La Sublime Porta

"Signori e cavallier che ve adunati/ Per odir cose dilettose e nove,/ Stati attenti e quieti, ed ascoltati/ La bella istoria che 'l mio canto muove;"

Salı, Temmuz 03, 2007

IN DIFESA DEGLI ULTRAS










Mi è giunta ieri a Costantinopoli la notizia che il giovane ultras catanese accusato della morte dell'ispettore Raciti è stato nuovamente incriminato per omicidio. Con tutto il rispetto per la polizia e per il suo insostituibile ruolo, temo che, assieme al "caso Corona", si stia trattando dell'ennesimo esempio di accanimento giudiziario contro una persona gravata non tanto di colpe proprie quanto del fatto di rappresentare un mondo contro cui un certo mondo di giudici, di moralisti e di sedicenti intellettuali" vorrebbe muoversi a processo.

Così come per "vallettopoli" l'obiettivo non sono gli eventuali colpevoli e gli eventuali reati, ma la messa alla gogna di un costume arbitrariamente ritenuto "immorale" da parte di una cricca di giudici ispirata dal talebanesimo occidentalista di stampo angloamericano (e sostenuta culturalmente dal catto-femminismo italico), sessuofobico e nemico del desiderio di natura dell'uomo in quanto tale (e quindi nemico di ogni sua espressione chiara e schietta, ab-soluta e discinta degli obblighi e dai doveri dei rapporti di coppia, quale può essere il culto di Venere Prostituta nelle sue varie forme esplicite o implicite, siano esse di accompagnamento dichiaratamente retribuito o di scambio tacito di favori sessuali per privilegi di carriera), per il caso dell'ispettore Raciti l'obiettivo non è il ragazzo incriminato di omicidio, ma gli Ultras tutti in quanto tali, e quelli di Catania (e di destra) in particolar modo.

Tale attacco si estende poi a tutti gli Ultras, anche ai comunisti di Livorno (comunque simpatici), giacché sono il principio della fede calcistica quale motore d'azione, l'identità ultras quale sinonimo di appartenenza a qualcosa di simile ad una casta guerriera e l'espressione del tifo organizzato e degli strisiconi quale forma artistica moderna ad essere sotto processo.

A tale attacco, duro come mai è dura la reazione dello stato contro crimini comuni quali furto, rapina ed ormai omicidio (non hanno ormai pene severe nemmeno gli infanticidi) rispondo in maniera ancora più dura.

Se il minorenne accusato della morte di Raciti fosse davvero stato capace di uccidere un uomo, un poliziotto adulto e robusto e pronto alla lotta, fra l'altro, con un solo pugno al ventre, allora lo arruolerei fra i Giannizzeri per far gran strage dei miei nemici. Visto che non sono così ottimista da pensarlo, risulto propenso ad accettare la tesi dell'investimento da parte di una camionetta guidata da colleghi che per ovvi motivi devono essere protetti e a sospettare l'accusa del giovane quale "capro espiatorio". Chiunque abbia vissuto (come me, da giovane, in incognito) qualche tafferuglio sa come funzionano le cose in quei momenti di disordine e di arbitrio e come non sempre efficiente e responsabile sia il comportamento dei tutori dell'ordine (quale ordine, parlando di Italiani?).

Come reagire a questo stato di cose? Subendo la repressione, come vorrebbe lo Stato? O porgendo l'altra guancia, come vorrebbe la Chiesa?
Al di là della politica ed al di là del bene e del male, se fossi in curva con i livornesi attaccheri alzando il pugno e gridando "viva Stalin", mentre se fossi con i laziali saluterei col braccio teso prima di gridare romanamente battaglia (evocando il "barritus" dei legionari), giacché tutto ciò avrebbe una valenza prima di tutto estetica e di appartenenza, non già ideologica.

Io ho nell'essere esteta e nicciano la stessa determinazione che un Catone Uticense aveva nell'essere stoico. Parafrasando il guardiano del Purgatorio Dantesco, io preferisco la bellezza senza vita alla vita senza bellezza. Io sarei capace (come del resto lo furono i Tedeschi) di creare una Guerra per la Bellezza, giacché prediligo una poesia grande, eroica, terribile, ma creatrice, che al limite genera morti, ad una vita priva di poesia per colpa di una morale limitatrice e sterile, di un immobilismo pavido e infecondo d'arte, di un pacifismo effemminato e di un maternalismo protettivo (il fatto poi che l'infame decreto il quale vieta gli striscioni sia stato emesso l'8 marzo mi rafforza nel convincimento e mi rinsalda nella determinazione).
Come già capirono i Romantici Tedeschi, e dopo di loro più compiutamente il Nietzsche della nascita della Tragedia, la vera bellezza non è discinta dal grande e dal terribile e quindi dal fluire dionisiaco della musica.

Non ho alcuna remora a sostenere con fermezza come la coreografia ultras, la passione calcistica, le urla assordanti, le grida, gli incitamente e persino gli insulti, il tifo scatenato al limite del tafferuglio, le gioie, i dolori, le ire e le commozioni, le paure e le esaltazioni condivise da migliaia di persone nello stesso luogo e nello stesso momento, il coinvolgimento corale e soprattutto i messaggi, rimati o meno, le immagini, le musiche, le metafore e le invenzioni poetiche degli striscioni costituiscano l'ultimo esempio rimasto nella società occidentale antivitale di Grande Arte, nel senso più profondo e più vero di fusione suprema fra apollineo e dionisiaco che alla parola ne dava Federico Nietzsche, così come ne avrebbero dato i Greci.

Lo stadio è per l'ultimo uomo occidentale quello che per il greco era il teatro e la partita di calcio quello che la tragedia attica era per l'antico. L'aspetto apollineo è sin troppo evidente nella "rappresentazione" della partita e dei suoi schemi (i giocatori sono attori di un dramma sportivo e di una sfida eroica, ma al contempo personaggi rappresentanti ciascuno un carattere o una virtù: l'attaccante, il difensore, il fantasista, il tornante ecc.) e soprattutto nella preparaziona razionale della gara, con le sue regole, le sue tattiche, le sue disposizioni sul campo, le sue modalità lungamente meditate, il suo ordine e le sue geometrie.
Nel furore del tifo, invece, nelle nel trasporto della musica e del canto, nella bellezza coreografica, nell'oblio della dimensione individuale per quella collettiva, nel cessare di sentire e soffrire per gli affanni quotidiani e nel farlo invece per le vicissitudini della squadra nelle quale ci si identifica, nell'abbandono momentaneo delle proprie preoccupazioni, del proprio stato sociale ed economico, della quotidianità tutta e del proprio "ruolo" nel mondo come singolo, dell'identità personale insomma, in favore di un'io collettivo che prorompe dallo stadio gremito di ultras così come l'essenza dell'erte emergeva dal coro tragico, nello smettere di vivere quali effimeri individui per elevarsi ad una vita più piena e più alta nell'unità del tifo, nel rompere provvisoriamente tutti i legami con la propria condizione di mortale e assurgere alla vita più nobile ed universale delle eterne creature dell'arte, vi sono tutta la rottura del principium individuationis apollineo e tutta la furia orgiastica della vita primigenia cupida di sè e antecedente la frammentazione in individui proprie del Dio dell'Ebbrezza amato da Nietzsche e vitale per la Grande Arte.

La criminializzazione, sociale, culturale, mediatica o addirittura penale degli ultras è la criminalizzazione del dionisoaco e il divieto per gli striscioni, le bandieri, i tamburi, i cori, la coreografia è un divieto dell'espressione più vitale dell'arte contemporanea.

La poesia non si identifica con il diario sentimentale di una pulcella o di un garzoncel scherzoso o con lo sfogo letterario di uomini e donne mossi da un qualche bisogno psiocanalitico o da semplice mania di protagonismo o voglia di raccontarsi: si identifica con l'espressione unica e immortale da parte di un poeta di quanto tutti provano.

Diceva Gothe che la poesia spronfonda quando è soggettiva mentre si eleva ai vertici della compiutezza e della perfezione quanto più risulta oggettiva.

La poesia non è un'espressione dell'anima (intesa come identità soggettiva), ma dello spirito (inteso classicamente quale entità oggettiva emergente sì dalle singole anime ma ad esse superiori e in grado di illuminarle e guidarle dall'alto, come nel Mondo della Tradizione).

Il poeta non è una singola anima pensante, ma l'uomo universale.

In questo senso è molto più poeta l'ultras che riesce ad esprimere con uno striscione, con uno slogan furente o ironico, con una rima sagace, con una immagine irridente i sentimenti provati da tutti gli appartenenti ad una fede calcistica rispetto al letterato che riempie le pagine di paroloni e il tempo dei lettori di discorsi politicamente corretti ma effettivamente sentiti soltanto da una minoranza arbitrariamente autoproclamatasi "mondo della cultura"e pronta a definire "incivili" i portatori di valori spirituali diversi e soprattutto veri (nel senso di realmente sentiti).
I valori degli Ultras sono spesso ripresi dall'immortale etica guerriera, di cui tutto il mondo dovrebbe avere rispetto in quanto alla base della civiltà occidentale dai tempi di Omero, mentre sono quelli dei loro contestatori a non avere alcun fondamento filosofico o artistico, e a poggiare sulla mera illusione illuministica (molto cara alla sinistra) che la cultura si possa "costruire" artificialmente come si farebbe con una casa di mattoni e che quattro pezzi di carta chiamati "convenzioni", "diritti universali", "costituzioni" e privi sia di fondamenta nella tradizione, sia di autorità spirituale, possano "costruire" dal nulla un'etica e soprattutto uno spirito. Per fortuna che certa gente tanto leggera sulle fondamenta non costruisce case, altrimenti vivremmo in un mondo di rovine anche in senso letterale.

Di sicuro oggi un mondo senza la musica del tifo, senza la poesia degli striscioni, senza le immagini della coreografia sarebbe un mondo totalmente privo di arte. Stolto è chi critica tali espressioni come "sfogo di beceri individui". Abbiano tali critici il coraggio di definire beceri i poeti che da Catullo a D'Annunzio hanno avuto come fonte della loro ispirazione e come fulcro del loro sentile proprio la vitalità pesante e immortale delle pulsioni di natura e la profondità degli istinti, e non già la superficialità transeunte della morale o la levità delle varie costruzioni intellettuali.
L'arte vera, quella che, come dice Nietzsche, sa compiere il "miracoloso atto metafisico" di conciliare l'inconciliabile, ossia il mondo dell'Apollineo con quello del Dionisiaco, non può non sorgere da un profondissimo desiderio di natura, non può non sgorgare da un abisso primordiale della vita cupida di sé; quando ciò non avviene ed essa perde i suoi legami con il substrato insondabile e tragico dell'esistenza, diviene troppo celebrale e da arte degenera in artificio, come in effetti è accaduto in taluni periodi storici. Si pensi all’eccessiva astrazione barocca, all’esasperato razionalismo settecentesco o anche al periodo postmoderno, nel quale è impossibile comprendere un’opera senza che il critico la spieghi.

Fin dai tempi primordiali della poesia la parola aveva una funzione sacrale di coinvolgimento collettivo, come la musica cui era accompagnata: oggi sono più sacre le parole di un coro, che possono muovere migliaia di persone ad agire, a gioire e a pugnare in nome di un ideale calcistico, rispetto a quelle di un poeta moderno letto solo dai pochi appartenenti a quella cerchia autoreferenziale rispondente al nome di "intellettuale" e incapace di infiammare l'animo di chicchessia.

Dato che ormai a teatro si recano solo gli appassionati di un mondo ormai (ahimé) scomparso (quello della corte imperiale di Vienna, per intenderci, dei Metastasio e dei Mozart), nessuno compone più opere dai tempi di Puccini e le uniche nuove produzioni tanto della lirica quanto del teatro in genere riguardano puri sfoggi celebrali privi di qualunque valenza veramente artistica e creati solo per il compiacimento di chi vuol dirsi "intellettuale alternativo alla tv" e di chi per questo riceve soldi dal governo e soprattutto nessuno davvero piange, gioisce, si dispera, esplode di felicità per un'opera di teatro, mentre milioni di persone possono morire di dolore, esultare in massa per una nottata, trattenere il respiro dall'emozione, o persino, nell'eccesso, uccidere, per una partita di calcio, dovrebbe allo stadio essere riconosciuto lo status che fu nell'Antichità del Teatro.

Solo lo stadio ha oggi la capacità di attrarre, di appassionare e di identificare con la propria rappresentazione una parte consistente della cittadinanza (come in effetti avveniva nell'Attica). Solo il calcio, al di là di ogni proclama "politically correct" su senso civico ed etica, è oggi NEI FATTI quell'elemento culturale comune in grado di creare fra gli uomini uno spirito, un'identità collettiva, un sentire comune.
Il calcio non è un gioco: è la rappresentazione scenica della guerra, dell'eroismo, dell'identità spirituale. Il luogo in cui si gioca il calcio non dovrebbe essere considerato un luogo puramente sportivo o di divertimento, ma piuttosto un templio, o comunque un teatro dato alla celebrazione di riti. In esso, dunque non possono e non debbono valere le medesime regole del mondo esteriore ed apollineo (come pretenderebbero certi giornalisti sciocchi e proibizionisti), ma quelle interiori e profonde dell'arte, del teatro, della religione.

Nello stadio dovrebbe avvenire quella sospensione momentanea del principium individuationis apollineo per cogliere il fluire indistinto della vita senza nome e senza identità, per dare libero sfogo alle pulsioni dionisiache, per esprimere la profondità vitale del dio dell'ebbrezza. Così, allo stesso modo nel quale nell'Antica Grecia si concedevano momenti e luoghi a Dioniso come contropartita dal mantenimento dell'ordine di Apollo, oggi, con opportune regole (da ispirare a quelle del mondo classico, dalla tragedia dell'attica ai giochi circensi romani), sarebbe possibile allo stadio sperimentare l'estasi, la forza e la follia del dionisiaco senza danno per la società e godere della furia primigenia della natura, dell'abisso orrido di essa, dell'unità primordiale della vita, del mondo dionisiaco insomma, senza che l'ordine apollineo sia rotto per sempre nella realtà.

Ciò viene meno se le limitazioni di legge agli striscioni e ai cori e al tifo organizzato in genere impediscono la creazione del corrispettivo del coro tragico.

Non è dunque anormale che la conseguenza di questo sia lo sfogo dionisiaco laddove invece servirebbe ordine apollineo. Dioniso punisce infatti con la follia chi non lo riconosce come dio.

Le regole attuali non eliminano la violenza negli stadi, ma, al contrario, ne tolgono la poesia, la fantasia, la creatività, per lasciare solo e soltanto la violenza latente, nello stadio e nel mondo, a livello distruttivo e non certo costruttivamente artistico.

Sia dunque emessa una fatwa contro coloro che con le loro leggi anti-violenza tolgono dagli stadi la poesia e lasciano la violenza.

Così sia scritto, così sia fatto, In Sha' Allah

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