La Sublime Porta

"Signori e cavallier che ve adunati/ Per odir cose dilettose e nove,/ Stati attenti e quieti, ed ascoltati/ La bella istoria che 'l mio canto muove;"

Cuma, Temmuz 13, 2007

PER IL 14 Luglio - VISIONE CRITICA

















Domani sarà l'anniversaglio della Bastiglia. Urge da Costantinopoli una visione critica dell'avvenimento.

Innanzitutto l'illuminismo, negando l'autorità della tradizione ed il valore del trascendente, ritiene che tutto quanto esista di spirituale, e particolarmente le tradizioni culturali, possa essere costruito a comodo di chi comanda o di chi detiene l'istruzione. Dietro questo inganno hanno proceduto sia le ideologia successive, tutte portatrici del concetto di "homo novus" (come se quello di sempre dovesse essere estinto o distrutto) sia gli assurdi tentativi di pensare all'umanità come ad un "unicum" privo di sostanziali differenze (come vorrebbe il mondialismo capitalista che tutto appiattisce innanzi al profitto) e di distruggere di conseguenza ogni identità caratteritica dei diversi popoli. Ciò risulta drammatico perché vi è sotteso un errore di fondo. La cultura non si costruisce: si sedimenta. Non è simile a un edificio artefatto che possa essere freddamente progettato a tavolino, ma piuttosto ad una montagna o ad una pianura che si formi gradualmente nel tempo per lento ma sicuro agire della natura. Un popolo è quello che è non per volere o progetto di un gruppo di "scienziati sociali", ma per lungo corso di eventi, di lotte, di sofferenze e di gioie comuni, di evoluzione spirituale ed anche di errori. Come l'evoluzione naturale, non può essere deterministicamente voluta a priori. Se la cultura di un popolo si potesse ricostruire a tavolino non sarebbe più una identità: sarebbe come un qualsiasi esperimento riproducibile in laboratorio. Pensare di "costruire" la cultura con uno sforzo da parte di una classe intellettuale è come pensare di costruire in laboratorio una personalità umana. Se sarebbe mostruoso ciò per una risulta ancora più mostruoso per una moltitudine di persone come appunto un popolo. Una cultura costruita è una cultura artefatta e sta alla vera cultura tradizionale ed identitaria come una costruzione umana sta ad un paesaggio naturale. E' più saggio identificare un popolo con le sue tradizioni spirituali e non con quanto qualcuno ha costruito in pochi anni così come ha più senso identificare un luogo con le montagne e i fiumi che vi sono nei paraggi, più che con quanto un costruttore ha edificato l'anno prima (e che può essere distrutto l'anno dopo). Ad accorgersi di questo fu l'irlandese Edmund Burke, il quale, pur liberale "di sinistra", condannò la rivoluzione francese, sottolineando come, mentre nel mondo anglosassone il pensiero liberale non si fondava sul nulla ma affondava le radici nelle "libertà" medievali (risalenti addirittura alla Magna Charta), in quello francese, legato da secoli invece al centralismo regio (furono i re a fare la Francia, a partire dall'Ile de France, e non viceversa) risultava una costruzione affatto arbitraria.

Coerentemente a tali premesse, l'artifizio culturale illuminista ha voluto legarsi non già al bene di un solo stato (la Francia) ma a quello di tutta l'Umanità (fu allora che iniziò a scriversi con la maiuscola), non potendosi fondare su alcuna identità spiituale particolare ed avendo anzi la pretesa di crearne di nuove.
Gli Illuministi.hanno voluto far credere di aver inventato il concetto di libertà e liberato il mondo dall'oppressione, dall'ignoranza e da tutto quanto, creato prima di loro nella politica, nel pensiero, nella religione, nell'arte e nell'economia, tratteneva l'uomo nel buio, nell'ingiustizia e nella miseria ed era opera di una sorta di "Maligno".

Basterebbe considerare bene questo per comprendere come l'Illuminismo stesso si fondi in realtà sull'ignoranza sostanziale della vera storia dell'uomo e, sotto l'aspetto della "dialettica" e della "emancipazione" costituisca invece una delle prime forme di pensiero totalitario (che altro infatti significa ultimativamente dire "noi siamo la verità e tutto quanto è stato detto, pensato, sofferto e agito prima è stato opera del Maligno e chiunque non ammetta per veri i nostri principi è un nemico dell'uomo da perseguitare senza pietà, uccidere brutalmente e del cui sangue inondare i campi"?) e il padre di ogni futura ideologia (e quindi il primo responsabile delle tragedie del Novecento).

L'illuiminismo ha significato l'inizio della distruzione spirituale del mondo e delle identità dei popoli. Per arrivare a questo forniva una visione falsata ed anacronistica del Mondo della Tradizione.

La casta superiore non è formata da coloro i quali opprimono i sottoposti, li umiliano, li tiranneggiano, li privano di ciò di cui hanno bisogno, li sottopongono a sofferenze di ogni genere o al proprio capriccioso arbitrio, li fanno vivere nella frustrazione fisica e mentale e ne riducono la dignità o il grado di "compiutezza umana" e con essa la possibilità di realizzare la propria natura ed essere felici. Tutto questo è quanto invece avviene proprio nel mondo post-rivoluzionario, nel quale non esistono CASTE spirituali ma soltanto CLASSI economiche. Lì sì che le differenze, date dal semplice caso o dalla maggiore o minore prepotenza, nequizia, o spregiudicatezza nell'accumulare beni esclusivamente materiali, permettono a chi HA DI PIU' (attenzione: non a chi E' DI PIU') di sentirsi arbitrariamente in diritto di far pesare agli altri la propria condizione di privilegio. Un Luca di Montezemolo che può sfoggiare a tutti le proprie Ferrari e tacitamente considerare di serie B gli uomini che non sono stati in grado di raggiungere una posizione socio-economica tale da potersele permettere o una Paris Hilton che, con il chiaro messaggio "sono bella, ricca e stronza e mi posso permettere di tutto davanti a tutti", può mostrare con superbia studiatamente infantile e perfida vanagloria le proprie grazie corporali e le proprie ricchezze, nell'evidentissimo intento di far sentire
delle mere nullità tutti gli uomini che non godranno mai né delle une né delle altre e provocar loro in generale, sofferenza emotiva e frustrazione intima e disagio da sessuale ad esistenziale (nonché, credo, invidia a molte donne: a proposito, complimenti a Luciana Litizzetto) o ancora un Flavio Briatore che non perde occasione di dipingersi come l'uomo più intelligente e forte per il semplice fatto di essere riuscito (chissà in che modo e con che mezzi) ad arricchirsi senza essersi laureato né possedere preparazione specifica per nulla di assomigliante ad un lavoro utile all'umanità e per far sentire i tanti neolaureati studiosi e meno abbienti degli "sfigati", sono "prodotti tipici" della borghesia, non dell'aristocrazia.

La casta superiore, nel mondo spirituale, è fatta da chi, superiore prima di tutto ad ogni individualistica brama e ad ogni basso istinto di prepotenza, sopraffazione o umiliazione del prossimo, è chiamato, per le proprie doti di nascita e di educazione, a sacrificarsi più degli altri per il bene comune, a prendersi cura del regno come il padre di una famiglia, provvedendo innanzitutto al funzionamento ordinato e costruttivo dell'organismo sociale, cercando di dare ad ognuno in base ai suoi bisogni e di permettere a tutti di realizzare la propria natura e quindi di raggiungere la compiuta (e non solo apparente) felicità.

E' vero che la nobiltà settecentesca era ormai costituita da debosciati lontani da questo ideale e che per questo è caduta, ma è altrettanto vero che ciò non giustifica l'abolizione del principio aristocratico in favore di quello democratico. Sarebbe come se, per il fatto di non avere in un certo momento ingegneri validi a risolvere il problema, si decidesse di non avere più bisogno di ingegneri e di devolvere la gestione della centrale nucleare a votazioni a maggioranza fra gente ignorante in materia.

Le caste subordinate, nel mondo della tradizione, sono "inferiori" solo gerarchicamente, ma non implicano alcuna "inferiorità" spirituale, materiale o, peggio, ontologica dei loro appartenenti, nemmeno rispetto al re. Allo stesso modo in cui le cellule del fegato non sono "inferiori" o "meno importanti" rispetto al cervello o al cuore, l'artigiano o il contadino non sono inferiori o meno importanti rispetto al sovrano. Devono obbedire semplicemente per il funzionamento dell'organismo, non perché siano "meno umani" o inferiori per dignità. Nessun buon re avrebbe mai potuto permettersi di mancare di rispetto all'ultimo dei "servi della gleba". Se ciò è avvenuto negli ultimi periodi dell'anciem regime il motivo è stata propria la decadenza e la corruzione di questo, allorché principi e valori "illuministi" o semplicemente "materiali" hanno avvelenato anche coloro i quali avrebbero dovuto essere i baluardi dell'aristocrazia.

Tutte le ricchezze e gli splendori fra cui vive un re sono puramente funzionali ai propri doveri (allo stesso modo per cui una chiesa è adornata per testimoniare la gloria di Cristo) e non sono invidiati da chi vive in una modesta abitazione, giacché tutto quanto chi è più in alto ha di più non solo corrisponde a quelle che egli è in più (spiritualmente, per nascita ed educazione), ma è compensato dalle maggiori difficoltà e incertezze da lui incontrate nel compimento del proprio dovere.

Forse appare strano a noi, abituati a credere ogni valore e ogni verità risiedere nella pura materia inanimata, ma le ricchezze vere, per l'uomo della tradizione, erano e sono quelle spirituali, di cui le materiali sono il mero riflesso. E il fine supremo non era costituito dall'accumulo di beni terreni o da una vita piena di appagamenti terreni, ma dal perseguimento della più compiuta virtù e dal raggiungimento del premio eterno: la vera vita.

In questa prospettiva il contadino non aveva nulla da invidiare al re. Per il primo conseguire la salvezza eterna era relativamente facile: sottoposto a poche tentazioni e ad una vita regolare fatta di lavoro e preghiera, lontana da intrighi politici e dalla gestione di finanze e poteri, doveva solo compiere il proprio quotidiano dovere. Per il secondo, invece, chiamato a decidere per il meglio in un mondo terreno fatto di bramosie, nequizia, prevaricazione e inganno, era più soggetto sia a sbagliare in buona fede (con grave danno per i propri sudditi), sia ad essere corrotto dalla brama di cose terrene.

La felicità per l'uomo della tradizione non era un concetto speculativo come per l'uomo moderno, ma semplicemente il compimento perfetto della propria natura, in qualunque posto fosse della gerarchia. E tale compimento era più facile per l'anonimo legionario o per il semplice artigiano che non per un sovrano o un grande condottiero.

E' soltanto nel mondo in cui tutti sono proclamati uguali e possono essere e avere tutto che chi ha di meno è invidoso e si vede privato della possibilità di essere felice come chi ha di più. E' soltanto nel mondo "democratico" (in cui la qualità di tutti è proclamata uguale) che chi si trova in posizione subordinata nella scala socio-economica si vede ingiustamente oppresso e vede (giustamente) quelli più in alto come tiranni arbitrari o prepotenti protesi ad umiliarlo e a svilirlo, essendo la differenza fra lui e loro meramente quantitativa (basata sulla quantità di poteri o ricchezze posseduti) e non qualitativa (basata invece sullo spirito).

Le rivolte dal basso esistono proprio nel mondo post-rivoluzionario, mentre non esistevano affatto prima (se si eccettuano le rivolte degli schiavi nell'Antica Roma, nella quale, però, gli schiavi erano davvero trattato da "non uomini" a differenza dei servi della gleba medievali).

Chi sostiene la rivoluzione francese dovrebbe essere in grado di spiegare come avrebbero fatto gli "oscurantisti" a tenere oppressa la maggioranza del "popolo" per millenni, dato che gli stati moderni, dotati di strumenti di coercizione e di controllo MOLTO PIU' EFFICACI, non sono successivamente dimostrati non in grado di fronteggiare rivolte anche solo di parte della popolazione, da cui i continuo sommovimenti sociali e le infinite rivoluzioni dal 1789 ad oggi.

La risposta è semplice, e per questo i giacobini faranno scena muta: prima dell'illuminismo il concetto stesso di oppressione non esisteva.
L'ordine sociale era percepito come qualcosa di naturale e sacro al pari di quello della natura e rivoltarsi sarebbe stato come, per noi, rivoltarsi alla legge di gravità o al ciclo di nascita e morte.

Questo poteva essere perché le persone si sentivano appagate e, per quanto umanamente possibile, felici: non erano sottoposte, come ora, a frustrazioni continue di desideri, mode, voglie create ad arte, brame infinite di cose terrene, nè avevano la pretesa di poter diventare di tutto. Erano contente del proprio essere. Vivevano dunque coerenti con la propria natura e non si sentivano sradicate e irrequiete. Ciò era vero sia da un punto di vista materiale sia da un punto di vista spirituale.

La cosiddetta rivoluzione francese ha invece spazzato via tutto ciò, sostituendolo con tre parole: LIBERTA', UGUAGLIANZA, FRATELLANZA.

Leggendole meglio, si può capire quanto profondo sia l'inganno e quanto poco conveniente per l'uomo sia stato lo scambio.

LIBERTA'.
L'idea di libertà non è certo stata creata dalla rivoluzione francese, né tanto meno dagli illuministi. E' stata invece il centro della riflessione filosofica dai tempi di Platone fino all'Umanesimo di Lorenzo Valla e dei suoi dialoghi sul libero arbitrio. Il mondo della tradizione conferiva però alla parola non il semplice e degradante significato di "licenza" ("fare tutto quanto si vuole"), ma quello superiore di "compimenti perfetto della propria natura". Per questo in Dante la libertà era soprattutto libertà dal peccato. Essendo la natura dell'uomo creata ad immagine e somiglianza di quella divina, compiendo la perfezione e seguendo la virtà l'uomo realizzava la propria natura e con essa la propria autentica libertà. Come anticipato da Seneca, non si è liberi finché si è schiavi delle proprie passioni e degli interessi terreni. Non si pensi che tale concetto sia puramente religioso o addirittura legato ad un imperativo categorico cristiano del genere "fai il bene!" o, peggio, ad una sorta di tautologica tirannia del genere "sei libero di fare tutto ciò che noi ti diciamo". Questa sarebbe un'interpretazione superficiale. Significativamente, all'ingresso del Purgatorio è posto a guardia Catone Uticense, morto suicida. L'apparente paradosso (i suicidi sono esclusi dalla resurrezione della carne e dalla grazia di dio) è risolto proprio dal concetto di Libertà: l'uomo Catone (non cristiano, ma pagano e stoico) ha amato tanto la virtù e il compimento perfetto della propria natura, che il suo amore per la libertà (testimoniato dalla morte in Utica quando non era più possibile, con l'avvento del "tiranno" Cesare, vivere secondo virtù, giacché per un'antico non esiste virtù personale discinta da quella dello stato la quale si identifica solo con la repubblica), per la libertà intesa come compimento di sé, lo ha reso degno di essere non solo salvato, ma posto a guardia del Purgatorio, il quale nel Cristianesimo è proprio il luogo in cui le anime si purificano dal peccato, si liberano dei gravami terreni e, appunto, compiono la propria natura, immagine di dio (e quindi giungono alla libertà). La forza con cui Catone ha perseguito il compimento della propria natura, e quindi la vera libertà, si dimostra superiore alle ovvie differenze fra i concetti stessi di virtù, divinità, onore e suicidio del cristianesimo e dello stoicismo. La libertà è dunque il valore supremo del mondo tradizionale e l'illuminismo altro non ha fatto che degenerarla in licenza (fare tutto quello che si vuole finché non si viola la libertà altrui) con alcune contraddittorie conseguenze. Innanzitutto la definizione stessa, per evitare il pericolo di degenerazione dell'etica rivoluzionaria in un bellum omnes contra omnes in cui ognuno fa quello che vuole a danno di tutti gli altri, include la negazione assieme all'affermazione. Si ha dunque una definizione in "negativo" della libertà (è libertà fare tutto tranne quando danneggiamo gli altri), a differenza di quella in positivo della tradizione, fondata su quanto davvero l'uomo vuole diventare (il compimento della propria natura che è a immagine di Dio).
In secondo luogo non risulta precisato dove debba essere il confine fra la libertà di uno e la libertà di un altro. Questo genera infiniti dissidi e lotte di potere per stabilire dove si abbia diritto a fare quanto si vuole e dove tale diritto provochi danni e limitazioni alla vita dell'altro. Senza un principio trascendente (tutto quanto non è descrivibile sotto la specie sensibile non rientra nel discorso illuminista) non vi può essere alcun accordo stabile né alcun sistema di riferimento davvero valido per accordarsi su quanto sia lecito. Inoltre il lecito o l'illecito vengono qui stabiliti unicamente sulla base della volontà della maggioranza o dei puri rapporti di forza fra persone con interessi diversi e possono dunque risultare assai divergenti da quanto dovrebbe essere secondo un'etica organica e spiritualmente fondata.
Infine, proprio per questo, un principio che si ritiene immortale (la libertà illuminista) contiene nella definizione stessa il germe della corruzione temporale e della fugacità: il confine fra la libertà dell'uno e quella dell'altro, fra il lecito e l'illecito è destinato, come tutto quanto viene deciso arbitrariamente da uomini a maggioranza, a variare a seconda dei tempi, dei costumi e delle opinioni del volgo.

UGUAGLIANZA.
L'idea di uguaglianza è quanto di più degno di essere rifuggito vi sia da parte di un organismo vivente, e quindi anche da parte di una società.
Una società gerarchica sta ad una egualitaria come un organismo vivente sta ad un oggetto inanimato. Se noi dividiamo in due un sasso otteniamo due sassi, qualitativamente indistinguibili, proprio perché si tratta di parti "uguali". Se invece dividiamo in due un animale otteniamo due cadaveri, non due animali, e questo perché l'organismo dell'animale è strutturato in parti qualitativamente diverse le quali adempiono funzioni diverse, complementari e parimenti indispensabili: se le separiamo distruggiamo la vita. La rivoluzione francese ha invece convinto le cellule dell'organismo sociale a non rispettare più l'ordine naturale, la funzione per cui sono nate e a inseguire l'illusione d potere e dovere essere, in sé, tutto. Per questo ogni persona ha iniziato a vivere per conto proprio, a propagarsi secondo il proprio esclusivo interesse, percependosi come fine in sé, persuasa di poter così raggiungere la felicità. Questa malattia, in un organismo vivente, si chiama cancro. Stranamente, per il mondo umano, si è chiamata emancipazione (o uguaglianza, che è l'altra versione).
La promessa di felicità è un inganno. Come accennato prima, proprio perché, con l'affermazione di un'uguaglianza fra cittadini, si ha l'idea di poter essere ed avere tutto, ci si sente infelici ed oppressi: infelici poiché, non essendo umanamente possibile avere ed essere tutto, qualunque cosa si riesca a diventare e a possedere, rimane comunque infinito il distacco con l'aspettativa (come nota Schopenhauer, la felicità non deriva degli eventi in sé, ma dal loro rapporto con le nostre aspettative e con le nostre prospettive), oppressi poiché qualunque (anche minima) differenza in essere o in avere rispetto ad un'altro sarà causa sempre di invidia e spesso di sentimento di ingiustizia (non essendoci alcuna differenza qualitativa con l'altro ci si chiederà sempre perché questi debba avere o essere più di noi, e se vi sarà una risposta "meccanicistica", del genere "ha studiato di più", "è stato più bravo", "ha avuto più fortuna", "ha più doti", "ha avuto le occasioni giuste", qualunque argomentazione sarà valida per annullarla e ricondurre tutto a presunte "ingiustizie" e "oppressioni" da noi subite, mentre mai tali obiezioni verranno in mente per giustificare quanto NOI saremo o avremo più di altri: questa è la natura dell'egoismo umano).


FRATELLANZA.
Questo è il punto in cui la Rivoluzione Francese ha platealmente fallito. Mentre il mondo della tradizione aveva fortissimo il senso della solidarietà, non solo negli altisonanti discorsi dei potenti ma nelle loro effettive azioni (ogni corte aveva un elemosiniere, gli ordini cavallereschi avevano l'aiuto ai bisognosi fra i loro compiti "istituzionali", l'amministrazione delle terre curava che i "servi della gleba" non morissero di fame), quello liberale ha forte solo il senso dell'interesse personale (o della fratellanza nel senso esclusivo di lobby di tipo massonico) e gli stati si preoccupano di povertà e disagio solo quando, per la reazione inevitabilmente violenta dei più sfortunati, questi fenomeni possono provocare problemi di stabilità politica o di ordine pubblico. Lo sfrenato egoismo della società moderna, fondata sull'accaparrare ricchezza ad ogni costo, in confronto "all'era buia" in cui una parte consistente della popolazione (di nascita non povera né emarginata) sceglieva liberamente di diventare monaco, di vivere in povertà e di aiutare i bisognosi (non è retorica: basta leggere i dati storici sul numero di frati e monaci e sul valore economico complessivo delle donazioni che venivano fatte correntemente ai monasteri ed alla chiesa per opere di carità: oggi si direbbe "di assistenza sociale", e come ci sono inefficienza, sprechi e ruberie e corruzioni oggi ve ne erano anche allora, ma ciò non inficia la validità dello "stato sociale" di quel tempo).
Le grandi differenze fra i ricchi con la barca e l'auto di lusso e i poveri delle periferie metropolitane sono proprie della società industriale, non di quella tradizionale. Nell'ancien regime i nobili vivevano sì lussuosamente, ma non lasciavano che, fra il popolo, vi fosse chi, sfruttando il lavoro e la povertà di altri, divenisse più ricco del re (questo è oggi il significato dei miliardari e delle multinazionali i cui introiti superano il valore alcuni bilanci statali) lasciando gli altri a morire di fame o a vivere nell'indigenza. La povertà c'era, specie se un raccolto sfavorevole metteva in crisi il sistema non ancora teconologico di produzione, ma veniva arginata, per quanto possibile con gli strumenti dell'epoca, dal continuo intervento dello stato e della chiesa tramite istituzioni millenarie (ordini religiosi, distribuzioni regali). Il mondo tradizionale faceva dunque il massimo compatibilmente con gli strumenti tecnici di allore. Il mondo illuminista della "fratellanza", invece, pur avendo a disposizione risorse e strumenti (sia tecnici, sia politici) per far vivere l'intero pianeta nell'agiatezza, lascia che milioni di persone muoiano ancora di fame o di epidemia (per cause che sarebbe troppo lungo elencare).
Questo non è lo sfogo irrazionale di un reazionario. è un dato oggettivo. Molti prima di me (anarchici, comunisti, ecc.) lo hanno notato, ed hanno tentato di risolvere il problema, ma il rimedio (anarchia? dittatura del proletariato?) si è storicamente rivelato peggiore del male (la burocrazia del partito con il compito di liberare l'uomo dalle catene capitaliste, dove questo è giunto al governo, si è in realtà trasformata in una banda di tiranni pronta a sfruttare il proprio potere ed i propri privilegi in maniera ancora più oppressiva, nociva e distruttiva, perchè questa volta fondata in modo del tutto arbitrario o violento e non legittimato nemmeno dal lavoro e dall'investimento, rispetto ai capitalisti cui ci si doveva ribellare).
Pare dunque che, senza l'ammissione di un principio trascendente l'uomo non trovi alcuna motivazione (diversa dalla pura coercizione) per limitare il proprio interesse a vantaggio di quello di altri. E del resto, perché si dovrebbe fare ciò senza una giustificazione ideale? Mica è un fatto naturale l'altruismo. Non è dunque colpa dell'uomo egoista se il mondo non è solidale, ma della distruzione di ogni trascendenza. Un filosofo contemporaneo sostiene addirittura che un mondo liberale perfetto non potrebbe esistere e, se quello attuale ancora più o meno funziona, ciò dipende soltanto da quanto di non liberale e anzi di medievale (di solidarietà, di storia, di cavalleria, di identità, di tradizione)ancora sussiste nello stato attuale.
Inizio a dargli ragione.

SALUTI DALLA SUBLIME (e reazionaria) PORTA

P.S.
Io stesso vivo nel desiderio di viaggiare su auto sportive e costose per inebriarmi della velocità e del prestigio e di poter pagare modelle bellissime per godere delle loro grazie corporali. Non è dunque mia volontà presentarmi quale censore dei costumi contemporanei e critico moralista dei desiri terreni di oggi. Mi limito a constatare l'abisso che separe tutti noi (me compreso) dal mondo organico della Tradizione basato su altri valori ed altri desideri. Non invito nessuno a rinunciare ad alcunché. Sostengo soltanto l'opportunità, per decenza intellettuale, di godere il presente, se davvero vi è qualcosa da godere, senza insultare un più glorioso passato. Certe feste francesi dunque non mi appartengono. Forse è proprio nell'abisso orrido nascosto dietro di esse, dietro le grandi parole d'ordine della "civiltà moderna" (libertà, uguaglianza, fratellanza), che è da ricercare il motivo dell'irrequietezza e del disagio dell'uomo moderno, spiritualmente una casa senza fondamenta, un viaggiatore senza meta, un esule senza patria, una pianta senza radici.

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