La Sublime Porta

"Signori e cavallier che ve adunati/ Per odir cose dilettose e nove,/ Stati attenti e quieti, ed ascoltati/ La bella istoria che 'l mio canto muove;"

Cumartesi, Nisan 10, 2010

Cantiamo in coro: "ANCHE OGGI DEI GIUDICI DI MERDA, ANCHE OGGI DEI GIUDICI DI MERDA"...











"E SE (in mancanza di riscontri oggettivi e altri
elementi atti ad attribuire maggiore credibilità, dall'esterno, all'una o all'altra tesi) NON ASSOLVERA' VIOLENZA SARA'"

LA PREMESSA


Sia chiaro quanto segue.

Concordo con il "femmiinsmo" che ogni donna (come ogni uomo del resto) abbia diritto a scegliere autonomamente se, come, quando, con chi, perché e in che modo “accoppiarsi” e a non essere costretta da chicchessia a compiere o subire atti sessuali contro la propria volontà, ma non posso concordare con certe pretese femministe d'oltreatlantico o d'oltremanica di imporre all'uomo l'obbligo di "dimostrare di aver avuto un consenso esplicito". Per motivi probabilmente tanto di natura quanto di cultura, le donne per prime in genere pretendono che sia l'uomo a sopportare i rischi e le fatiche della cosiddetta conquista (ad agire o inscenare e indovinare quanto a loro gradito), e poichè in una sfera tanto soggettiva come quella amorosa quanto piace all'una dispiace all'altra (e prima di conoscerlo per esperienza non lo si può indovinare per speculazione) bisogna sempre tentare senza sapere a priori se il tentativo avrà successo (ovvero sarà gradito), poichè una preventiva dichiarazione, una richiesta esplitica, o comunque un rigido schematismo comportamentale fugherebbero ogni effetto sorpresa, ogni atmosfera erotica ed ogni spontaneità necessaria alla riuscita dell'amor naturale, non si possono dichiarare tutte le intenzioni, richiedere tutte le autorizzazioni, o domandare ove la controparte gradisca "l'attacco" (come non lo si potrebbe fare con il "nemico"), ma si deve procedere per tentativi regolandosi poi su come procedere o ritirarsi in base alle reazioni (a come si vienea accettati o respinti), tentando di indovinare dalle parole dette e da quelle non dette quali siano le reali intenzioni della donna, e poichè la donna pretende di sentirsi conquistata non è accettato arrendersi ai primi dinieghi, ma bisogna (come nelle battaglie) insistere, resistere e contiunuare nel rischio e nello sforzo, e se già il primo tentativo può essere considerato a posteriori molestia e la riuscita in quella schermaglia amorosa pretesa dalle donne per sentirsi "conquistate" (e nella quale all'uomo spetta di inseguire chi, fuggendo, vuol essere seguita e di vincere le resistenze di chi, lottando, vuole essere vinta) addirittura stupro, allora, come ha un po' animatamente sostenuto il nostro amico, si dice a tutte le "normali" grazie e arrivederci e ci si rivolge solo e soltanto alle prostitute, le cui modalità sono chiare ed esplicite, le cui pretese sono soltanto economiche e con le quali sono dunque possibili accordi razionali, consensuali e noti a tutti a priori su cosa fare e non fare, senza inganni, ferimenti o fraintendimenti.
Non si è mai visto nessuno avere successo con donne che non siano prostitute dichiarate semplicemente chiedendo in maniera esplicita all’oggetto del suo disio di poter godere delle sue grazie corporali. Chi facesse così potrebbe suscitare solo o ilarità o sdegno, se non altro per il fatto di voler imporre un meccanicismo da stato burocratico nell’atto più naturale della vita. Obbligare (con la minaccia di pesanti pene detentive) un uomo a richiedere sì espliciti dalle donne significa dunque nella realtà dei fatti imporgli la castità a vita (sex-workers a parte).

Concordo con il "femminismo" che non possano l'iniziale assenso, l'abbigliamento discinto e il comportamento disinibito costituire giustificazione per la violenza, ma prima pretendo che la gravità e la realtà violenza siano state, nei singoli casi concreti, oggettivamente dimostrate e non basate sul soggettivo sentire della donna e sulla sua parola accusatrice priva di riscontri come prove mediche o indizi e testimonianze di lotta, resistenza e tentativi di fuga. Non vi dovrebbe essere neanche bisogno, quando non vi siano riscontri scientifici della violenza, per un uomo di citare a propria difesa consenso iniziale, abbigliamento e comportamento.
Quando invece questo ancora accade? Nei casi in cui una donna sollecita per prima l'incontro, si veste come per far colpo, non si ribella agli approcci dell'uomo, ma anzi li incoraggia, e poi, quando questo si fa avanti, non lo respinge con risolutezza, non gli fa chiaramente capire di non volere, non chiama aiuto, non cerca di fuggire e poi, per un qualsisi motivo (per un litigio successivo, per capriccio, vendetta arbitraria, ricatto, interesse o gratuito sfoggio di preminenza sociale nell'essere creduta a priori mentre l'altra campana è tenuta a tacere, diletto sadico, rancore verso gli uomini, paura di svelare un tradimento, o semplice timore di apparire "leggera" per aver accettato un rapporto temuto compromettente per uno stupido concetto di "rispettabilità" o per vari motivi economico-sentimentali) denuncia di esservi stata costretta.
In uno stato di diritto dotato di presunzione di innocenza dovrebbe essere la donna a dimostrare di aver subito violenza, non l'uomo a provare a convincere della consensualità del rapporto (essendo reato la mancanza di consenso al rapporto, non già, come nel medievo talebano, il rapporto stesso). E se non vi è alcun riscontro oggettivo (nè un referto medico, nè testimonianze di tentativi di fuga o di lotta disperata) elementi quali il comportamento disinibito, l'abbigliamento discinto e soprattutto l'iniziale accettazione o proposta dell'invito dovrebbero rendere più probabile l'ipotesi della consensualità che non quella della costrizione (o perlomeno non far apparire quest'ultima come certezza tale da portare alla condanna).
Invece, pur di sostenere il diritto (generico e per me pure moralmente dubbio) della donna a permettersi davanti all'uomo qualunque provocazione, qualunque inganno, qualunque perfidia o comunque qualunque ambiguità , senza doverne affrontare le conseguenze poichè protetta da uno status di "dama intangibile" (prodotto da un misto di stupidità cavalleresca e demagogia femminista), quando non vi sono prove certe si crede sempre alla tesi della violenza, anche nei casi specifici (vedi il rapporto fra fidanzati) in cui ogni buon senso la dovrebbe vedere come la più improbabile. Perchè accade questo? Perchè evidentemente, se si lasciasse uno spiraglio di dubbio alla tesi opposta (ovvero a quella secondo cui vi sarebbe stato consenso) la propaganda femminista avrebbe troppo timore di lasciar credere che il possibile o implicito assenso iniziale, l'abbigliamento discinto o il comportamento disinibito costituiscano un permesso per l'uomo a "farsi avanti" sessualmente (l'obiettivo delle "femministe" è infatti quello di non dare mai all'uomo, di fatto, la possibilità di sentirsi certo del consenso, per permettere alle donne l'onnipotenza giudiziaria su di lui).
In tal modo, per affermare in abstracto il diritto della donna persino a (per usare il linguaggio del nostro amico) "fare la stronza" si distrugge nei singoli casi concreti il Diritto in quanto tale (che è presunzione di innocenza e necessità di provare tutte le accuse, non accettare per vera tutta la storia solo perchè vi sono riscontri sulla prima parte).

Ed ' così, fraintendendo in maniera sistematica ed ideologica il pensiero di molti fra gli uomini attuali, che, oggi, chiunque reclami l'oggettività del diritto viene tacciato di voler continuare a violentare/molestare le donne e chiunque pretenda la presunzione di innocenza passa per chi vuole a tutti i costi difendere/giustificare gli stupratori.

Quello che forse con troppa veemenza verbale io ed altri (puntualmente linciati da certi "cretinismi femminili" come "maschilisti stupratori") stiamo tentando di dire, è che il "fare le stronze" (ormai divenuto costume nei luoghi di divertimento come in quelli di lavoro, negli incontri brevi e occasionali per via o in discoteca come in quelli più lunghi e sentimentali), ovvero trattare con sufficienza o aperto disprezzo chiunque tenti un qualsiasi avvicinamento erotico-sentimentale, mostrare pubblicamente, per capriccio, vanità , aumento del proprio valore economico sentimentale o gratuito sfoggio di preminenza, le proprie grazie solo per attirare, illudere e sollevare nel sogno chi poi si vuole far cadere con il massimo del fragore, della sofferenza e del ridicolo, diffondere disio agli astanti e attrarre a sè (o addirittura indurre ad arte a farsi avanti e a tentare un approccio) sconosciuti che non si è interessate a conoscere ma solo a ingannare, far sentire nullità e frustrare sessualmente, dilettarsi a suscitare ad arte disio per compiacersi della sua negazione e di come questa, resa massimamente beffarda, umiliante e dolorosa per il corpo e la psiche da una raffinata, intenzionale e premeditata perfidia, possa far patire le pene infernali della negazione a chi è stato dapprima illuso dal paradiso della concessione, attirare e respingere con l'intenzione di infliggere continuamente tensione psicologica, ferimento intimo, senso di nullità , irrisione al disio, umiliazione pubblica e privata, inappagamento fisico e mentale degenerante se ripetuto in ossessione e disagio scivolante da sessuale ad esistenziale (con rischio di non riuscire più a sorridere nel sesso e di avvicinarsi ad una donna senza vedervi motivo di patimento, tirannia e perdita di ogni residuo interesse per la vita), usare insomma sugli l'arma della bellezza in maniera per certi versi ancora più malvagia di quanto certi bruti usino sulle donne quella fisica) non è un diritto, è una vera e impunita forma di violenza sessuale psicologica ai nostri danni, perchè i danni (piaccia o no al femminismo) esistono (e vanno dalla cosiddetta "anoressia sessuale" al suicidio, dal precoce bisogno di prostitute ad un disagio psichico ora celato con l'ironia ed ora pronto ad esplodere in eccessi di aggressività: che per millenaria consuetudine "cavalleresca" o per moderno appiattimento sul femminismo, gli uomini tendano a negare spesso anche a loro stessi le proprie sofferenze, non toglie che essi in tali casi siano davvero vittime). E quello che rende il nostro amico "rdvsnc" verbalmente veemente e me verbalmente prolisso, è la constatazione che proprio per affermare questo assai dubbio "diritto" (peraltro sempre e solo imposto dall'alto da certe lobbies culturali e mai espresso come volontà di questo o quel popolo) si pongano in dubbio persino oggettività e dimostrabilità del confine fra lecito e illecito e presunzione di innocenza.
Magari lo stupro può essere una reazione esagerata alla stronzaggine (specie quando questa non è continuata), ma anche certe pene pretese dal femminismo (si pensi a quelle per inoffensive palpate, a volte pure pretese da certe donne) sono esagerate per certi episodi di violenza sessuale (non tutti identificabili con quanto ogni mondo civile ha da sempre riconosciuto e punito come stupro),
ed anche invocazioni all'ergastolo, alla mutilazione fisica o alla distruzione psicologica (tramite gogne mediatiche o castrazioni chimiche) sono esagerate pure per i veri e dimostrati stupri (nulla, in uno stato di diritto, può ledere il diritto all'integrità, neppure la colpevolezza nel peggiore dei delitti).
In uno stato di diritto io non ho diritto a stuprare una "stronza" come una donna stuprata non ha diritto a uccidere o evirare il proprio violentatore (la giustizia, come insegna Platone, non è "occhio per occhio", ma tendenza verso il Bene).
Se invece scendiamo nel soggettivismo, allora ognuno è libero di stabilire le proprie vendicative corrispondenze, ed io non sono meno libero delle più vendicative fra le donne.


IL FATTO

E' stata emessa questa sentenza della cassazione.

[quote]
"Il rapporto sessuale che non avviene consensualmente è sempre stupro.

La Terza Sezione penale della Corte di Cassazione con la sentenza n. 34870/2009 ha ribadito il proprio consolidato orientamento in tema di reati sessuali confermando così la condanna per violenza sessuale nei confronti di un 32enne di Firenze, colpevole di aver costretto l’ex fidanzata ad avere un rapporto senza il suo consenso.

Nella motivazione della sentenza, osserva, altresì la Suprema Corte, “è del tutto insignificante l’abbigliamento della ragazza (dovendosi ritenere ormai pacifica la libertà per ognuno di indossare ciò che si vuole e dovendosi escludere che un abbigliamento potenzialmente seduttivo della donna “giustifichi” in alcun modo un abuso sessuale) sia perché la parte lesa ha sempre mantenuto costante e fermo il punto focale della sua accusa, l’essere stata costretta ad un coito da lei non consentito”.

Il ricorrente ha cercato di valorizzare l’abbigliamento (verosimilmente succinto) della vittima quasi che esso potesse costituire una causa di giustificazione del gesto violento, ma come è stato evidenziato dalla Corte di Cassazione “il consenso agli atti sessuali, deve perdurare nel corso dell’intero rapporto senza soluzioni di continuità”, trattandosi di una sfera soggettiva in cui sono tutelati, nella loro massima ampiezza, la dignità e la libertà, sia fisica che psichica della persona.

Infatti in tema di libertà sessuale non è necessario che il dissenso della vittima si manifesti per tutto il periodo di esecuzione dei delitto, essendo sufficiente che si estrinsechi all'inizio della condotta antigiuridica; conseguentemente l'imputato non può invocare a sua giustificazione di avere agito in presenza di un consenso dell'avente diritto, quando vi è stata la tempestiva reazione della vittima.

La prosecuzione di un rapporto nel caso in cui il consenso originariamente prestato venga poi meno a seguito di un ripensamento o della non condivisione delle forme o modalità di consumazione dell'amplesso, integra il reato di cui all'art. 609 bis c.p..

In tema di reati sessuali, poiché la testimonianza della persona offesa è spesso unica fonte del convincimento del giudice, è essenziale la valutazione circa l'attendibilità del teste; tale giudizio, essendo di tipo fattuale, ossia di merito, in quanto attiene il modo di essere della persona escussa, può essere effettuato solo attraverso la dialettica dibattimentale, mentre è precluso in sede di legittimità, specialmente quando il giudice del merito abbia fornito una spiegazione plausibile della sua analisi probatoria ai fini della formazione del libero convincimento del giudice, ben può tenersi conto delle dichiarazioni della parte offesa, la cui testimonianza, ove ritenuta intrinsecamente attendibile, costituisce una vera e propria fonte di prova, sulla quale può essere, anche esclusivamente, fondata l'affermazione di colpevolezza dell'imputato, purché la relativa valutazione sia adeguatamente motivata. E ciò vale, in particolare, proprio in tema di reati sessuali, l'accertamento dei quali passa, nella maggior parte dei casi, attraverso la necessaria valutazione del contrasto delle opposte versioni di imputato e parte offesa, soli protagonisti dei fatti, in assenza, non di rado, anche di riscontri oggettivi o di altri elementi atti ad attribuire maggiore credibilità, dall'esterno, all'una o all'altra tesi."
[/quote]

Avevo anch'io udito di questa sentenza, ma mi ero limitato a dire:

"Si può essere d'accordo in teoria su quanto affermato dai magistrati sulla non giustificabilità del sopruso, ma prima di parlare di sopruso spero abbiano verificato al di là di ogni dubbio le effettive gravità e soprattutto realtà della presunta violenza, e non si siano affidati alla semplice parola dell'accusa (la quale, per quanto credibile, genuina, coerente, consonante e riscontrabile fino ad un momento prima della presunta violenza, resta semprr di parte). Perchè se non vi sono prove dirette e testimonianze terze della presunta violenza, tutto quanto vogliono indicare come non giustificabile la violenza (invito partito da lei, abbigliamento discinto, comportamento disinibito, consenso iniziale) farebbe, a rigor di logica, pensare come più probabile un rapporto consensuale che non una violenza (o comunque non escluderebbe a priori l'ipotesi si una consensualità). Non vorrei che per affermare il peraltro moralmente dubbio diritto della donna a "fare la stronza" senza limiti si indebolisse la presunzione di innocenza."

E invece è proprio così.
Il più altro grado della giustizia in Italia ha stabilito (nella sua brama di "fare costume", in questo caso di affermare la assai dubbia liceità di quel costume da me altrove ben particolareggiatamente definito come "stronzaggine") che si può condannare senza riscontri oggettivi nè testimonianze terze chiunque, per la sola parola della donna (ritenuta "intrisecamente credibile" dal giudice), quindi non siamo più in uno stato di diritto.

In uno stato di diritto si devono mettere in dubbio tanto la parola dell'accusa quanto quella della difesa per poi cercare "riscontri oggettivi o altri elementi" in grado di dare "maggiore credibilità, dall'esterno, all'una o all'altra tesi". E se questo non è possibile (perchè magari "la testimonianza della persona offesa è spesso unica fonte del convincimento del giudice"), come direbbero i Latini (ma quasi mi vergogno a nominarli in questo contesto di barbaria giudiziaria), "in dubio pro reo". Qua invece, nel dubbio, il "libero convincimento" del giudice può far finire in galera qualsiasi cittadino per la sola parola di una donna, anche prima ed anche senza sia stato possibile ricostruire la vicenda con prove dirette della presunta violenza e con riscontri fattuali e testimonianze terze sull'effettiva gravità e soprattutto realtà di quanto contestato all'imputato.
Nessuno, dopo questa motivazione, avrà mai più diritto a presentare l'Inquisizione come massimo esempio di violazione dei diritti umani. L'inquisizione operava in un mondo in cui nei processi ordinari manco esisteva l'avvocato difensore. La Cassazione ha emesso una sentenza in un mondo che studia Beccaria. Non vi sono "scusanti ambientali". E' davvero uno stupro (del diritto) senza attenuanti.

Se la semplice parola dell'accusa viene assunta a priori come prova solo perchè ritenuta "credibile" (ma allora perchè non dovrebbe essere credibile anche la parola dell'accusato?), se il solo metterla in dubbio o chiederle di portare prove concrete e testimonianze terze per essere creduta viene considerato mancanza di rispetto o ulteriore prova di colpa (come pare ipotizzabile per un giudice di merito pronto a condannare l'imputato senza alcuna prova e a considerare tale la sola testimonianza dell'accusa non confermata da nulla di esterno ad essa), se, solo perchè il suo racconto è riscontrabile fino ad un certo punto, viene presa per verità anche su quanto non è affatto dimostrato da prove dirette o da testimonianze terze, se si lascia alla difesa l'onere di dimostrare falsa l'accusa non provata, allora siamo chiaramente e incontestabilmente in un processo inquisitorio.

PARTE OGGETTIVA

Per quanto credibile, coerente, genuina e priva di voglia di infierire, la dichiarazione dell'accusa è sempre di parte e non può essere in sè considerata fondamento di verità (nè può essere presa per vera su tutto solo perchè credibile in abstracto e riscontrabile nei fatti fino ad un momento prima del presunto stupro: chiunque volesse mentire si limiterebbe a far proseguire il racconto in maniera credibile ma inventata o esagerata ad arte), ma deve essere confermata puntualmente da prove oggettive e testimonianze di persone terze.
In caso contrario si tratta di mera AUTOREFERENZILITA'. Come dire: questo teorema è vero perchè, assumendolo per vero, tutto ha senso, è coerente e consonante. Pare la presunta prova ontologica di Sant'Anselmo sull'esistenza di Dio ("negli attributi di un essere perfetto vi deve logicamente essere anche l'esistenza"). Credevo che i giudici di un'era che si vanta figlia dell'illuminismo avessero almeno letto (e interiorizzato) la critica di Kant su tali tipi di "dimostrazioni": l'esistenza non è un predicato (ovvero una cosa reale differisce da una cosa immaginaria non per qualità intrinseche, come appunto la "razionalità" o la "perfezione", ma per il mero fatto di essere realmente verificabile e non soltanto ipotizzabile: in altre parole, l'esistenza di qualcosa può essere verificata solo per esperienza e mai per sola speculazione).
La verità è provata " perché la parte lesa ha sempre mantenuto costante e fermo il punto focale della sua accusa"? Ma sono giudici o bambini? Anche chi mente può tenersi fermo su un punto, specie se è quello che permette di mandare in galera l'altro.
La testimonianza della vittima fa può fare piena prova perchè "è ritenuta credibile in sè con motivazione adueguata"? Ma cosa, se non la tautologia, costituisce il massimo esempio di "verità credibile in sè" (ad esempio, "io uguale ad io") con motivazione perfettamente logica e razionale? Ed ha mai una quasiasi forma di tautologia potuto costituire il fondamento di verità per una qualsiasi indagine sul mondo reale? Non è forse proprio l'eccesso di "perfezione logica" e di "verità chiusa in sè" a rendere sospetta di tautologia (e quindi di verità scorrelata alla realtà) una affermazione sul mondo concreto?

Ammetto di non essere un esperto di diritto penale italiano, ma mi pare che la fede assoluta nelle "fonti di prova" emergenti soltanto "attraverso la dialettica dibattimentale" (e non tramite riscontri oggettivi e testimonianze terze) sia un vituperio per ogni ragionevolezza:
1) perchè una verità processuale stabilita in tal modo dipende in maniera critica più dalle abilità dialettiche degli avvocati che dai fatti realmente accaduti
2) perchè anche chi è innocente, e proprio per questo è emotivamente scosso dal trauma del carcere o comunque del processo, può apparire irrazionale (quindi incredibile) e contraddittorio, mentre anche chi mente, proprio perchè freddamente agisce in maniera da provocare all'altro un danno calcolato, può apparire al contrario credibile e coerente (specie se ha avuto tutto il tempo per pianificare la storia "credibile, coerente, genuina, consonante e senza intenzione di infierire").

Non è ammissibile in un mondo in cui si ha la pretesa di ricostruire la storia dell'uomo e della terra con tecniche sofisticatissime, affidarsi, per la verità processuale, a chi "racconta una storia più credibile" (anche se non supportata da nulla di diverso dalla propria parola). Mi rifiuto di pensare che saper raccontare bugie credibili possa permettere ad ogni donna di far finire in galera chiunque a capriccio. Perchè questo segue dalla sentenza dei giudici.

"E ciò [l'accusa che può valere come prova] vale, in particolare, proprio in tema di reati sessuali"?. Illogico e aberrante. Specialmente lì, ove la vaga e onnicomprensiva definizione voluta dalla "femministe" ed accettata dai "cavalieri" può mandare in galera chiunque per la sola parola della donna (la quale, come ogni essere umano, può essere buona come malvagia, onesta come bugiarda, e potrebbe, esattamente come in condizione inversa potrebbero fare, e in altri paesi fanno, gli uomini, mentire, per via di un litigio successivo, per capriccio, vendetta arbitraria, ricatto, interesse "economico-sentimentale", o gratuito sfoggio di preminenza sociale nell'essere creduta a priori mentre l'altra campana è tenuta a tacere, diletto sadico, rancore verso l'altro sesso, paura di svelare un tradimento, o semplice timore di apparire "leggera" per aver accettato un rapporto temuto compromettente per uno stupido concetto di "rispettabilità", o per vari motivi non sempre individuabili, intuibili o comprensibili dall'esterno), per qualsiasi atto, gesto, detto, toccata o persino sguardo non abbia oggettivamente nulla nè di violento nè di molesto ma abbia la sola colpa di esprimere desiderio naturale per il corpo della donna e di non essere da questa a posteriori gradito (dopo che però magari lo ha implicitamente indotto o socialmente preteso), o comunque per fatti la cui gravità e la cui realtà effettive sono tutte da verificare, bisognerebbe pretendere l'oggettività del diritto e la presunzione di innocenza!
Invece no! Pur di "dare ragione" al femminismo e alla voglia di onnipotenza giuridica di certe donne, distruggono ogni diritto ed ogni ragione.

Rido del riferimento alla "adeguata motivazione". Come fa il giudice di legittimità a stabilire se una motivazione è adeguata? Con ogni probabilità si limiterà a valutare che una versione sia più credibile (o coerente, consonante, razionale o tutti i termini che piaccino ai giudici) dell'altra. Ma questo non prova un bel nulla. Chiunque conosce la vita sa che spesso la realtà umana è incredibile, incoerente, dissonante, irrazionale e chi più ne ha più ne metta. Non si può condannare un cittadino solo perchè la sua versione appare "meno probabile" di quella dell'accusa. Siamo in un processo penale, non in un dibattito storiografico (in cui quanto è più probabile viene fatto passare per storia). Vi deve essere la ragionevole certezza che nessuna versione da cui l'imputato possa risultare innocente sia vera. Questo sarebbe lo stato di diritto.

Quando leggo certe assonanze fra ciò che scrivono "le femministe a sud" e ciò che (con il dolore di cittadini innocenti fino a prova contraria) scrivono i giudici rischio davvero di divenire misogino, perchè vedo quel diritto e quella ragione, faticosamente costruiti nei millenni da quegli uomini di buona volontà, i quali, da Cicerone a Beccaria, hanno spesso lottato, con la sola forza della calma e del ragionamento, contro una marea storica di irrazionalità, soprusi e arbitrii, venire gettati al vento in nome di una tutela ("sono tutelati nella loro massima ampiezza, la dignità e la libertà, sia fisica che psichica della persona") di fatto a senso unico (perchè io, in quanto maschio, posso, proprio per colpa di questa ipertutala pro-femmina, subire bellamente il trauma personale, materiale, psicologico, e a volte anche fisico, del carcere da innocente, ed avere la vita, la psiche, la salute rovinate dalle conseguenze giuridiche, economiche, finanziarie, personali, fisiche, di un'accusa lanciata per capriccio, vanità, vendetta arbitraria, voglia di risarcimento, ricatto, interesse economico-sentimentale o gratuito sfoggio di preminenza sociale, o comunque per qualcosa di non provato al di là di ogni dubbio ragionevole).

"Se si seguissero questi tuoi principi garantisti certe violenze non sarebbero quasi mai punite", mi si risponde da quei siti da te linkati.
Allora dico l'indicibile. Questi giudici dovrebbero riflettere sulla liceità, per un sistema giuridico fondato sulla ragione e sul diritto (nonchè sulla proporzionalità della pena: danno grave -> pena grave, danno lieve ->pena lieve, danno non rilevabile -> nessun reato), di includere in un reato grave come la violenza sessuale quanto manco lascia segni oggettivamente rilevabili per gli investigatori (e quindi può difficilmente, anche qualora vero, essere accostato al grave trauma psicofisico dello stupro, al contrario ben evidente e riscontrabile sotto ogni punto di vista, e giustificare una pesante pena detentiva per il colpevole), anzichè inneggiare alla possibilità di condannare qualcuno senza prove.

Per poter affermare i loro "immortali principi" (ivi compreso ancora una volta "il diritto della stronza"), accettano il rischio di mandare in galera degli innocenti. Cosa direbbe Nietzsche (e non solo lui) a questo punto?
Schifo, schifo, schifo!

E tutto questo anche senza considerare che un "libero" (ma allora perchè non dire arbitrario?) "convincimento" (ma sarebbe più corretto dire "convinzione") può sorgere o essere influenzato da elementi extragiudiziari e soggettivi ben lontani dall'imparzialità, come ad esempio (in questo caso) le pressioni mediatiche e culturali del momento o pregiudizi contro l'accusato dettati da stupidità cavalleresca o demagogia femminista (ma anche, in altri casi, dal "maschilismo" tanto lamentato dalle attiviste femministe). Per questo, in ogni caso, qualsiasi "convincimento" non può essere "libero" nel senso di arbitrario, ma solo in quello di "imparziale rispetto ad elementi extragiudiziari", e quindi deve essere VINCOLATO a riscontri oggettivi, prove dirette, testimonianze certe e "altri elementi atti ad attribuire maggiore credibilità, dall'esterno, all'una o all'altra tesi".
Negando questo,non si capisce sulla base di cosa, se non di una aprioristica considerazione della donna come unica fonte di verità e sensibilità umane, una tesi possa essere giudicata "intrisecamente credibile", quando non può essere confermata da nulla di oggettivo e di indipendente da essa: vince dunque in un processo non chi riesce a provare il vero, ma chi sa raccontare storie più verosimili?

Forse quando Lucaks accusava Nietzsche di essere un "distruttore della ragione" non aveva previsto che, al contrario, non i nietzscheani, ma gli antinietzscheani "egalitari e femministi" sarebbero arrivati a tanto.
Ben sarebbe invece di giovamento la massima del filologo di Rocken: "le convinzioni, più delle bugie, sono nemiche pericolose della verità".

In ogni caso, anche immaginando un giudice obiettivo e senza pregiudizi, una "valutazione probatoria" basata sulla mera "plausibilità" di un racconto piuttosto che di un altro fa a pugni con ogni principio di "scientificità" o quantomeno di "ricerca del riscontro oggettivo e reale" su cui si fonda il mondo sedicente moderno. Sarebbe come pretendere di descrivere la realtà secondo l'aristotelismo di Don Ferrante (non provato da nessun riscontro concreto, ma a parole perfettamente logico, coerente e all'apparenza incontestabile) e non secondo il metodo galileiano.

La "validazione della tesi accusatoria" si può fondare sul fatto che uno splendido, plausibile e coerente ragionamento del giudice la vede come realistica, mentre la tesi difensiva si mostra dialetticamente contraddicibile?
Ma questi sono metodi da sofisti! Tutta la logica e la coerenza del mondo non possono stabilire alcun valore di verità se non si applicano a "riscontri oggettivi o ad " altri elementi atti ad attribuire maggiore credibilità, dall'esterno, all'una o all'altra tesi", ma continuano a riferirsi soltanto alle parole!
Possibile che nessuno se ne renda conto?

Praticamente questi "giudici" stanno dicendo che, pur di non lasciare impuniti reati consideati gravi (ma anche l'omicidio è grave, eppure non per questo si condannano all'ergastolo o a trent'anni persone sulla cui colpevolezza non vi sono riscontri oggettivi o altri elementi tali da fugare ogni dubbio ragionevole) si può (anzi, si deve) condannare sulla base di parole e non di fatti. Bell'esempio di giustizia!
Mi viene quasi da riprendere le parole di Berlusconi: "ai giudici si dovrebbe fare un esame di sanità mentale" e "questa gente a dire queste cose dovrebbe provare un minimo di vergogna".

Come se non fossero obbligati a sapere che, se i diritti umani valgono, come disse qualcuno prima di me, centinaia di criminali possono anche restare liberi, ma un solo innocente in carcere rende l'intero sistema legale un sistema criminale!

E il motivo è presto detto.

Nel primo caso (colpevoli fuori), l'unica colpa dello stato è quella di non essere riuscito (nonostante tutta la buona volontà) a fare giustizia di un crimine commesso da altri, da criminali che comunque ha cercato e cerca sempre di identificare, perseguire e far condannare secondo ovviamente le regole del sistema giudiziario. E' ancora nell'ordine delle cose che un criminale delinqua ed è ancora plausibile che purtroppo non lo si riesca a punire legalmente. La colpa del delitto resta però tutta del criminale.
Nell'altro caso (innocente dentro) è invece lo stato a compiere un crimine ex-novo (ovvero privare della libertà un cittadino innocente) e in prima persona (ovvero a fare l'esatto contrario di quanto dovrebbe per suo stesso statuto, perchè commette direttamente un'ingiustizia e una violenza contro un cittadino anzichè proteggerlo dall'ingiustizia e dalla violenza degli altri). La colpa del delitto è qui tutta dello stato (che dal nulla crea un'atto violento e ingiusto). Questo è fuori dall'ordine delle cose, perchè costituisce la negazione del motivo per cui esiste lo stato (ovvero difendere i cittadini dall'arbitrio, dal danno ingiusto, dalla forza illegittima).
Non si tratta più di non riuscire a riparare ad un crimine già commesso da altri, ma di commettere un nuovo crimine in prima persona. Vi è la stessa differenza fra chi non riesce a riparare qualcosa (di già rotto da altri) e chi qualcosa rompe per azione propria.
Questo principio garantista non è una mia personale opinione, è uno dei fondamenti di ogni stato retto dal diritto e dalla giustizia.

Pretendere la presunzione di innocenza anche nei casi di violenza sessuale (esattamente come in tutti gli altri reati) non significa assumere che tutte le donne siano talmente false e perfide da accusare un innocente per capriccio, vendetta, ricatto o sadismo, ma impedire che quel sottoinsieme di donne false e perfide possa causare danni a qualunque uomo. Esattamente come pretendere che lo stupro sia seriamente perseguito non significa assumere che tutti gli uomini siano stupratori, ma giustamente pretendere che quel sottoinsieme tanto violento e malvagio non possa nuocere impunemente.

Io sono fermamente convinto che la stragrande maggioranza delle donne sane di mente, nemmeno sapendo di doversi vendicare di qualcosa, nemmeno sapendo di poterne trarre un grande vantaggio, nemmeno sapendo di poter rimanere impunita, sarebbe mai capace di denunciare qualcuno per una violenza mai avvenuta, come sono sicuro che anche le attiviste sono convinte che la maggioranza degli uomini non sarebbe mai capace, nemmeno sapendo di poter contare su una sostanziale impunità, di usare violenza su una fanciulla indifesa.
E dirò di più: sono anche convinto che molte donne in particolare (se non altro per non avere impostazioni mentali "cavalleresche" e per non essere soggette al timore di essere tacciate di "maschilismo" o di "fare branco" come potrebbero esserlo gli uomini nella stessa situazione) sanno sentire profondamente l'ingiustizia subita da un innocente accusato da un'altra donna, sanno comprendere tutta la gravità del trauma psicologico da lui subito e sanno attivarsi per cercare per quanto possibile di rimediare (del resto chi più degli altri si batte per la libertà di Parlanti sono le ragazze di "Prigionieri del Silenzio", alla faccia della tanto decantata "solidarietà maschile").

Se però si supponessero tutte le persone buone e giuste non servirebbero nè leggi, nè stato, nè giudici. La legge esiste proprio per tutelare il cittadino anche nel caso peggiore in cui incontri la persona più violenta o più falsa della terra.
Quando si ragiona di legge si deve abbandonare ogni proposito moralistico di capire perchè e per come le persone non siano nè buone nè sincere, e si deve ragionare realisticamente ex-summo-malo, pensando a come fare perchè, posto che certe persone siano malvagie e bugiarde al massimo grado, le loro violenze o le loro menzogne non abbiano comunque libero agire all'interno dello stato.
Il fine dello stato è proprio quello di riuscire a imporre la giustizia e la protezione dei cittadini anche in un mondo in cui gli stessi non sono affatto, nella loro maggioranza, "buoni" e "sinceri".
Non è un buono stato quello che per funzionare presuppone come condizione necessaria bontà e sincerità.
Come non ci si deve limitare a inveire moralisticamente contro la malvagità di chi uccide, ma si deve predisporre un sistema giudiziari in grado di impedire gli omicidi (con prevenzione e repressione), così non ci si può contentare di maledire moralmente la donna che accusa falsamente, ma si ha l'obbligo di costruire un sistema di diritto in grado di impedire alle sue simili di far finire in carcere gli innocenti.
Il mondo del diritto ha da secoli compreso gli strumenti per realizzare ciò.
Per difendersi dalla violenza si rendono reato lo stupro, la rapina, il furto e l'omicidio (scoprendo i colpevoli con strumenti investigativi punendoli con pene giudiziarie proporzionate al danno provocato e dimostrato), per difendersi dalla falsità si fa obbligo di provare ogni accusa.

E non mi si dica che basta il fatto che la calunnia e la falsa testimonianza siano reati.
In primis, le pene per tali reati sono risibili al confronto di quelle per lo stupro (ed anche del trauma psicologico subito da chi, accuasto ingiustamente, subisce un processo in auta, sui media e nella vita relazionale), tanto da rendere comunque "vantaggioso" il "rischio" per chi voglia accusare falsamente (cos'è un anno con la condizionale al confronto di 5-10 anni senza i benefici della Gozzini?).
In secundis, anche se le pene per calunnia e falsa testimonianza fossero draconiane o comunque comparabili a quelle per stupro, risulterebbe difficile, una volta abolita la presunzione di innocenza, che chi accusa falsamente venga scoperta (potrebbe esserlo solo nel caso fortuito della presenza di telecamere in loco, della delazione di qualche amica a conoscenza del "perfido piano" o dell'ingenuità commessa nel lasciare tracce della realtà dei fatti come sms o messaggi sul web). Vi è infatti a monte un fatto di "epistemologia" ben spiagato dal buon Popper. Mentre è sempre possibile dimostrare l'esistenza di quanto esiste, non sempre è possibile provare la non esistenza di quanto non esiste. Si può dimostrare la non esistenza dei fantasmi, di dio o del puro spirito? Possiamo provare di non essere mai andati sulla luna con l'ippogrifo? Come potremmo difenderci dall'accusa di aver commesso qualcosa di inesistente? Nei processi per stregoneria era praticamente impossibile essere assolti proprio per l'impossibilità di dimostrare di non aver commesso atti la cui esistenza non può essere nè affermata nè negata da prove certe (proprio in quanto extra-scientifici ed extra-fisici). Lo stesso capita a chi è accusato di violenza quando si intenda per essa anche ciò che non lascia segni riscontrabili oggettivamente.

Vorrei trovare meno spesso la parola "credibilità" e più spesso la parola "oggettività".

Concludo con una massima del maestro di Nietzsche: "o si pensa o si crede" (A. Schopenhauer, Scritti sulla religione). E la commento facendo notare come un giudice serio non debba affatto "credere" a questo piuttosto che a quella, bensì "pensare" se i riscontri oggettivi e le testimonianze di persone terze danno ragione all'uno o all'altra. E, nel dubbio, assolvere per insufficienza di prove (così come, nel dubbio, uno scienziato non enuncerebbe mai come verità provata una mera ipotesi non verificata dai fatti oggettivi).
Questa è ragione. Il resto è religione. E il pericolo del mondo moderno è l'assurgere del femminismo a religione ufficiale dell'occidente.
Ecco perchè, nonostante tutta la volontà possibile, non posso accettare di entrare in siti i cui argomenti magari coincidono con i miei su certi temi, ma poi si mostrano fondati su dogmi mitico-religiosi (in questo caso di tipo matriarcale).


PARTE SOGGETTIVA

Nè oggi, nè nel cinquecento, nè mai fu è o sarà ammissibile che una donna abbia il diritto ad essere sessualmente ambigua pretendendo l'uomo resti "sessualmente corretto". E chi stabilisce poi la correttezza? La donna sola? E se per capriccio, vanità, interesse o gratuito sfoggio di preminenza si bea di essere ambigua (e di giocare per sadico diletto), perchè io non posso altrettanto a capriccio risolvere l'ambiguità a modo mio? Se ha lasciato le cose nel dubbio ha anche implciitamente accettato che l'altro capisca nell'uno come nell'altro modo.
Poi per me non è affatto pacifico che la donna abbia il diritto a permettersi di tutto davanti all'uomo (qualsiasi provocazione più o meno sessuata, qualsiasi ferimento intimo, qualsiasi irrisione al disio, qualsiasi umiliazione pubblica o privata, qualsiasi inflizione, tramite l'arma erotica, di sofferenza alla psiche o al corpo, di inappagamento fisico e mentale fino all'ossessione, di disagio da sessuale ad esisentenziale con conseguenze variabili dall'incapacità futura di sorridere alla vita e al sesso e di approcciare una donna senza vedervi fonte di inganno o tirannia, al suicidio) senza dover temere le conseguenze poichè protetta dal proprio "status" di dama intangibile.
Anzi, il tentativo di affermarlo è cosa che in me scatena ira guerriera e funesta.

In tali casi bisognerebbe verificare nell'ordine che:
1) il diniego sia stato sinceramente tale e non abbia fatto parte di quella di una tecnica femminile volta ad accrescere disio nell'uomo, a testare il suo interesse interesse e a guadagnare tempo per valutare e godersi le eventuali doti che lo si costringe a mostrare.
Non sarebbe la prima volta che un apparente diniego significa in realtà un invito non ad andarsene o a rinunciare (fatto che porterebbe la donna a disprezzare l'uomo) ma a riprovare, tentare, insistere e resistere, perchè dalla capacità di un uomo di sopportare ciò molte verificano la loro avvenenza. Per saperlo si può soltanto provare, non si può nè indovinarlo a priori nè chiedere dichiaratamente. Quello si fa solo con le puttane. Con le altre rovinerebbe la naturalezza del rapporto. Un rapporto naturale, infatti prevede un graduale scivolamento fra le onde della voluttà, in cui chi fa il primo passo non può mai sapere se sarò gradito, ma deve tentare alla cieca e poi proseguire gradatamente di volta in volta verificando le reazioni di accettazione/diniego (le quali non sono quasi mai esplicite e verbali, ma quasi sempre implicite e non verbali, come sguardi, sospiri, parole non dette, carezze trattenute, respingimenti deboli, abbandoni forti) ed agendo di conseguenza. E se il solo tentativo è stupro allora tanto vale andare solo con le puttane, almeno fintantoché le "donne oneste" non accetteranno di concedersi ovunque in maniera esplicita anche senza l'atmosfera che ora pretendono (e la quale si dissolve con l'obbligo di richieste chiare in carta bollata come quelle pretese di fatto dalla legge per non cadere nell'accusa di stupro).
2) l'uomo abbia davvero avuto l'intenzione di forzare e non sia stato semplicemente tratto in inganno da una ambiguità voluta dalla donna o da una situazione involontariamente (rispetto alla volontà di entrambi) dubbia.
Con le puttane si può chiedere esplicitamente e a priori cosa si può e cosa non si può fare, accordandosi sul contraccambio. Con le donne normali si deve invece seguire la natura: vi deve essere uno spontaneo scivolamento dal mondo razionale degli individui a quello dionisiaco della voluttà , senza forzature.
Per natura prima ancora che per cultura l'uomo è costretto alla fatica della conquista, per cui non può né aspettare che la donna si faccia avanti per prima né chiedere a priori ed esplicitamente un permesso formale e scritto per questo o quello come fosse in un ufficio burocratico (giacché tal meccanicismo burocratico rovinerebbe qualsiasi naturalità dell'amore), ma deve tentare, deve agire per primo senza sapere se il suo gesto, la sua parola, il suo tentativo di contatto, saranno graditi: deve di volta in volta fare il primo passo (con il gesto, la parola e il tatto) e vedere le reazioni. E queste non sono quasi mai esplicite e dichiarate o verbali (le parole in certi momenti sono di troppo), ma quasi sempre implicite, nascoste in sguardi, sorrisi, gesti, movimenti di tacita accettazione, respingimenti finti o finte lotte di chi non vuol vincere, o addirittura, come fra gli animali, fughe di chi vuol essere seguita e "parole" e suoni che sembrano di diniego e invece invitano a insistere e vincere le resistenze. Come chiunque in guerra sia costretto a dare battaglia, l'uomo deve agire senza sapere se la propria azione avrà successo, non può l'uomo chiedere al "nemico" quale attacco gradisca, ma deve provare, rischiare, sorprendere, insistere e resistere, per scoprirlo, regolandosi poi in base alle reazioni.
Solo l'esito della prova può dirgli se procedere nell'attacco o ritirarsi. Prima del contatto (sia esso con la parola, lo sguardo, il gesto o il tocco), infatti, neppure la donna può sapere se volere o non volere, giacché certe cose si valutano per esperienza, non per speculazione: non esiste donna che non sia puttana pronta a concedersi a prescindere da tutte quelle sfumature di luci, parole, sospiri, sguardi, carezze, labbra sfiorate, frasi non dette e pensieri non mai immaginati che solo la situazione ambientale crea e nessun ragionamento aprioristico può far realmente provare. E prima di poter valutare la reazione della donna nemmeno l'uomo può essere sicuro di essere stato accettato o meno. E se lo stesso primo tentativo vale come molestia e addirittura l'errore nell'interpretare la reazione della donna come stupro, allora tutti gli uomini andranno giustamente a puttane.
3) la donna sia davvero una fanciulla innocente che non desidera alcun contatto sessuale e non una stronza che si diletta a susciatare ad arte il disio per poi compiacersi della sua negazione (e di come questa, resa massimamente beffarda, umiliante e dolorosa per il corpo e la psiche del malcapitato, da una premeditata e intenzionale perfidia, possa provocare pene fisiche e mentali degne dell'inferno dopo la promessa della concessione di paradiso e comunque, specie se reiterate, tali da segnare per sempre la vittima nella sfera psicosessuale, in maniera simile a quanto i bruti fanno nella stessa sfera tramite la violenza fisica, sino a renderle impossibile continuare a vivere serenamente non solo la sessualità, ma anche le gioie quotidiane, ad avere una vita sessuale normale, ad approcciare le persone dell'altro sesso senza vibrare di paura e di disgusto e senza sentir riemergere dal profondo l'ansia del trauma), ottenendo in cambio quanto moralmente ampiamente meritato (ovvero un trauma nella sfera psichica e sessuale di intensità pari o superiore a quello da lei inflitto per capriccio, vanità, interesse economico sentimentale, gratuito sfoggio di preminenza o addirittura sadico diletto).



Cosa farei soggettivamente?
Questa "fanciulla" ha dapprima intenzionalmente ingannato sessualmente il fidanzato, come fanno tante per capriccio, vanità, interesse "economico sentimentale" o gratuisto sfoggio di preminenza, suscitando ad arte il desiderio solo per compiacersi della sua negazione, e poi lo ha denunciato per una violenza alquanto dubbia.
Probabilmente nè il suo abbigliamento nè il suo comportamento erano casuali o frutto di "abitudini disinibite diffuse fra i giovani". Probabilmente ha calcolato tutto fin dall'inizio per punirlo della rottura, lasciandogli credere tanto con l'abbigliamento quanto soprattutto con il comportamento, di amarlo ancora (o perlomeno di desiderare di stare con lui) fino a fare impazzire i suoi sensi di desiderio e la sua anima di rammarico per il non essere più fidanzati, per poi negarglisi proprio quando o il suo corpo non poteva più fare a meno di lei o la sua mente non poteva più capire un eventuale diniego.
Forse addirittura non si è trattato nemmeno di una violenza intenzionale da parte di lui in seguito alla frustrazione per il rifiuto conseguente la provocazione, nè di una violenza inconsapevole causata dall'ambiguità dei "contrasti amorosi" in generale e di questa situazione in particolare. Forse ella stessa ha voluto trovarsi in quella situazione ed ha pianificato minuziosamente ogni dettaglio dell'abbigliamento, del comportamento e della situazione affinchè lui non riuscisse più a fermarsi o non capisse di doversi fermare proprio per poterlo far finire in galera!

Questo è un modo di vendicarsi dell'ex che merita a sua volta come vendetta una vera e traumatica violenza del genere di quelle commesse dall'armata rossa sulle (quelle sì innocenti) donne germaniche. Certo, non ho riscontri oggettivi nè altri elementi per sostenere questa tesi rispetto a quella dei giudici. Ma la Cassazione ha appena finito di dire che i riscontri oggettivi e gli "altri elementi atti ad attribuire maggiore credibilità, dall'esterno, all'una o all'altra tesi" non servono per giudicare e condannare una persona innocente fino a prova contraria. E allora io condanno la donna seguendo la versione che il mio "libero convincimento" (peraltro basato su esperienze personali ammesse da donne) sente come più credibile. Occhio per occhio.
Sono ingiusto?
Sono giusto come la giustizia italiana. Del resto, il giudice di merito, prima di convincersi della credibilità del racconto di una ex-fidanzata (e dunque di una persona, alla pari degli ex-fidanzati, potenzialmente desiderosa di vendetta sentimentale), quali elementi ha per escludere l'ipotesi di una ricostruzione falsa o esagerata ad arte dei fatti (magari non necessariamente coincidente con il mio esempio estremo, ma comunque tale da non poter essere valutata fonte di prova se non confermata da riscontri oggettivi)? Solo le parole e la plausibilità? Ma le parole possono mentire e l'apparente plausibilità ingannare (del resto anche l'ipotesi della vendetta dell'ex è plausibile). Se non ha riscontri oggettivi nè altri elementi come può escluderla a priori? E se non può escluderla con sicurezza come può condannare? Ammette il rischio plausibile di condannare un innocente? Ma questo è contrario al diritto.
E allora fra me, libero cittadino che trea le proprie conclusioni morali, e il giudice, investito dallo stato del potere di condannare e assolvere, chi è più ingiusto quando opera secondo il proprio "libero convincimento"?


PARTE CONCLUSIVA

In uno stato di diritto l'uso legittimo della violenza deve spettare alla pubblica autorità ed essere vietato al singolo cittadino.
I giudici, però, ci hanno appena mostrato come in tema di reati sessuali non siamo più uno stato di diritto (in cui dovrebbero vigere la presunzione di innocenza, l'impossibilità di essere sottoposti a procedimenti giudiziari sul "libero arbitrio" di questo o quel giudice, e la necessità, prima di emettere qualsiasi provvedimento restrittivo della libertà personale, di provare ogni accusa al di là di ogni dubbio con riscontri oggettivi e testimonianze terze).
Quindi ricadiamo in un altro caso, quello su cui ben si espresse il padre della patria Giuseppe Mazzini: quando uno stato opprime il popolo e priva i cittadini dei loro diritti, questi hanno non solo il diritto, ma pure il dovere di ribellarsi, usando anche la violenza e il "terrorismo", laddove questi siano gli unici mezzi per sostenere la giustizia conto una preponderanza di forze del potere politico e militare dello stato oppressore.

E non è solo la "morale dei diritti umani" (quale appunto quello ad avere una giustizia non inquisitoria) a motivare questo mio invito all'insurrezione contro lo stato "femminista-cavalleresco", ma la ragionevole visione politica del Machiavelli.
Perchè certe sentenze sono emesse da giudici (spesso uomini) non certamente in sè femministi e probabilmente neanche troppo convinti dentro di loro della liceità e della giustizia di certe decisioni e di certi "principi" (come mostrano sia sentenze di senso contrario in passato, sia pene esagerate talvolta inflitte alla maniera di chi fa qualcosa di eclatante per "discolparsi")?
Perchè hanno paura di essere tacciati di "vetero-maschilismo" dalla propaganda mediatica (di stampo femminil-femminista) e di venire bollati come "nemici delle donne da combattere" dalla cultura politicamente corretta, e, di conseguenza, di perdere il posto, di venire a propria volta incriminati di qualcosa, o comunque di venire socialmente emarginati o mediaticamente linciati. Ecco perchè cessano di difendere il diritto e la ragione (e il garantismo) di cui invece in altri ambiti si mostrano strenui assertori (a volte pure troppo).
Ecco dunque che per farli tornare alla ragione si deve anteporre loro una paura maggiore.
Come insegna il Machiavelli, "l'amore è tenuto da uno vincolo che per essere la natura degli uomini triste, può essere tosto sciolto allo proprio comodo, mentre il timore è tenuto da una paura di pena che non abbandona mai".
Noi sostenitori dei diritti degli uomini dobbiamo dunque smetterla di implorare comprensione, pietà, amore da chi ci combatte (per conto d'altrui) e affrontare il terrore con altro terrore.
Se questi giudici avessero come prospettiva, ad ogni sentenza antimaschile emessa con disprezzo dell'oggettività del diritto e della presunzione di innocenza, di prendersi una pallottola in testa mentre rincasano, di morire bruciati vivi nella loro auto, di essere riempiti di piombo dal fuoco concentrato di lupare e kalashnikov, o anche solo di venire rapiti e processati da una giustizia sommaria quanto la loro, di essere amputati della mano che ha scritto la sentenza o privati (violentemente) di quei figli che spesso tolgono ai padri, oppure, almeno di essere bastonati dalle vittime della loro ingiustizia, gambizzati dai condannati innocenti, o minacciati feriti alla gola (anche solo superficialmente) dalle vittime delle menzogne femminee divenute sentenze, allora ci penserebbero non due, ma tre volte prima di distruggere il diritto e la ragione in nome della "tutela della donne".
Visto che (come mostra quest'ultima sentenza) l'appello al diritto la spiegazione secondo ragione non bastano più a tutelaci dal sopruso, allora dobbiamo essere altrimenti convincenti con i giudici.
E' inutile inviare ricorsi in cassazione, meglio far pervenire ai giudici di merito una bella e CHIARA letterina.
"Signori giudici, voi non avete capito, o per meglio dire non volete capire, che cosa significa UOMO INNOCENTE FINO A PROVA CONTRARIA. Voi state giudicando degli onesti galantuomini, che le femmine e la polizia denunciarono per capriccio.
Noi vi vogliamo avvertire che se uno solo di questi galantuomini sarà condannato, voi salterete in aria, sarete distrutti, sarete scannati, come pure i vostri familiari. Ora, non vi reste che essere giudiziosi"

Con uno stato retto da questi giudici, Cosa Nostra appare un ottimo esempio.
VAI DI TRITOLO!
Questi giudici (e mi riferisco a quelli di merito, pronti a considerare prova una dichiarazione di parte, più che a quelli di cassazione, impossibilitati a giudicare sulla validità del ragionamento probatorio e vincolati al peraltro assurdo principio del "Libero convincimento" del giudice, da cui possono poi derivare ingiustizie di ogni senso, tanto innocenti in carcere senza prove quanto colpevoli fuori pur con prove a carico) meritano di fare la fine di Falcone e Borsellino.

In conclusione, non si tratterebbe di violenza ingiusta, ma di uso della forza volto a ripristinare il diritto e la ragione laddove questi sono stato sovvertiti con la menzogna, la propaganda e l'uso strumentale del potere giudiziario e mediatico.

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