SULL'ISOLA DI CIPRO
Molti fra i cristiani e fra i moderni pensano alla fecondità ed alla capacità di generare come qualità tipicamente femminili. Non così pensavano i Gentili e non così racconta il Mito. E' possibile avere contezza di ciò se i venti ci sospingono nel Mediterraneo Orientale fino a farci approdare nell'Isola di Cipro. Lì la forza dei Sogni (e a volte delle ossessioni) supera quella della realtà, e le immagini e i suoni e le sensazioni e i pensieri che vengono dal profondo dell'antichità e del mito (e quindi dal profondo dell'animo umano) si mostrano ai sensi dei mortali come creature vive.
Nella notte serena e senza luna, rimirando il cielo stellato, l'aere puro pare avvolgente e profondo come un mare cristallino in cui si possa nuotare, e i lumi degli astri si mostrano agli occhi suspicienti come gocce scintillanti di splendore divino. La limpidezza del cielo si specchia sull'onde tremolanti del mare e l'oscure profondità di questo si fondono con l'infinito della volta celeste.
Fra tutte le Divinità primordiali il Dio Urano, il cielo stellato, era, fin dalla notte dei tempi, l'unica in grado, per la sua misura, di avvolgere interamente Gaia, la madre terra, di abbracciarla nella sua grandezza.
Può la terra produrre frutti se non è stata fecondata dalla pioggia? Possono le piante fragranti fiorire e le messi riempire i biondi campi se il cielo non si unisce alla terra?
Dall'unione fra Gea (o Gaia) e Urano nacquero tutte le forme di vita sulla terra e le bellezze dei cieli, i pianeti, gli astri e tutto ciò che di bello appare sotto le stelle scorrenti del cielo e alle piagge luminise del mare.
La brama generatrice di Urano pareva non avere limiti: il numero di creature di ogni natura e forma che generava si accresceva continuamente, senza mai sopire, anzi potenziando, il suo desiderio profondo e la sua volontà fecondatrice. Ogni sera si infilava sotto il manto di stelle e di nubi e copriva completamente la terra (Gea), possedendola.
Per questa sua brama aveva un numero sterminato di figli, fra cui sei Titani, le sei Titanidi, i tre Ciclopi e i tre Ecatonchiri (o Centamani, i giganti dalle cento mani).
Era un periodo felice per chi abitava la terra, non esistevano la morte ed il tempo, la fatica e l'odio, l'angoscia ed il dolore, ma tutto nella vita, la bellezza, la felicità, il piacere, poteva essere goduto ed appagato fuori dalla corruzione del tempo e dall'angoscioso incombere della morte. Ogni sera il cielo e la terra si univano e quasi ogni giorno nuove bellezze e nuove gioie vedevano la luce. Montagne altissime, distese marine piene di vita, deserti interminabili, foreste lussureggianti, pianure fertili ricoprirono la terra e in ogni luogo sorgevano fiumi pieni di pesci, alberi dalle grandi fronde ombrose, fresche e biancheggianti cascate, fiori di mille e vari colori.
Ma doveva essere destino, nel mondo, che le cose belle fossero anche caduche.
Stancatasi un giorno di tanta sovrabbondanza, Gaia chiese ai suoi figli di essere "protetta" dal desiderio fecondo di Urano. Si rifiutarono ovviamente tutti. Non esistendo né l'odio, né l'invidia, né l'inganno, nessuno poteva ordire congiure ai danni del padre. Uno solo si lasciò convincere dalla promessa di diventare il nuovo signore dell'universo, uno solo si decise ad agire, contro chi lo aveva generato, in nome solo di una brama di potenza e di dominio, uno solo permise che la seduzione del potere vincesse il sacro vincolo filiale. Questi, che per primo introdusse nel mondo la perfidia, la colpa e l'inganno, era Crono, il più giovane, il dio "dai tortuosi pensieri". D'accordo con la madre Gaia, attese nascosto il una coperta di nubi l'arrivo a sera di Urano e, non visto, con un falcetto affilatissimo preparato dalla madre (che lo aveva tratto dalle proprie viscere), ne tagliò di netto la virilità.
Dal sangue di tale orrida ferita nacquero le Erinni, divinità della furia e della vendetta, e, fra le genti discesero da un lato il concetto di ferita, di perdita, di caduta, dall'altro quello di colpa, di invidia, di lotta per il potere.
Prima di ritirarsi per sempre lontano da ogni sguardo umano e divino, Urano disse a Crono "quello che tu oggi hai fatto a me, un giorno sarà fatto a te da tuo figlio",
lanciando così quella maledizione che, di padre in figlio, discese fino ai tempi di Freud, il quale infine la codificò come il complesso edipico di odio e di ribellione del figlio nei confronti del padre.
Contemporaneamente, anche Gea confermò la profezia (nell'intento di evitarne il compimento, in futuro, Crono divorerà i propri figli, ma Giove, schivata tal sorte grazie ad uno stratagemma della madre, lo detronizzerà a sua volta), correlata al modo in cui ebbe avvento il regno di Crono.
Fece così la comparsa nel mondo il tempo (cui il nome di Crono è ancora legato) e da quel momento tutto, sulla terra, diventò caduco ed ogni bellezza, ogni felicità, ogni gioia, ogni appagamento divennero soggetti all'inesorabile corruzione del tempo e della morte.
Nacquero le stagioni, ed assieme al fiorire della primavera e al rigoglio dell'estate le genti conobbero l'appassire dell'autunno e il gelo dell'inverno.
Nulla più di quanto nel mondo è di bello e di sublime, e la cui visione eternamente emana divina bellezza e meraviglia, venne creato da quel momento.
Solo un'ultima bellezza vide la luce, ancola legata alla capacità creatrice e feconda del dio primordiale. Il fallo ed i testicoli amputati di Urano, infatti, caddero dal cielo in mare, presso le rive meridionali di Cipro: dall'incontro dello sperma fecondo del Dio con la spuma biancheggiante del mare nacque Venere (per questo detta Ciprigna). Ella era alta e snella e di capelli ed occhi castani.
Ella pareva il diario vivente dell’Estate. La sua figura, eterea e impalpabile, fuggevole e lieve, era la parvenza, non lieta, non triste che segnava il trascolorare dei sensi al passaggio dell’Estate, dal commiato lacrimoso della primavera (“la pioggia che bruiva, tepida e fuggitiva”) nella “Sera Fiesolana” fino al “Novilunio di settembre” sul mare, più soave del cielo nel suo volume molle tra il giorno senza fiamme e la notte senza ombre. Ella, nella sua indefinita bellezza, trasparente come la medusa marina, pura come la neve sull’acqua, labile come la schiuma su la sabbia, pallida a notte come il piacere sull’origliere, ma bronzea nel giorno come la sabbia che riluce all'alba, evocava negli occhi la profondità delle acque cristalline e purissime, nel riso il soave biancheggiar dell’onde su la riva, nelle chiome quella canzone “di foglie di ali di aure di ombre /di aromi di silenzi e di acque” che canta l’estate morendo “dopo che tanto l’amammo, dopo che tanto ci piacque”.
Tutte le essenze del suo corpo esalavano lo spirito dell’estate, “il suo spirto odorato di alga di resine e di alloro”, nella sua forma riviveva la melodia de la terra, “la melodia /della terra, la melodia /che i flauti dei grilli /fan nei campi tranquilli /roca assiduamente.. e la melodia di settembre /che fanno i flauti campestri /ed accompagna il mare /col suo lento ploro”.
Il suo volto, era fresco come il viso della creatura terrestre che ha nome Rosa, dischiusa dal sen della più divina bellezza, chiaro e dolce come il silenzioso viso esangue della creatura celeste che ha nome Luna, con una collana sotto il mento sì chiara che l’oscura, mentre brilla nell’aria lontana, ov’ebbe nome Diana, ov’ebbe nome Selene dalle bianche braccia quando amava quel pastore, giovinetto Endimione che tra le bianche braccia dormiva sempre. La sua bocca, come quella dell’ultima estate umida ancora della prima uva matura, emanava un suono grave e soave come il lento respiro del mare, come un anelito breve di foglie, come il segreto di un sogno silenzioso ammantato di beate immagini.
Subito una conchiglia la raccolse a riva.
La claritade angelica del viso, la figura alta, le chiome fluenti e lunghe, le linee scolpite delle membra, le forme dei seni rotonde, lo slancio statuario della persona, la piattezza d'un ventre perfetto, la liscia pelle e levigata, le fattezze tutte d''un corpo dea, e l'altre grazie che, come direbbe Dante, "è bello tacere", la facevano apparire molto più soave di ogni altra bellezza umana, sì che le genti la miravano con lo stupore che si deve ai prodigi della natura o ai miracoli degli dèi.
Ella rappresentava la figura eterea e impalpabile, eppure divina, dell’Estate: era bella, come l’anima fatta bella dal suo pianto, la terra abbeverata “lungo l’affrico nella sera di giugno dopo la pioggia”, come il plenilunio quando si specchia sull’onde d’argento del mare, liscia, ne la sua pelle delicata, come la molle sabbia dorata del mattino nelle sue conche vacue quando l’onda lasciva l’accarezza lieve e subito si ritrae, e pura, nelle sue vesti brevi, come il commiato lagrimoso della primavera sugli olivi “che fan di santità pallidi i clivi e sorridenti”.
Ella, fin dal primo sguardo, con la rapidità del fulmine e la potenza del tuono, suscitò desiderio, stupore e meraviglia in chi ebbe ventura di vederla nascere dalla spuma del mare greco, come una rosa fresca aulentissima dischiusa dal sen de la Bellezza: il suo sorriso doveva risplendere di una serenità più che terrena e nel suo viso, attorniato da chiome simili a ginestre, rivisse, più di quanto sarebbe stato nei marmi divini, l’ideale classico. Nella linea scultorea del naso da dea greca (su cui oggi, nelle statue, rifulgere il tocco perfetto della mano di Fidia e dei suoi allievi), si vedeva la nobiltà e la purezza del Bello.
Anche una volta a riva, nella spontaneità delle movenze Ella rispecchiava sempre quella sensualità naturale e pagana che ebbe quando nuda uscì dalle onde. Così ella divenne donatrice di beatitudine, come una cristallina fonte nella canicola d’agosto, mite come l’oro in bocca all’estate matura, gioiosa come le risa dell’acqua sulla riva soleggiata.
Da allora nella sua alta figura di dea rive più di una speranza, più di una promessa, più di un piacere, più di un sogno: rivivrà il mito della felicità edenica, dell’innocenza primigenia, il mito dell’età dell’oro, una beltà più che terrena, “quell’aurea beltà ond’ebber ristoro unico a’ mali/ le nate a vaneggiar menti mortali”.
Non concependo che una tale bellezza fosse destinata ad appassire, ad invecchiare ed a perire, le Grazie se ne presero cura, la educarono , la vestirono, la pettinarono, la adornarono con pietre e gioielli ed, infine, la portarono dagli dèi. Là si cibò il pane di ambrosia divenendo immortale e prendendo dimora in cielo, ove, più risplendente di tutte le più risplendenti stelle, come il pianeta che di lei ha il nome, ancora la miriamo.
Venere è Dea della Bellezza e dell'Amore sensuale, ma anche di tutte le sue fole e di tutti i suoi sogni......e delle prostitute.
Esse sanno apparire belle come Afrodite e donare all'uomo (sia pur a prezzo di moneta) l'idea di godere di una beltà divina, permettendogli di rivevere quell'ebbrezza creatrice e quella furia dei sensi che andò perduta nel mondo "reale" dall'avvento di Crono. Sanno cancellare il tempo e lasciare esprimere un desiderio infinito, come quello dell'antico Urano.
Con loro infatti è possibile ricercare, sopra ogni cosa, il piacere assoluto (da ab-solutus-sciolto), il piacere erotico, cioè, liberato e discinto dai normali rapporti fra individui vigenti nel mondo "apollineo" (dagli impegni dei rapporti di coppia, dalla loro gestione, e dalle fatiche del corteggiamento), e ridonato invece alla profondità e all'immediatezza del desiderio di natura, al substrato antico e profondo, nobile e immortale, della vita cupida di sé restituita alla unità primordiale antecedente la frammentazione in individui, a quella dimensione che Federico Nietzsche volle chiamare "mondo dionisiaco". L'ebbrezza assoluta, quella tipica dell'arte (nel meretricio si può godere dell'estasi più profonda e terribile della natura senza che il relativo tormento sconvolga la vita, gli interessi e i sentimenti dell'individuo) costituisce una parte inscindibile della sessualità.
Grande progresso nella conoscenza della vita e del mondo si sarà fatto quando non solum la luce della ragione sed etiam l’immediatezza dell’intuito, chiariranno alle genti quanto il disire di natura dell'uomo verso il corpo della donna sia connaturato a quella voluptas cinetica che muove in mondo cantata da Lucrezio nel De Rerum Natura e sia parte di quello stesso palpito della vita universa che mai cessa di generare bellezza, che mai rinuncia ad ispirare le opere e le azioni dei Grandi.
“Aeneadum Genitrix, hominum divumque voluptas, Alma Venus caeli subter labentia signa, quae mare navigerum, quae terre frugiferentis…”:
“Desìo degli uomini e piacere degli dèi, Alma Venere che sola dai alimento alla vita, senza Te nulla può sorgere sotto le stelle scorrenti del cielo o alle radiose piagge della luce. Tu fai che il mare sia sparso di navi e le terre siano feconde di messi: tra i viventi di ogni essere nuovo Tuo è il merito se viene concepito, se ha nascita e se vede la luce; Te, o Dea, fuggono i venti quando arrivi, e le nubi del cielo; ai Tuoi piedi ad arte la terra fa spuntare fragranti i suoi fiori, a te sorridono le distese marine, e nel cielo fatto sereno una chiara luce e diffusa sfavilla. Cosi’, non appena un giorno rivela Primavera, e dischiuso lo Zefiro fa sentire il suo soffio fecondo, sono primi gli uccelli dalle candide piume, o Divina, a dar segno di te e del tuo arrivo, il cuore scosso dalla tua forza.”Un fanciullo brama la donzella avvenente così come un fiore sboccia, un usignolo canta, un prato fiorisce, una cascata irrompe, e quando il suo desire si volge in attività d’intelletto allora i versi e le rime scorrono con quella medesima magia propria dei prodigi di natura, come l’avvento della Primavera o il riflesso sull’onda lucente di quella conchiglia d’argento che chiamiamo Luna.
Un uomo che vede la bella dama e tosto la brama con tutto il sue essere, è pervaso da quello stesso fremito che mosse Jacopo da Lentini, notaio del Grande Federico II di Svevia, a inventare il metro perfetto del sonetto per celebrare la sua divina bellezza, è inondato da quello stesso languore che rende sublimi e inimitabili le Rime del Tasso, è permeato di quello stesso desire che spinse Catullo a comporre i carmi immortali di Lesbia, è invaso da quello stesso ardore che generò le novelle Rinascimentali e le rime petrarchiste di schiere di dotti dalle raffinate squisitezze intellettuali.
Non si può negare come quasi tutto quello che di bello e di sublime esiste al mondo, quei sogni soavi, quell’ incantate parvenze, quelle gioie dell'anima che condensate in immagini il volgo chiama poesia, quelle felicità pure e intellettuali che suscitano l'ebbrezza inesausta dei sensi e delle idee, tutto ciò che, ultimativamente, si staglia dai gesti banali della quotidianità per elevarsi all'eterno, all'azione eroica e superba, alla sfera dell'ideale, del perfetto e dell'imperituro sia stato plasmato dalla mente di uomini illustri ispirati da splendide donne, la cui visione eternamente emana divina bellezza e Meraviglia. Sovente queste ideali muse, cui si dee infinito rispetto e devozione da parte della Comunità dei Dotti, si sono incarnate in corpi di donne che il mondo appella "Prostitute". Non è solamente il caso del pittore Lutrec, o dello stesso Baudelaire, per restare in ambito decadente, ma anche del primo dei neoteroi, il grande Catullo, iniziatore della letteratura amorosa in Roma, il quale dedicò le sue "nugae" a tale Clodia, ("la donna di tutti", la squillo d'alto borgo diremmo oggi, accusatrice in un noto personaggio difeso dall'orazione di Cicerone) trasfigurandola nella splendida e immortale immagine di Lesbia (Vivamus atque Amemus...)
Anche gli altri Grandi della letteratura erotica latina, veri maestri del genere elegiaco quali Tibullo e Properzio, spesso amavano donne che definiremmo mantenute, nel migliore dei casi. Questo perché l'opera di arte, come sottolinea Nietszche nella "nascita della tragedia" non nasce dagli individui, ma sgorga, tramite uomini particolari quali appunto gli artefici, dal drammatico contatto con la vita unica originaria che brama incessantemente se stessa al di là delle manifestazioni individuali nelle quali si ritrova divisa, con le pulsioni e i desideri propri di ogni specie vivente, con le bramosie e i furori orgiastici liberati dallo scomparire dei limiti e delle norme che definiscono gli individui nel mondo razionale e "apollineo". La caduta del "principium individuationis" apollineo fa emergere la realtà dionisiaca, quella che il sommo D'Annunzio definisce "palpito della vita universa", che il poeta, "mistero musicale con in bocca il sapore del mondo" riesce a condensare in suoni, concetti e metriche, a volte anche rigorosi e statici (come la statuaria), ma aventi come presupposto la drammatica furia dell'orgia dionisiaca, l'essenza sfrenata e musicale del dio dell'ebrezza.
Le persone e le immagini dell'arte, l'armonia, l'equilibrio, la compostezza della classicità, quindi, non sono che una "rappresentazione di sogno simbolica" di questi stati, una riconciliazione fra apollineo e dionisiaco. Mi si conceda d'affermare che proprio perché l'arte e non la scienza (idolatria della ragione) o la religione (idolatria del bene e del male) costituiscono la vera metafisica dell'uomo, è necessario aver rispetto per gli uomini attraverso la cui tecnica le epressioni artistiche si sono manifestate e per le donne che in quanto muse le hanno ispirate divenendo immortali.
Per questo chi ricerca la bellezza in una donna, in ogni situazione, non può essere criticato mai. Per questo chi ricerca il piacere, anche nella sua più sfrenata espressione, ossia quella orgiastica, o in quella più immediata, quella a pagamento, senza passare per le falsità e gli intrighi dell’ars amandi, per le lunghe procedure del corteggiamento, per le inevitabili complicazioni sociali e sentimentali dei rapporti di coppia non può essere reso oggetto di critica alcuna. Quell’uomo, infatti, non fa che ricercare l’espressione più diretta del suo istinto più vitale.
Il naturale desiderio dell'uomo nei confronti del corpo di una bella donna, un desiderio che è assieme una brama istintiva e una sublimazione intellettuale, una conciliazione degli opposti, un misto di adorazione e di possesso, è quanto di più puro e nobile sia concesso alle umane genti. Esso non è soltanto il mezzo di riproduzione utile alla specie "il genio della specie", come vorrebbero gli scienziati, non è mero mezzo da utilizzare al fine della procreazione e poi da nascondere, reprimere, denigrare, incolpare, come vorrebbe la chiesa controriformata e moralista di oggi, non è forza istintiva e brutale da contenere, come pensano gli Illuministi, non è argomento di riso e di trastullo, da ridicolizzare ed umiliare come mostra l'incivile pubblicità, non è mezzo retrivo di oppressione come credono le empie femministe, non è irrazionalità da regolare, multare e proibire, come vogliono i "proibizionisti" e le "anime belle", non è nemmeno disordine improduttivo come sostengono certi sfaccendati e nullafacenti indegni del nome di "Libertino": esso è invece il creatore del mondo, il più vero e forte motore della genialità umana, il seme fecondatore per cui germoglia e fiorisce la nobile e pure vita dell'Arte.
L'immagine delle Bellezza femminile, rappresentata dalla immortale e sublime figura della Musa Ispiratrice è quello che ogni creatore di mondi, ogni scultor di sensi, ogni artista del dire, ogni maestro del suono, dello scalpello, del dipinto, ogni donatore di Immortalità, ogni artefice insomma del Sogno Imperituro ha avuto innanzi agli occhi dell'anima pria di partorire l'opera immortale.
Ad altro non pensò Guinicelli, quando, effondendole rime del Dolce Stilnovo ch'i'odo incipiò l'autentica poesia italica, ad altro non sospirò Petrarca, quando creò con suoni e i ritmi l'atmosfera pura e rarefatta dei suoi immortali sonetti, forgiando lo stile perfetto senza uguali nel mondo, ad altro non mirava Boccaccio, quando narrando le storie che restituirono l'Italia alla religione delle Lettere e della Bellezza riportò nella nascente prosa italiana quello stile ampio ed armonioso proprio del grande eloquio Latino e degno del nome
di Concinnitas.
Un uomo bramoso e d’intelletto non può pero’ accontentarsi di una sola musa, di una sola dea, di un solo mondo. Egli ha bisogno di un intero Pantheon cui volgere il proprio irrefrenabile, puro, nobilissimo desiderio di Bellezza e di Piacere. L’uomo che vuol essere tale e vuol vivere come tale non può appagarsi della singolarità. Non può cedere al pregiudizio monogamico imperante nell’antivitalistica visione del mondo occidentale, ove tutto ciò che è natura e vita viene condannato limitato dalle leggi o dal moralismo. Uomini quali noi siamo hanno necessità di fecondare con la propria brama di bellezza e di sapienza l’intera multiforme vastità dell’universo femminile, non limitarsi ad un solo mondo, una sola donna. Se è vero, come è vero, che una donna vera, finchè è tale, con il suo mistero e la sua natura rappresenta un intero mondo, è altrettanto vero che diverse donne significano diversi mondi. Per questo chi, mosso da infinito desiderio, da incommensurabile brama, dal puro intento di consacrare il proprio intelletto alla celebrazione eternatrice della bellezza femminile in rime, suoni, opere e parole, si riconosce mosso da quell’Eroico furore (eroico da Eros) di cui con tanto core si scrive nelle visioni di Giordano Bruno, non può non desiderare Infiniti Universi e Mondi. Come nell’Infinito Universo et Mundi, chi desidera è simile, nella sua infinita volontà creatrice, a un dio che non può e non vuole limitarsi a un mondo, ma ne pensa, ne genera, ne ama infiniti. “Est deus in nobis”, per chi brama una donna, per cui in realtà, nella realtà dionisiaca, le brama tutte.
Grazie alle "sacer-dotesse" di Venere Prostituta, siano esse umili passeggiatrici notturne o vaghe e care danzatrici, incantatrici di raffinate cene, o accompagnatrici per lussose alcove d'albergo, bellissime e genuine stundentesse part-time o ammalianti top escort di professione, è possibile almeno illudersi di appagare tale infinito desiderio.
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