Sul finire dell'estate del 1917, se l'Esercito Italiano era stremato dalle continue offensive, provato nel morale dal dover combattere da tempo in territori lontani, montuosi e non concepiti come italiani, mentre la meta sognata di Trieste appariva irraggiungibile, e in parte colpito dal fenomeno delle diserzioni (anche se in misura nettamente minore dell'esercito francese e probabilmente anche della media degli altri eserciti) e della propaganda disfattista, quello Austro-Ungarico si trovava, come detto ieri, in condizioni ancora peggiori: non meno stanco e provato materialmente e moralmente ed anche minato nella coesione interna (molti fra i sudditi-soldati cechi, ungheresi, polacchi e anche italiani non vedevano nell'Impero una patria da proteggere ma, semmai, un nemico che opprimeva la propria nazionalità, per cui all'occasione disertavano volentieri e fornivano anche informazioni preziose), sul limite estremo dell'ultimo baluardo difensivo naturale (la Bainsizza) a corto di riserve, e duramente logorato in uomini e mezzi, tanto da non potere, nel giudizio del suo comandante in capo Von Arz, sostenere un ulteriore attacco italiano. Fin dal 25 agosto dunque il suddetto Von Arz chiese aiuto al collega tedesco Von Falkenhayn e per poter giustificare la presenza di un consistente ragguppamento di forze germaniche sul fronte dell'Isonzo dovette prospettare non un semplice aiuto difensivo, bensì un'offensiva decisiva. Ora vediamo finalmente com essa venne preparata e dettagliata.
I PREPARATIVI TEDESCHI
Quando lo stato maggiore tedesco venne richiesto dai colleghi austriaci di preparare un'offensiva contro l'Italia, il Feldmaresciallo Von Falkenhayn incaricò il generale Kraft Von Dellmensingen di ispezionare il fronte italiano per trovarne i punti deboli e pianificare in base ad essi un piano in grado, grazie all'impiego delle innovative tecniche di infiltrazione appena sperimentate dalle truppe scelte germaniche su altri fronti, di ottenere un successo decisivo. Molti fra i comandanti austriaci premettero su Kraft per un'offensiva in Trentino, contro la Prima Armata Italiana, come nel 1916, ma l'idea venne rigettata dal geniale ed esperto generale tedesco, in base a due considerazioni. In primis, poiché un'offensiva simile era già stata tentata più di un anno prima da Conrad con un poderoso dispiegamento di uomini e mezzi ed era stata respinta dagli Italiani, non si capiva perché questa volta avrebbe dovuto riuscire, considerando che gli Italiani avevano avuto modo nel frattempo di migliorare il sistema difensivo, rettificare e razionalizzare il fronte ed capitalizzare l'esperienza sul modo di far affluire riserve per rimediare ad eventuali sfondamenti, in secundis, sarebbe mancato, attaccando in un punto così ovvio (era evidente anche solo da uno sguardo superficiale sulla cartina come un attacco dal Trentino avrebbe chiaramente permesso in caso di sfondamento di sboccare immediatamente nella pianura, togliendo, in caso di prosecuzione dell'offensiva verso il Po o lungo il corso dell'Adige, ogni rifornimento e ogni via di fuga ai tre quarti dell'esercito italiano impegnati a est sull'Isonzo) l'elemento sorpresa, che l'esperienza su tutti i teatri operativi aveva sancito come invece discriminante decisiva fra un attacco in forze arginato (magari a fatica) dal nemico e uno in grado di sfondare il fronte. Eliminata dunque l'ipotesi di attaccare il settore trentino tenuto dalla Prima Armata, rimeva quella di aggredire l'altro estremo del fronte: la Terza Armata sul carso, ma poiché due anni e mezzo di sforzi italiani di avanzare sull'altipiano avevano prodotto, a fronte di perdite immense e nonostante spiegamento di forze importanti sia in artiglieria sia in numero di fanti, spostamenti di pochi chilometri del fronte (al massimo qualche decina), senza alcuna conquista veramente significativa, una semplice applicazione del principio di reciprocità e un serio rispetto del valore militare degli italiani consigliarono Von Dellmensingen di non sprecare le proprie forze in un settore tanto ostile all'attaccante. Avrebbe potuto apparire interessante concentrarsi sui settori del fronte meno difesi dalle armate italiane: quello del Cadore, tenuto dalla Quarta Armata (la meno "potente") o quello della Carnia, difeso soltanto dal XII Raggruppamento Alpini, ma pensare di attaccare in forze in settori del fronte in cui le prime linee correvano su ghiacciai a 3000 metri o sulle vette rocciose di montagne che sono esattamente la cresta della catena alpina orientale pareva troppo persino per l'attrezzatissimo esercito tedesco. Non rimaneva dunque altra scelta logica che sferrare l'attacco contro la Seconda Armata di Capello, l'armata più potente e numerosa ma anche la più complicata e la più irrazionalmente disposta. Dopo l'offensiva sulla Bainsizza, infatti, solo un corpo d'Armata (il IV di Caviciocchi), per un totale di tre divisioni, era stanziato fra il Monte Canin e la riva destra dell'Isonzo davanti a Tolmino, mentre tutte le restanti (e assai ingenti)i forze dell'Armata (ivi comprese le numerose batterie di artiglieria media e pesante) si trovavano a sud di Tolmino sulla riva sinistra, protese sull'Altipiano della Bainsizza o nella zona attorno a Gorizia, laddove erano riuscite ad arrivare nel corso delle undici offensive passate. Una mente ottusa e tradizionalista, o semplicemente "difensivista" avrebbe pensato a questo punto di schierare le forze tedesche davanti a Gorizia o sull'estremo orientale della Bainsizza, dinnanzi al grosso dell'armata di Capello, per arginare le sue prossime offensive. Poiché però il Von Dallmensingen non aveva semplicemente il compito di aiutar Boroevic a difendersi da Capello, ma quello di sferrare un attacco decisivo, e poiché nessun attacco decisivo né tantomeno nessuno sfondamento poteva avvenire, con le armi della prima gurra mondiale, opponendo un muro di forze ad un altro muro di forze, un piano più ambizioso, più rischioso e più originale venne elaborato. Kraft Von Dellmensingen pensò dunque di concentrare le 15 divisioni austro-tedesche di cui avrebbe potuto disporre proprio nel settore compreso fra il Monte Canin e la testa di ponte austriaca di Tolmino, contro le sole tre divisioni italiane, non investendo direttamente nella prima fase il grosso delle forze di Capello. Contro ogni tradizione della guerra di montagna, la quale prevede, prima di avanzare in fondovalle, di essersi assicurata la conquista delle vette da cui questi possono essere controllati, egli pensò di avanzare contemporanemante dalla conca di Plezzo e da Tolmino, ricongiungersi nel fondovalle dell'Isonzo, nulla curandosi delle vette d'intorno tenute dagli Italiani, e da lì investire in forze la dorsale Monte Maggiore- Monte Stol,
da cui sboccare nella valli dello Iudro e del Natisone, dalle quali non vi sarebbe più ostacolo alcuno verso il Tagliamento. Minacciate di sì grande accerchiamento, tutte le forze italiane schierate a sud di Tolmino (vale a dire le due Armate dell'Isonzo intere ad eccezione del IV Corpo della Seconda), pur intatte, avrebbero dovuto ritirarsi oltre quel fiume.
Per funzionare, il piano avrebbe dovuto essere attuato con sorpresa e celerità, per impedire al grosso delle forze della Seconda Armata di attraversare l'Isonzo e correre in soccorso della propria ala sinistra (IV Corpo d'Armata), annullando la superiorità numerica austro tedesca in quel settore e bloccando l'avanzata prima che questa potesse sfondare o aggirare la linea dell'Isonzo. E anche supponendo questo, rimaneva l'incognita di quello che avrebbe potuto fare l'artiglieria italiana (potente e ben rifornita) la quale, sia dalle dorsali a destra dell'Isonzo, sia dai Monti alla sinistra del fiume conquistati (Monte Nero, Monte Rosso, Kuk, Vodice ecc.) e addirittura dalle vette attorno alla Bainsizza, avrebbe potuto inchiodare l'avanzata austrotedesca (o almeno comprometterla fortemente, con distruzione dei rifornimenti e decimazione delle truppe) sul fondovalle dell'Isonzo anche prima dell'invio di truppe di fanteria di rinforzo.
Per questi motivi il feldmaresciallo Boroevic, che dai lunghi anni di guerra di posizione sul fronte isontino aveva tratto grandi esperienze, fu assai scettico sul piano di Kraft Von Dellmensingen, e dichiarò apertamente che "noi non arriveremo mai al Tagliamento. Mai, mai." Forse diceva questo anche perché non era a conoscenza delle nuove tattiche avanzate della fanteria tedesca, oppure perché, diffidando dei tedeschi e guardando all'interesse e alle preoccupazioni immediate dell'Impero Austro-Ungarico avrebbe preferito un'offensiva più limitata, sferrata sì nel settore Plezzo-Tolmino, ma avente come scopo primario la salda conquista della riva destra dell'Isonzo a nord di Tolmino, per rafforzare la testa di ponte e di lì procedere verso sud minacciando di avvolgimento l'intera Seconda Armata, la quale sarebbe stata costetta ad abbandonare la Bainsizza e a ritirarsi sulla destra del fiume, rendendo di nuovo sicuro il fronte per gli Austriaci e annullando tutte le conquiste italiane dall'inizio della guerra.
Le obiezioni di Boroevic tradivano troppo il progetto difensivo originario degli austriaci, che era in contrasto con le direttiva strategiche generali tedesche improntate a non distogliere mai truppe da altri fronti per impegnarle nelle difesa: la semplice messa in sicurezza del fronte isontino con la conquista della riva destra e la cacciata degli italiani dalle posizioni da loro conquistate in precedenza non avrebbe giustificato agli occhi del comando germanico un dispiego così ingente di forze.
Le obiezioni austriache vennero dunque trascurate e l'alto comando tedesco approvò il piano di Kraft Von Dallmensingen, costituendo la 14° Armata germanica, con 7 divisioni tedesche e 8 austriache tutte tolte dal fronte orientale. L'armata venne posta al comando del generale Otto Von Below (uno dei militari più capaci dell'intero conflitto) e Kraft Von Dallmensingen fu nominato suo capo di stato maggiore. I piani divennero operativi a partire dal 12 settembre. Come previsto dal piano, questa forza d'urto di 15 divisioni venne radunata come forza autonoma nel settore della Alpi Giulie da Plezzo a Tolmino, ossia fra le truppe da montagna della Edelweiss che presidiavano la Cresta Carnica e la Isonzo Armèe di Boroevic. A quest'ultima vennero solo assegnate 5 divisioni (tolte dal fronte trentino) per rinforzare la precaria e provata difesa da Tolmino al mare.
LA SICUREZZA TEDESCA E IL TIMORE AUSTRIACO
Il timore di Boroevic era che un attacco troppo ardito e troppo in profondità potesse fallire. In tale evenienza, nel migliore dei casi i tedeschi sarebbero stati fermati sull'Isonzo dalle contromosse di Capello e non sarebbero riusciti a impadronirsi della dorsale alla sua destra perché bersagliati dall'artiglieria, e la mentalità offensiva tedesca avrebbe allora imposto il ritiro e dunque avrebbe lasciato Boroevic nella situazione critica di partenza di non poter sostenere un ulteriore attacco italiano, mentre nel peggiore dei casi, Capello avrebbe potuto attaccare dalla Bainsizza verso nord accerchiando le 14 divisioni tedesche: queste, tagliate nei rifornimenti e battuta su tre lati dall'artiglieria avrebbero subito la distruzione.
Donde traevano dunque gli eredi diretti dell'esercito prussiano tanta sicurezza nei loro mezzi e nella riuscita di un piano così ardito? Era solo baldanza e il loro successo è stato poi soltanto fortuna o demerito degli italiani, oppure vi era un fondamento oggettivo? Personalmente propendo per questa ipotesi. Fin dall'inizio dell'anno nella fanteria tedesca si erano diffuse tecniche moderne ed ancora sconosciute agli altri eserciti basate essenzialmente sull'utilizzo di reparti veloci, relativamente piccoli ma ben armati (dotati in particolare di sezioni mitragliatrici, con diversi uomini addetti appositamente alla manutenzione, al trasporto e al munizionamento delle stesse) in grado di procedere in profondità nello schieramento nemico, ben oltre il resto delle forze attaccanti (inevitabilmente lento per il gran numero di soldati, per la necessità di procedere tenendo un fronte ampio e per il bisogno di trasportare artiglierie, rifornimenti e materiali) e di disorganizzare le linee di resistenza ancora prima che queste fossero investite dal grosso della fanteria. A prima vista ciò potrebbe apparire una tattica suicida nell'ambito di una guerra di posizione combattuta su fronti vasti, compatti, e ovunque riempiti di truppe, giacché pochi reparti molto avanzati e quindi anche isolati rispetto al resto dell'esercito potrebbero rischiare molto in mezzo a forze nemiche superiori numericamente di dieci o cento volte (ed è infatti ciò che i comandanti di tutti gli eserciti diversi da quello tedesco pensavano), le quali avrebbero potuto facilmente circondare e distruggere tali reparti avanzati. Ciò è esattamente quanto si verificherebbe in maniera sistematica nella tranquillità di una simulazione di manovre militare o nella chiarezza di una battaglia in cui ogni la consistenza e la posizione di ogni forza amica e nemica fosse chiara come in un gioco da tavolo con bandierine e soldatini, ma laddove il difensore non fosse stato in grado di localizzare con certezza né il grosso delle forze attaccanti né il resto della propria difesa, e di stabilire se questi piccoli reparti avanzati e ben armati fossero appunto reparti isolati oppure le prime ondate di un attacco in massa, la tecnica dell'infiltrazione avrebbe potuto ottenere risultati impensabili per attacchi tradizionali condotti anche con forze immense.
La difesa degli eserciti della grande guerra era genericamente impostata su tre linee: la linea avanzata, costituita dalle posizioni che le truppe avevano raggiunto durante le offensive precedenti, e quindi in genere casuale e non adatta alla difesa, nonché, per il fatto stesso di essere a diretto contatto con il nemico (o addirittura costituita da vecchie trincee nemiche conquistate) poco protetta da fortificazioni o artiglieria, la linea di resistenza, quella predisposta pensando ad un primo sistema difensivo dietro le linee avanzate (e ad esse quanto più possibile parallelo) in grado di reggere un attacco prolungato, e quindi costituita da trincee, fortificazioni e camminamenti scavati in posizioni forti per natura e discretamente protette dal fuoco dell'artiglieria di medio calibro, e la linea d'armata, ultima linea di resistenza predisposta se necessario anche abbastanza indietro rispetto alle altre e non necessariamente parallela ad esse, pur di avere uno sviluppo minore in lunghezza e di appoggiarsi a ostacoli naturali importanti, dorsali montuose, fiumi, torrenti, o a fortificazioni massicce e capisaldi difensivi protetti da un consistente fuoco di artiglieria pesante. La linea avanzata aveva il compito, in caso di attacco, di fornire le basi di partenza per le offensive, e in caso di difesa, di resistere solo dove questo non avesse comportato un eccessivo sacrifico di truppe (ad esempio in caso di un attacco nemico non troppo consistente oppure indebolito dal fuoco di contropreparazione e di sbarramento dell'artiglieria del difensore). La linea di resistenza aveva il compito di allertarsi al momento dell'attacco nemico alla linea avanzata e, di accogliere il ripiegamento di questa in caso di successo nemico o di fornire truppe per la controffensiva in caso di fallimento. Nel primo caso, poiché la distanza fra la linea di resistenza e quella avanzata non era tale da comportare gravi sacrifici in termini di territorio ceduto al nemico, il difensore conseguiva comunque un chiaro successo se riusciva a far reggere la linea di resistenza fino all'arrivo delle riserve (di solito posizionate sulla linea d'armata). La linea d'armata aveva invece il compito di resistere ad oltranza, in quanto ultimo e più saldo baluardo del fronte, il cui superamento avrebbe significato la rottura dello stesso. Solitamente la linea d'armata, come da definizione, era presidiata inizialmente dalle truppe in riserva sottoposte direttamente al comando d'armata (al contrario delle altre due linee affidate ai singoli corpi d'armata operativi), per cui era compito del comando d'armata stesso decidere, in base all'evolversi dell'attacco nemico e alla situazione generale, se tentare di resistere al nemico sulla linea di resistenza, e quindi dare ordine alle riserve d'armata di spostarsi là (nei punti prossimi a cedere), o se rinunciare a parte del territorio conquistato e lasciare le riserve sulla linea d'armata e di rinforzarle con le truppe fatte ripiegare dalle altre due linee più avanti.
Resta inteso che, mentre la gestione delle prime due linee poteva essere tenuta anche dai singoli comandi locali (di corpo d'armata o addirittura di divisione, nel caso della linea avanzata), giacché, per la particolare natura del territorio
lo sfondamento della linea avanzata (o di quella di resistenza) in un punto non implicava che questa non potesse essere tenuta altrove (implicando al massimo una variazione nell'andamento del fronte e forse qualche difficoltà nel nuovo modo di tenerlo raccordando magari un tratto di linea d'armata con un tratto di linea di resistenza o di linea avanzata), la linea d'armata necessitava di una gestione unitaria e coerente: se si fosse rotta anche in un solo punto, non essendovi dietro di essa più nulla, avrebbe causato lo sfondamento del fronte. Inoltre, la decisione su come impiegare le riserve (tenerle a disposizione sulla linea d'armata o assegnarle ai corpi d'armata sulle linee più avanzate per fermare il nemico più avanti) doveva essere chiara e ben meditata su informazioni certe: se si fossero spostate riserve dalla linea d'armata, indebolendola in un settore, per rafforzare in quel settore la linea di resistenza sperando di fermare lì il nemico, e poi questa fosse stata frattanto in gran parte superata, quelle riserve sarebbero state sprecate: il nemico le avrebbe sopraffatte durante il loro spostamento da una linea all'altra e avrebbe trovato la linea d'armata fortemente indebolita. Oppure, se si fosse valutata erroneamente la possibilità di fermare il nemico sulla linea di resistenza, nella speranza di perdere meno territorio, si sarebbero lì sprecate le truppe di riserva che sarebbero poi mancate per difendere la linea d'armata.
In questa situazione la tattica dell'infiltrazione poteva avere effetti micidiali. Immaginiamo infatti un reparto veloce e molto dotati in mitragliatrici e munizioni che, nella confusione della battaglia, sfonda la linea avanzata in un punto senza essere visto da nessun altro settore di prima linea (magari per effetto della nebbia o dei gas asfissianti) e poco dopo intacca la linea di resistenza. Questa, presa alla sprovvista (la linea avanzata non l'ha messa in allerta), pensa di trovarsi innanzi ad un attacco tanto potente da aver travolto in un sol colpo la prima linea e crede di avere solo due possibilità: chiamare rinforzi dalla linea d'armata sperando di resistere sul posto o abbandonare la linea di resistenza pensando che, d'innanzi a forze tanto preponderanti, anche gli altri settori della stessa linea devono aver ceduto (e se in questo frangente le comunicazioni con gli altri reparti sulla stessa linea sono interrotte, il panico farà certamente pensare a questo). In entrambi i casi l'attaccante conseguirà con poche truppe lanciate in avanti un vantaggio altrimenti raggiungibile solo con un dispiego enorme di forze. Nel primo caso, la linea d'armata verrà indebolita in quel settore per rafforzare la linea di resistenza: se la stessa viene aggredita e superata altrove da un attacco consistente, questo non avrà più bisogno di superare una linea d'armata intatta per sfondare il fronte, ma dovrà solo dirigersi nel settore in cui le poche truppe veloci hanno gettato il panico piombando alle spalle della linea di resistenza (ben difesa, ma ormai aggirata) e davanti ad una linea d'armata indebolita o addirittura sguarnita. Nel secondo caso, semplicemente, si otterrà lo sfondamento della linea di resistenza con un numero di truppe normalmente sufficiente appena per superare una linea avanazata: a quel punto il grosso dell'attacco, sfruttando tale breccia, potrà gettarsi direttamente contro la linea d'armata con tutto lo slancio e la potenza iniziali, non essendo stato rallentato, colpito o attenuato dalle due linee precedenti.
I reparti veloci di fanteria adibiti a tale scopo d'infiltrazione erano appositamente addestrati a posizionare le mitraglitrici (che all'epoca erano solo fisse) in modo da far credere al nemico di trovarsi di fronte a forze dieci (o addirittura cento) volte superiori (anticipo qui che l'allora tenente Erwin Rommel con questa tecnica, a Longarone, guidando il proprio battaglione alpino, ricevette la resa di un intero corpo d'Armata Italiano). Bastava spesso smontarle a rotazione nel mezzo dello scontro e rimontarle in punti diversi e predeterminati: il nemico, nella confusione della battaglia, non se ne poteva accorgere (né lo poteva sospettare, vedeva solo il fuoco provenire da tante direzioni diverse, proprio come in un attacco in forze), ma erano necessari addestramento adeguato e disciplina ferrea per smontare e rimontare ogni singola mitraglitrice in tempi brevi e senza farsi prendere né dal panico né dalla smania di riaprire il fuoco contro il nemico. Era per questo che tali compagnie di truppe scelte tedesche curavano sopra ogni cosa la sezione mitragliatrici e la loro efficienza: già il numero grandemente superiore alla norma di mitragliatrici in dotazione dei reparti scelti faceva supporre al nemico di trovarsi di fronte a un numero maggiore di soldati, la loro rotazione poi moltiplicava la sensazione fino a far credere di essere circondati da un'armata quando si era semplicemente punzecchiati da un battaglione.
Figuriamoci poi cosa sarebbe potuto succedere se un difetto di comunicazione fra le diverse linee di difesa o fra diversi reparti sulla stessa linea avesse reso impossibile sapere le posizioni delle proprie forze e di quelle nemiche e ci si fosse trovati di fronte, all'improvviso, soldati nemici in un punto da cui avrebbero invece dovuto provenire i propri rinforzi. Se per effetto della velocità di spostamento o della capacità di superare le prime linee nemiche senza mettere in allerta le linee successive i reparti scelti degli attaccanti fossero stati in grado di sorprendere il difensore e di gettarlo nel caos, o addirittura di aggirarlo e di apparire dietro di lui o dove, nel suo pensiero ingenuo, non avrebbe potuto essere se non superando tutte le precedenti linee di difesa con un attacco in massa e tanto dirompente da spazzare via ogni resistenza prima che potesse essere lanciato l'allarme, la paura avrebbe fatto attribuire ciò non ad un reparto isolato con il compito d'infiltrazione (come nella realtà), ma al crollo totale del fronte, alla resa generalizzata degli altri difensori, ad uno sfacelo dell'esercito tale da non far più pervenire ordini realizzabili e sensati, rinforzi o anche solo informazioni veritiere.
Poteva così accadere che interi reggimenti di linea si arrendessero convinti che gli altri reggimenti della stessa linea avessero già ceduto o che anche le linee dietro fossero state superate, quando magari si trattava di un paio di compagnie nemiche riuscite a infiltrarsi in alcune zone mentre nelle altre la linea era ben salda, o che intere brigate si ritirassero senza combattere o comunque rinunciassero ad eseguire ordini precisi di avanzare a rinforzo di altre linee o di resistere sul posto perché convinti del rischio di essere accerchiati e tagliati fuori quando magari si trattava di singolo battaglione nemico che aveva ottenuto l'effetto sorpresa per la velocità e la mancanza di segnalazione da parte delle altre linee di difesa.
Ad accrescere l'effetto dirompente delle tecniche di infiltrazione contribuiva poi una caratteristica psicologica del soldato-tipo della grande guerra: la paura dell'accerchiamento, dell'isolamento e la conseguente tendenza a raggrupparsi. I soldati della prima guerra mondiale, in gran parte ignari di tattiche e strategie e non addestrati alla guerra ma semplicemente arruolati a forza e in fretta, erano letteralmente terrorizzati (anche per via della propaganda) dal fatto di cadere prigionieri del nemico (che si immaginava sempre come inumano, crudele, e capace di divorare o far morire di fame i prigionieri), per cui impazzivano quando si trovavano coi fianchi scoperti, in quanto temevano di essere accerchiati e costretti alla resa. Finché avevano i commilitoni a combattere a fianco i soldati si mostravano anche coraggiosi fino all'incredibile, con il nemico di fronte, ma quando a destra o a sinistra non vedevano più compagni o quando addirittura avevano sentore che potessero esserci i nemici, non riuscivano più a tenere la formazione e si accalcavano l'uno sull'altro nella speranza irrazionale di potersi così più facilmente difendere da un nemico da cui si sentivano accerchiati. Così poteva benissimo accadere che pochi reparti scelti lanciati all'attacco a sorpresa e in punti diversi su una linea trincerata e comunque ben difesa potessero letteralmente scardinarla per effetto del terrore che incuteva sui soldati difensori il fatto di vedere nemici e non commilitoni attorno: gli stessi soldati che avrebbero potuto resistere fino alla morte all'attacco frontale di un nemico numeroso potevano gettare le armi o comunque non essere più in grado di tenere ordinatamente la trincea nel caso questa fosse stata attaccata con tecniche in grado di far supporre o temere l'accerchiamento. Pochi soldati, se ben addestrati, potevano ridurre una moltitudine di fanti coraggiosi ed esperti, ma non abituati a combattere con i fianchi scoperti, a comportarsi come una mandria che si raduna disordinatamente per paura.
La dimostrazione pratica dell'efficienza delle tecniche di infiltrazione si era avuta a settembre nella battaglia di Riga, quando l'attacco in profondità di alcuni reparti scelti aveva permesso al grosso delle forze tedesche di spazzare via il fronte russo ed inseguire l'esercito lungo gli immensi territori della province baltiche fintantoché il Kaiser lo aveva voluto. Ancora più perfetta applicazione di queste tecniche la si avrà nel 1918 quando i tedeschi tenteranno l'operazione Michael per vincere la guerra: la loro offensiva sarà così travolgente da ricacciare i Francesi a soli 58km da Parigi e da schiacciare gli inglesi verso il mare tanto che Haig dovrà lanciare il disperato e famoso proclama delle "spalle al muro".
L'offensiva che si apprestavano a sferrare nell'ottobre del 1917 contro l'Italia presentava però una caratteristica fortemente diversa: il territorio, nell'alto corso dell'Isonzo e nel cuore delle Alpi Giulie era fortemente montuoso, con vette di oltre 2500 metri (spesso innevate) e valli strette e profonde, con cime da cui gli osservatori dell'artiglieria potevano spaziare lo sguardo lontano e scatenare ovunque potenti concentramenti di tiro pesante, ma anche con giornate nebbiose e umide in cui chiunque si fosse mosso nei fondovalle avrebbe potuto arrivare fin sotto gli osservatori o addirittura valicare passi e dorsali senza essere visto.
Sarà questo un punto a favore degli austrotedeschi o un punto a sfavore? I tedeschi pensavano che potesse essere un motivo di vantaggio, gli austriaci uno di svantaggio. Per sapere chi avrà ragione basterà seguirmi nei successivi episodi di narrazione della battaglia. Per ora invece è d'uopo concentrarsi su come i comandi italiani pensarono di prepararsi per fronteggiare l'offensiva.
I PREPARATIVI ITALIANI PER LA DIFESA
L'arrivo sull'Isonzo, dal fronte orientale, di sette divisioni tedesche e di otto austriache, nonché lo spostamento dal fronte trentino di altre cinque, nonostante i tentativi di simulare azioni diversive su altri fronti (vennero diffuse apposta notizie, ordini e dispacci falsi su una poderosa armata fantasma nel Tirolo) non fu ignorato dal Comando Supremo Italiano: del resto un sì mastodontico dispiegamento di forze non poteva passare inosservato nemmeno al più distratto dei servizi informazioni. Appena sei giorni dopo l'inizio dei preparativi germanici (datati 12 settembre), in parte per le notizie provenienti dagli appositi servizi di spionaggio, in parte per deduzione logica propria, il generalissimo Luigi Cadorna, il 18 settembre, indirizza ai comandandi d'Armata sul fronte isontino la seguente lettera in cui chiaramente ordina la cessazione dei preparativi per l'ulteriore offensiva e l'inizio di quelli per la difesa.
A Sua Altezza Reale Duca Emanuele Filiberto di Savoia Aosta, comandante della III Armata
A Sua Eccellenza Generale Luigi Capello, comandante della II Armata
Il progressivo concentrarsi di truppe nemiche sulla fronte giulia fa ritenere probabile che il nemico si proponga quivi prossimamente un serio attacco, tanto più violento quante più forze esso potrà distogliere dalla fronte russa, dove la situazione sembra precipitare a tutto vantaggio dei nostri avversari. Tenuto conto di ciò e dei ben noti problemi del rifornimento e del munizionamento, ben noti a Vostra Altezza reale e Vostra Eccellenza, decido di rinunziare alle progettate operazioni offensive e di predisporre la difesa ad oltranza, affinché un eventuale attacco nemico ci trovi ben pronti e preparati a rintuzzarlo. A tali precise direttive prego pertanto vostra altezza reale e vostra eccellenza d'orientare fin d'ora ogni attività, la disposizione delle truppe, lo schieramento delle artiglierie ed il grado di urgenza dei lavori.
18 Settembre 1917
Il Capo di Stato Maggiore dell'Esercito Generale Luigi Cadorna
Alla data di oggi, 18 ottobre, ossia un mese dopo, cosa di tutto quanto ordinato da Cadorna fu realmente eseguito?
disposizione delle truppe:
La previsione di un'offensiva avrebbe dovuto indurre qualsiasi comando d'Armata a tenere un numero minimo di battaglioni in linea avanzata, in modo da limitarne il logoramento e da non perderli al primo successo nemico (il successo iniziale dell'attaccante era stato sempre una costante su tutti i fronti di guerra) a predisporre una linea di resistenza saldamente presidiata e ancorata a posizioni forti per natura sulle quali disporre il grosso dei battaglioni disponibili per la difesa prolungata e a tenere in riserva, più indietro, sulla linea d'armata, adeguati battaglioni di rincalzo pronti ad intervenire in caso di rischio di sfondamento della linea di resistenza. Si può dire che nel settore in cui avverrà l'attacco, dal Monte Canino alla testa di ponte di Tolmino (tenuto dal IV Corpo d'Armata , praticamente nulla di ciò fu realizzato dal comando della Seconda Armata. Quanto al mancato alleggerimento della linea avanzata, il generale Capello si giustificò d'innanzi alla commissione d'inchiesta adducendo a motivo che in quella zona "mancava la profondità" per scaglionare la difesa su più linee. Orbene, se ciò era vero, lo era sulla riva destra dell'Isonzo, davanti alla testa di ponte austriaca di Tolmino, dove in effetti la linea avanzata che passava sulla piana Volzana-Ciginie era pericolosamente vicina alla dorsale Quota 1114-Monte Jeza (che fungeva da linea d'armata), conquistata la quale il nemico avrebbe avuto dinanzi a sé, aperta, la valle dello Judro. Strano scherzo del destino che proprio lì Capello diede ordine di sgomberare la linea avanzata e di ripiegare su quella di resistenza più indietro (e vicinissima a quella d'armata). Poco più a nord, invece, dove il fronte passava sulla sinistra dell'Isonzo e la profondità non mancava di certo a chi volesse difendere, si lasciarono ben quattro reggimenti di fanteria (con 15 battaglioni), ventisette batterie di piccolo calibro e diciassette di medio calibro (poi tutti inevitabilmente perduti nella battaglia) a presidiare l'assurda linea avanzata che dalle pendici dello Sleme, per quelle del Mrzli e del Vodhil giungeva all'Isonzo. Se, lasciando a presidio solo un paio di battaglioni per ingannare il nemico e segnalarne l'avanzata, tali forze con i relativo cannoni si fossero fatte ripiegare sulla linea di resistenza, forte per natura poiché correva per la dorsale Kozliak-Pleca-Spika-Vrsno, esse avrebbero potuto costituire, con i tredici battaglioni così risparmiati più i cinque che vi furono effettivamente schierato il 24 ottobre, un valido ostacolo (perché sarebbero stati 18 battaglioni con 44 batterie complessive schierati su una dorsale) all'avanzata degli austrotedeschi , i quali si troveranno invece a travolgere prima i 7 battaglioni sulla linea avanzata dominata dalle alture già in loro mani e battuta dalle loro artiglierie e poi ad eliminare facilmente ad uno ad uno fra le 9 e le 12 i restanti otto battaglioni scaglionati fra la linea avanzata e quella di resistenza e scollegati fra loro, per poter poi trovare sulla linea di resistenza solo i cinque battaglioni privi di artiglieria. Inutile dire che la rapidità e la facilità dello sfondamento della linea ri resistenza in tale settore avrà un ruolo decisivo nella battaglia.
Proseguendo verso nord, la linea avanzata coincideva con quella di resistenza passando per le vette del Monte Rosso, del Monte Nero, del Vrata e del Vrsic e non poteva essere sgomberata, ma dopo il Vrsic, tenere un intero battaglione in fondo al vallone dello Slatenik, ai piedi del Krasi (tenuto dagli austriaci), solo per mantenere in vita la linea avanzata, significava accettare che venisse travolto dal nemico: più saggio (nonché più conforme agli ordini di Cadorna) sarebbe stato arretrarlo sulla linea di resistenza del Polovnik (forte per natura), a costo, al limite, di abbandonare anche la linea avanzata in conca di Plezzo, se però non ne fosse risultata compromessa l'occupazione del Cucla. In ogni caso la linea oltre Plezzo, sulla quale era schierata l'intera brigata Friuli, avrebbe potuto essere alleggerita.
Non aver fatto nulla di tutto ciò equivale ad aver disobbedito all'ordine del comando supremo.
Per far apparire minori le proprie responsabilità, Capello dirà poi che sgomberare la linea avanzata avrebbe significato ritirarsi ovunque alla destra dell'Isonzo, abbandonare Monte Nero, la Bainsizza e persino Gorizia. Ciò non risponde a verità, in quanto, come evidenziato, sarebbe bastato, per tentare nella sciagura di evitare almeno l'evitabile, almeno arretrare le fanterie dalle falde del Mrzli e del Vodhil sulla linea Pleca-Vrsno-Selice e ritirare dietro di essa tutte le artiglierie. Per rendersi conto della situazione basta sentire il resocondo di Emilio Faldella (all'epoca ufficiale degli Alpini, poi generale)
Altra infelice giustificazione di Capello fu che quella linea non fu arretrata per evitare di lasciare il fianco scoperto alla sinistra della 19° divisione (XXVII Corpo d'Armata). Ciò è infondato, in quanto la 19° divisione, senza informare la 46° che teneva la zona delle pendici del Mrzli e del Vohdil come ala destra del IV Corpo d'Armata, era arretrata dalla sua linea avanzata a quella di resistenza, collegandosi dunque a nord di sé alla linea Pleca-Selisce, non già a quella Mrzli-Vodhil-Gabrie.
"Nella conca di Krn, la ridotta Leskowka e le trincee sui costoni scendenti dal Monte Nero, come le dita del palmo della mano, erano dominate da circa settecento metri di dislivello dalle vette del Masnik e del Rudecirob. Dalle pendici dello Sleme, tagliando il ripidissimo pendio del Mrzli poco al di sotto della vetta, la linea avanzata era, salvo una lieve inflessione sulle pendici del Vodhil e in fondovalle, la stessa che era stata raggiunta con le offensive dell'autunno 1915 dai battaglioni del 3°,4° e 8° alpini. Attraverso pendii ripidi, scoperti, ormai nudi di cespugli e di erba, per cui a causa della pioggia (e le piogge in Valle d'Isonzo sono frequentissime) la terra, priva assolutamente di compattezza, diventava viscida, scivolosa,; trincee e camminamenti si disfacevano in fossi pantanosi, in "budelli" ricoperti a tratti da tettucci di assi, gravati da sacchetti pieni di terra. Dagli osservatori del "Pan di Zucchero" (quota 428) e delle vette del Mrzli e del Vodhil il nemico teneva tutta la posizione sotto stretto controllo e ogni benché minimo movimento provocava raffiche di mitragliatrici e salve di batteria. Quando nelle trincee soprastanti gli austriaci lavoravano di piccone e di badile, i sassi rotolavano in quelle italiane e le vedette nemiche si compiacevano talvolta di lanciare lungo il ripidissimo pendio scatole di latta piene di escrementi, a scherno di quegli infelici che si logoravano a tenere una linea assurda che non offriva possibilità di riparo alla pioggia, alla neve al vento che sovente infuriava".
schieramento della artiglierie
Uno schieramento delle artiglierie votato alla difesa avrebbe dovuto prevedere, per ogni comando d'armata che non ignori le difficoltà di movimento dei cannoni, di arretrare i grossi e medi calibri sulla riva destra dell'Isonzo, in modo da predisporli ad anticipare con fuoco di contropreparazione gli eventuali attacchi nemici su tutte le possibili zone d'irruzione della fanteria (le quali non avrebbero logicamente potuto prescindere dalla testa di ponte di Tolmino) e lasciare su quella sinistra (magari per svolgere altrove funzione di fuoco di sbarramento all'aggressione nemica alla linea avanzata) solo i piccoli calibri e quelli medi che potessero essere rimossi con più rapidità (in caso d'emergenza), Nulla di tutto questo venne predisposto dal Generale Capello in alcun settore di fronte tenuto dalla Seconda Armata.
La giustificazione addotta da Capello per non aver spostato i grossi e i medi calibri dalla Bainsizza fu che ciò avrebbe richiesto troppo tempo e nell'imminenza dell'attacco preferì lasciare le cose come stavano piuttosto che avere cannoni inattivi per via del trasporto. Peccato che quando (9 ottobre) dichiarò ai suoi sottoposti che "il nostro attuale schieramento è eccessivamente offensivo, deve essere in parte modificato" fosse passato quasi un mese dall'ordine di Cadorna e che comunque, pochi giorni dopo (15 ottobre) quando aveva chiesto al Comando Supremo nuova artiglieria per la sua "controffensiva", non si preoccupasse affatto della questione "lentezza del trasporto".
grado di urgenza dei lavori
Una chiara direttiva di Cadorna del 10 ottobre disponeva che "il XXVII Corpo d'Armata gravitasse con la maggior parte delle proprie forze sulla destra dell'Isonzo". Fino a quel momento, infatti, come nota il Faldella, "sulla sinistra dell'Isonzo, su una fronte di otto chilometri dallo sbarramento di fondovalle Isonzo a Kal, il XXVII Corpo aveva tre comandi di divisione (65°, 22°, 64°), mentre sulla destra Isonzo, su una fronte di circa tredici chilometri aveva un solo comando di divisione (19°)". Tale disposizione era stata in quel momento funzionale alle operazioni offensive, ma era chiaramente assurda in caso di difesa. Inoltre esiste un limite di spazio sul quale un comandante di divisione può esercitare un'azione di comando efficace e tale limite era largamente superato, sia per l'ampiezza del settore, sia per la quantità di truppe (21 battaglioni), dal comando della 19 divisione (generale Villani). Al Generale Villani era dato perciò un compito troppo gravoso per un solo comando di divisione, soprattutto nei confronti degli altri tre comandi di divisione che avevano 2-3 chilometri di fronte e al massimo sei battaglioni ciascuno. Ciò derivava dall'ennesima "furbata" di Capello, che voleva asserire di aver adempiuto all'ordine del Comando Supremo, poiché "vi erano sulla destra dell'Isonzo, il 24 ottobre, ventisette battaglioni (ventuno della 19°divisione e sei in riserva di Corpo d'Armata) e sulla sinistra ventidue (di cui sei in riserva di Corpo d'Armata). L'esecuzione dell'ordine era solo apparente, in quanto i ventisette battaglioni erano in un settore ampio ben 13km, e i ventidue in soli 8km: il "peso specifico" gravitava ancora a sinistra dell'Isonzo. Inoltre, fino al 12 ottobre, i battaglioni sulla sinistra dell'Isonzo furono ventinove e fino al 22 ottobre ventisei, contro i soli ventitré sulla destra, poiché soltanto il 22 fu ordinto ai quattro battaglioni del 10° gruppo alpini di attraversare l'Isonzo e di schierarsi sul Krad Vrh e sul Cukla, dove giunsero poche ore prima dell'inizio dell'attacco nemico, con le conseguenze più ovvie del caso.
Se questo è il grado di urgenza con cui si conducono i lavori di preparazione di un'offensiva nemica decisiva per la guerra allora io potrei conquistare tutta l'Italia domattina.
Domani parlerò invece del perché un generale abile, esperto e a tratti anche geniale come Capello commise tutti gli errori e le disobbedienze sopra elencate e di come non solo Capello, ma anche i suoi comandanti di corpo d'Armata del settore interessato (Caviciocchi del IV e Badoglio del XXVII) si comportarono fino al 18 ottobre come chi avesse ancora parecchie settimane prima dell'attacco.
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