) e un futuro progredito debba
possa soltanto essere a guida femminile (come se, nella realtà storica, non
fossero stati al contrario i popoli patriarcali – la Grecia Omerica, la Roma
Repubblicana, l’India Vedica, la Persia Iranica, la Germania Sacra e Imperiale
- secondo quei principi etico-spirituali virili, aristocratici e guerrieri, di
cui riecheggiano l’Iliade, l’Eneide, la Baghavad Gita, i poemi persiani l’Edda,
il Beowulf, a segnare, in fasi, luoghi e tempi diversi, il passaggio dal tutto
indifferenziato di un’umanità una-e-primordiale – egalitaria, matriarcale e
senza classi- alle strutture, alle gerarchie ed alle identità propriamente
storiche - senza le quali nulla, di quanto, nel bene e nel male, rende unica la
nostra specie, avrebbe mai potuto esistere, senza le quali nulla di quanto
siamo, come popoli e nazioni, avrebbe potuto differenziarsi, senza le quali la
storia stessa non avrebbe avuto nulla di diverso dalla zoologia - ad ordinare,
insomma, il chaos in kosmos e a prevalere sistematicamente, in ogni scontro di
civiltà, sui popoli matriarcali, non solo con le armi, ma anche e soprattutto
con la maggiore coesione sociale e la più decisa volontà di destino, petto alla
quale, sia detto per inciso, gli strumenti della cultura e della tecnologia
sono sempre agiti e giammai agiscono, come accade invece con noi, uomini
moderni dalla piccola politica e dalla debole volontà, che ci lasciamo cambiare
– ma dovrei dire degenerare antropologicamente - senza consapevolezza né
controllo da facebook e dallo smartphone, altro che “evoluti”!).