PERCHE' HO CHIESTO UNA ESCORT A BABBO NATALE
Normalmente la società ha una pessima opinione degli uomini sognatori, così come dei drogati, e di chi in genere vive più nell'astratto che nel concreto, più nell'immaginazione che nella realtà. Solo quando il prodotto del suo "sognare" diviene successivamente oggetto di pubblica venerazione, come nel caso dell'arte poetica, letteraria, statuaria o pittorica, o di ammirazione oggettiva, come nel caso della matematica, al "sognatore" viene perdonato il comportamento solitario e "onirico", così lontano dal contatto con la vita "pratica" e con gli altri uomini.
Ciò avviene di norma solo dopo la morte (o, al massimo, nell'avanzata vecchiaia) dell'uomo "sognante", il quale ha comunque vissuto nel biasimo degli amici, nel disinteresse delle donne, nel disprezzo o almeno nel rimprovero della società, avversa a chi conferisce più importanza, valore e verità alle bellezze, alle immagini e alle idealità del sogno, della fantasia, della creazione imaginifica che non alle cose, ai beni, alle persone "reali".
Il poveraccio che mendica, il disonesto che impiega astuzia e destrezza per sottrarre patrimoni al prossimo, il mediocre che si affanna a mettere (economicamente) a frutto le proprie doti "sociali" per emergere possono essere compatiti, odiati, invidiati o mal sopportati, ma sono comunque "compresi", giacché fanno "il massimo", o comunque ciò che pare razionale nelle loro condizioni fare, secondo i parametri socialmente accettati, al fine di migliorare la vita "reale", e quindi, per questo (indipendentemente dai risultati, dal valore, dal danno prodotto agli altri) non subiscono lo stesso rimprovero dagli "amici", non sono sottoposti allo stesso disprezzo dalla gente, non vengono guardati con il medesimo sguardo fra il disinteressato e l'inorridito dalle donne, come chi, invece si è rovinato con il gioco, la droga, le escort, o trascura il lavoro e gli interessi "materiali" per un amore artistico o sportivo, o ideale, o per rifuguarsi in paradisi dell'immaginazione (in piaceri naturali, artificiali, o poetici), oppure ha speso tutto per una passione, per un sogno, per una vita passata ad inseguire le chimere del suo cuore di fanciullo.
Vi è in questo giudizio una intolleranza della gente comune e delle "creature mondane" verso chi toglie importanza e centralità (e quindi valore) a loro, ai loro interessi, alle loro "realtà", per chi è in grado di vivere in un "altro mondo" rispetto a cui quello comune appare piccolo, lontano e insignificante? Non potrà mai essere noto. Quello che è chiaro è il basarsi di tale inappellabile giudizio su due assunti fondamentali: in primis, che la felicità possa esistere nel reale, in secundis, che esista una differenza sostanziale fra realtà e sogno.
Nella sfera specificatamente erotico-sentimentale consegue direttamente da queste due premesse che chiunque ricerchi la felicità fra le belle forme di una "principessa di cartapesta" (come nella tesi di Chiara di Notte) o comunque in una recita o in una situazione creata ad arte, sarebbe simile al drogato, debole, incapace e infantile (oltre che infinitamente colpevole di aver dilapidato denari o possibilità concrete di felicità), mentre l'uomo da ammirare (o comunque da rispettare) risulterebbe essere chi si impegna per cercare la felicità e l'appagamento nella vita "reale", con persone e valori cosiddetti "concreti" (nel senso di non di cartapesta, non creati dall'immaginazione, non eterei).
Non mi sorprende affatto che tale tesi venga sostenuta da una donna (l'animale pragmatico per eccellenza) e ciò verrà chiaro in seguito.
Ora mi preme soltanto, quanto alla prima premessa (quella della possibile esistenza della felicità nel reale) invitare il lettore a riflettere su cosa sia la felicità in quanto di più concreto esista: il proprio corpo.
Sicuramente non vi può essere felicità "corporea" se non vi è la salute. Ma le cose non sono, per noi, se non in quanto le percepiamo (ciò è stato merito di Kant averlo dimostrato, e di Schopenhauer averlo definitivamente affermato superando la vecchia contrapposizione realismo/idealismo, sebbene l'ingenuo realismo delle persone estranee alla filosofia impedisca di ritenerlo un fatto assodato: ma si sà, come disse il Maestro di Danzica, "queste persone stanno ai sapienti come i primitivi stanno ai civilizzati: sono prigioniere dell'apparenza ingannevole dell'infanzia") e quindi dobbiamo chiederci: come è percepita da noi la salute, come sentiamo di star bene, in "positivo" o in "negativo"?
E' evidente che, mentre quando un male ci affligge ci rendiamo benissimo conto che la salute non c'è, tanto da far fatica a sopportare spesso il dolore e da dover ricorrere a tranquillanti od oppiacei, quando godiamo di buona salute spesso ce ne dimentichiamo, fino a considerarla una cosa scontata (a meno che non usciamo da una malattia o ce ne è stata prevista una futura). Quando un dolore ci attanaglia, possiamo urlare e dire dove e perché soffriamo, mentre quando stiamo bene non sappiamo dire "dove" godiamo o perché appunto "stiamo bene". La risposta pende dunque decisamente dalla parte della percezione "in negativo", ossia non come presenza di "bene", ma come assenza di mali.
Questo convincimento può essere rafforzato dal notare come, anche in ambito religioso, raramente persino i più ferventi devoti si ricordino di ringraziare ogni mattina le loro divinità per il fatto di stare bene (e se lo fanno, lo fanno per abitudine, perché glie lo hanno insegnato, per timore di una punizione divina, e non già per "sentimento" vivo e presente), mentre anche le persone più tiepide verso la religione si infervorano di preghiere e di spirito ascetico quando hanno da chiedere la guarigione da una malattia.
"La salute non è tutto ma senza la salute tutto è niente", scriveva Schopenhauer. E allora, andando oltre la salute, in cosa si può identificare la felicità, a livello banalmente sensitivo? Sicuramente (escludiamo i masochisti) con il piacere, o, diciamo, con la piacevolezza dei sensi. Ma esiste ciò, in positivo? Ossia, esiste un momento della nostra vita in cui possiamo dire: "godo in questo e per questo"? Sicuramente non allo stesso modo, con la stessa certezza e con la stessa immediatezza con cui ognuno di noi può dire "soffro in quel punto e per quel motivo". Ricercando il benessere fisico i contemporanei sono soliti entrare in appositi centri, ove fra massaggi, saune, riposo si cerca di eliminare lo stress, di rilassare i muscoli e i nervi, di abbandonare la tensione. Ovvero: si cercano di eliminare le cause dei dolori o dei piccoli disturbi, ma non si creano "piaceri" in positivo. Eppure si chiamano "centro di benessere". Si deduce dunque che il benessere consiste in un'assenza di malessere. Provate a rilassarvi come in quei centri, e ad immaginare di raggiungere appunto il benessere? Sentite qualcosa? Sentite che non avete totale benessere se vi prude il naso, se vi disturba un insetto, se vi tira un nervo, se vi turba un rumore, se vi duole un dito, ma non avrete mai contezza di "star bene", se non, appunto, quando qualcosa turba il vostro benessere.
Ne consegue che la natura del piacere è negativa, mentre quella del dolore positiva.
I più gaudenti fra i lettori opporranno a questo punto l'esistenza di piaceri "positivi", come quelli dati da droghe artificiali o naturali, come le scariche ormonali. Non avendo mai avuto esperienze "stupefacenti" (che sarebbero comunque prodotto dell'uomo e, dunque, non certo piaceri esistenti in natura), mi limito a rispondere sull'orgasmo. Esso ha la potenza dell'acqua che dagli abissi del mare trae impeto per frangersi sulla scogliera e sulla spiaggia, e totalmente investe l'essere dell'uomo. Cionondimento esso non smentisce la natura negativa del piacere come l'onda che talvolta avvolge la riva sassosa non smentisce appunto la natura fredda e petrosa della scogliera e della terra su cui l'uomo si trova. Si tratta di un'essenza fuggevole e impalpabile, rapida e fluente, che esiste non nel modo dell'essere, ma in quello del divenire. L'orgasmo è appunto soltanto un'onda che passa, e può esistere solo in relazione al momento che la precede (il sorgere progressivo dell'ondata) e a quello che la segue (il frangersi spumeggiante sulla riva e quindi lo svanire) e non "in sé". La natura negativa del piacere resta dunque confermata. La forza del desiderio che lo precede e la soavità dell'abbandono che lo segue sono i soli suoi modi di esistenza reale, mentre "il piacere" è appunto illusorio e fulmineo. Si può paragonare quello che si ritiene il massimo fra i piaceri sensitivi ad una tempesta "rovesciata", in cui il tuono preceda il fulmine.
La natura inculca infatti nel petto dell'uomo una brama infinita di cogliere l'ebbrezza ed il piacere dei sensi da quante più donne possibili, e ne fa nascere il desiderio immediatamente e al primo sguardo, con l'immediatezza del fulmine e l'intensità del tuono, ma con la soavità di plenilunio di giugno dopo la pioggia, non appena la bellezza si fa sensibile a lui nelle fattezze del corpo muliebre, nella claritate del viso, nelle forme dei seni rotonde, nelle membra scolpite, nella figura slanciata, nelle chiome fluenti e nell'altre grazie ch'è bello tacere.
Parimenti inscrive nell'istinto della donna la dote di farsi sommamente desiderare e seguire in ogni dove, (come una fiera nei boschi) dal maggior numero possibile di maschi, in modo da ampliare al massimo la rosa di coloro che sono disposti a competere per lei e dai quali selezionare chi mostra eccellenza nelle caratteristiche volute per la riproduzione e il bene della discendenza (o, razionalizzato nelle società più evoluto, quelle doti materiali o intellettuali che rendono un uomo gradito o utile alla femmina, o conferiscono prestigio sociale).
Tutto ciò risponde ai fini della natura, non a quelli dell'uomo (ed è infatti motivi di infinite infelicità individuali, da quelle dei giovani uomini intimamente feriti dalle "stronze" a quelle delle donne tradite): il desiderio maschile serve garantire la massima propagazione dell'istinto vitale, quello femminile a garantire la selezione dell'eccellenza.
Questo è l'amore naturale "l'inganno che la natura ha dato agli uomini per propagarne la specie".
Tutto il resto, nell'amore, è solo costruzione dell'uomo, della sua ragione, della sua arte, della sua parola, e, più profondamente, del suo inconscio. Quello in cui ogni uomo (ed ogni donna) identifica l'amore non è però questa “voluptas cinetica” naturale, ma proprio l'aurea di illusione onirica di cui è ammantato e nella quale si vaneggia la felicità.
Non è dunque mai in ciò che è attualmente che risiedono felicità e piacere, ma in quanto si aspetta o in quanto è passato.
Lo stesso avviene, sempre a livello, materiale, con le cose possedute. Nemmeno l'uomo più abbiente esulterà di gioia senza alcun altro motivo che il constatare la propria ricchezza, mentre anche il più umile dei poveri sarà incontenibilmente felice per un incremento dei propri miseri averi. Siamo propensi a conferire tanta
importanza a quello che non abbiamo, che speriamo di raggiungere o che abbiamo perduto, e poca o nulla a quello che possediamo stabilmente.
Anche con le persone e gli affetti si verifica l'identica cosa: piangiamo quando le perdiamo, ma non saltiamo di gioia con la stessa intensità nei giorni in cui ci allietano la vita con la loro presenza. Sovente, nella quotidianità presente, non ci rendiamo conto di quanto una persona o un affetto siano importanti o addirittura fondamentali per noi, se non quando un'eccezione minaccia di toglierceli. Quando poi li perdiamo del tutto, allora, nel ricordo ("dolce per sé) la felicità dei momenti in cui quell'affetto e quella persona erano presenti si mostra a noi ammantata d'ogni splendore, purificata d'ogni affanno ed abbellita d'ogni vaghezza, sì da immaginare noi stessi come vissuti in una nostra "età dell'oro", ove "scorrevano fiumi di latte e miele".
Simmetricamente a quanto è per il passato, è la felicità postulata nel futuro. Tutto quanto desideriamo, tutti i "pensieri soavi", le "speranze", i "cori", cui volgiamo lo sguardo del nostro animo più profondo e del nostro disìo più vero, le donne, gli ideali, i beni, tutto quanto costituisce l'essenza della nostra "amanza", del nostro più intimo e nascosto volere, si ammanta di un alone di luce diffusa, come quella della luna mirata dal basso dal fanciullo in ingenua preghiera (che vi vede l'effigie dell'amata), di un alone di idealità armoniosa e beata destinata a svanire inesorabilmente a contatto con le terrestri cure.
L'ideale, in quanto tale, non potrà mai essere raggiunto da nulla di reale.
Questo indica che la felicità non ha come dominio di esistenza proprio il presente, bensì o il passato (nel vago del ricordo), o il futuro (nel vago della speranza). Mai ha la caratteristica di una "definitezza" nella presenza, hic et nunc.
Tale caratteristica di indefinitezza distingue chiaramente la felicità dal suo opposto: quando i morsi del dolore, sia a livello sensitivo, sia a livello intellettivo, ci attanagliano, quando siamo oppressi dalla frustrazione, dall'angoscia, dall'umilizione, dal dolore della perdita, dal dispiacere, dal timore di un male, dall'ira o dall'impedimento, sappiamo perfettamente dove e perché soffriamo, e proprio per questo desidereremmo una divinità cui dire "liberami da questo male concedendo questo e facendo quest'altro", sicuri che con ciò passerebbe il dolore e sarebbe cancellata la causa del nostro soffrire fisico o mentale. Quando invece non siamo da alcun male direttamente colpiti, né nella mente né nel fisico, e vorremmo nondimeno raggiungere la nostra felicità (che è il fine sentito da ogni uomo), anche se trovassimo la lampada di Aladino e potessimo al suo genio esprimere i nostri desideri, non sapremmo esattamente cosa dire per ottenere veramente quello che bramiamo sommamente, e anche se credessimo di saperlo, non saremmo mai sicuri che quanto richiesto ci darebbe la vera felicità.
La natura suscita negli uomini una miriade di desideri, per indurli a seguire le vie da essa stabilite ed illudendoli che potranno in essi trovare la loro felicità, ma il destino di ogni oggetto di desiderio è o quello di retare perennemente irraggiungibile, per l'infinita lontananza o altezza della meta, o di deludere chi, con fatiche indicibili, lo ha raggiunto.
Dato che l'uomo obbedisce, per natura alle sue tali leggi, è condannato all'infelicità dal proprio grado di consapevolezza
L'uomo non ha come fine l'utilità riproduttiva, ma la ricerca della vita felice.
"Il maggior grado di coscienza fra tutti gli esseri viventi fa sì che ami se stesso più della propria vita, ossia si ami "supremamente" (come nel dialogo di Farfarello) Per questo ricercherà sopra ogni cosa non tanto la vita, la sua conservazione e la sua propagazione, come gli altri animali, bensì la vita felice (e quando la possibilità di essa, o l'illusione di essa, sarà svanità, preferirà, unico fra tutti gli esseri viventi, la morte alla vita priva di felicità).
La ricerca sarà però sempre mossa dal desiderio, da quello stesso desiderio di cui la natura in diverse forme modi e intensità fornisce gli individui affinché perseguano i suoi fini, illusi come da una chimera."
La prima fra tutte le chimere è il desiderio dell'amore sessuale, su cui farò un excursus.
IL DESIDERIO
Il naturale disio dell’uomo per il corpo della donna, che tante donne reali e tante scene da film in molti modi sembrano voler denigrare, o comunque considerare basso e indegno di essere vissuto è, al contrario, quanto di più nobile e profondo la natura abbia donato alle umane genti.
Esso è connaturato a quella volontà di propagare la vita specie per specie cantata da Lucretius nel De rerum natura (“Aeneadum genitrix hominum divumque voluptas, Alma Venus caeli subter labentia signa, quae mare navigerum, quae terre frugiferentis”) e con la sua forza è capace di rendere artefice l'uomo mortale.
La ricerca della bellezza muliebre da parte dell'uomo è da sempre il motore della Vera arte. Al mondo non v’è motivo più forte che alle egregie cose. Considerare la donna come espressione di divina bellezza, meta di speculazione filosofica e oggetto di desiderio tanto nel mondo intellettivo quanto in quello sensitivo si è sempre configurato nei secoli come il motivo più forte capace infondere negli animi degl’uomini gentili quel sentimento da cui germoglia la vita dell’arte.
Come sostiene nel Piacere Andrea Sperelli “Ad altro non aspira il lauro se non a propiziare il mirto”. La Donna è l’oggetto e l’essenza prima d’ogni Vera Poesia. Nel suo sorriso perennemente rivive più di una speranza, più di una promessa, più di un piacere, più di un sogno: rivive il mito della felicità edenica, dell’innocenza primigenia, il mito dell’età dell’oro, una beltà più che terrena, “quell’aurea beltà ond’ebber ristoro unico a’ mali/ le nate a vaneggiar menti mortali”. In virtù di questo chi ricerca la bellezza nella dama non può essere criticato mai.
Che c'è di sbagliato nel rendere palese che si stanno ammirandole fattezze di una bella donna, con quello stesso sguardo con cui il giovane Dante seguiva Beatrice mentre [i]“Ella sì va, sentendosi laudare,/ benignamente d'umiltà vestuta,/ e par che sia una cosa venuta/ da cielo in terra a miracol mostrare”[/i], con quello stesso trasporto che fece dire a Guido [i]"Chi è questa che vèn, ch'ogn'om la mira,/ che fa tremar di chiaritate l'are/ e mena seco Amor, sì che parlare/ null'omo pote ma ciascun sospira"[/i], con quello stesso stupore che fu di Giulo quando, secondo quel capolavoro di armonia soave e di grazia tutta quattrocentesca costituito dalle “Stanze per la giostra” del Poliziano, si trova all'improvviso innanzi la bella Simonetta ([i]“né so già io qual sia tanto mio merto,/ qual dal cel grazia, qual sì amica stella/, ch'io degno sia veder cosa sì bella“[/i])?
Che c'è di male infatti se Ella legge negli occhi il desiderio, lo stesso desiderio che portò Ovidio, Catullo e Properzio a comporre esametri immortali, lo stesso desiderio che spinse alle gesta epiche i paladini dell'Orlando Furioso, eternati nella perfezione dell'ottava ariostesca, lo stesso desiderio che riempì di languore le Rime del Tasso [i]“Tacciono i boschi e i fiumi,/ e 'l mar senza onda giace,/ ne le speloche i venti han tregua e pace, / e ne la notte bruna / alto silenzio fa la bianca luna: / e noi tegnamo ascose / le dolcezze amorose: / amor non parli o spiri, / sien muti i baci e muti i miei sospiri.”[/i]?
Si osa dunque oggi chiamare deviato o maniaco chi fa palpitare in sé lo stesso desiderio dei creatori delle opere immortali? O tempora, o mores, o deos!
Tutto quello che di bello e di sublime esiste al mondo, quei sogni soavi, quell’ incantate parvenze, quelle gioie dell'anima che condensate in immagini il volgo chiama poesia, quelle felicità pure e intellettuali che suscitano l'ebbrezza inesausta dei sensi e delle idee, tutto ciò che, ultimativamente, si staglia dai gesti banali della quotidianità per elevarsi all'eterno, all'azione eroica e superba, alla sfera dell'ideale, del perfetto e dell'imperituro è stato plasmato dalla mente di uomini illustri ispirati da splendide donne, la cui visione eternamente emana divina bellezza e Meraviglia.
Ad altro non pensò Guinizelli quando, effondendo il “dolce Stilnovo ch’io odo”, incipiò la vera poesia italica; ad altro non sospirò Petrarca quando forgiò i sonetti dallo stile puro e rarefatto senza eguali nel mondo, che improntarono la tradizione italiana al culto della forma ideale e ai canoni d’armonia, equilibrio e compostezza; ad altro non guardò Boccaccio quando, narrando le storie che restituirono l’Italia alla religione delle lettere e della bellezza, riprese dalla Classicità l’eleganza di una prosa ampia e armoniosa, paragonabile soltanto all’Eloquio Latino.
L'arte vera, quella segnata dal "grande stile", quella che, come dice Nietzsche, sa compiere il "miracoloso atto metafisico" di conciliare l'inconciliabile, ossia il mondo dell'Apollineo con quello del Dionisiaco, non può non sorgere da un profondissimo desiderio di natura, non può non sgorgare da un abisso primordiale della vita cupida di sé; quando ciò non avviene ed essa perde i suoi legami con il substrato insondabile e tragico dell'esistenza, diviene troppo celebrale e da arte degenera in artificio, come in effetti è accaduto in taluni periodi storici.
Se la Donna è come un verso, non può e non deve essere apprezzata dalla Ragione, ma deve essere amata dall’anima nell’istante in cui si fa visibile, allora l’uomo è come la prosa ampia, elegante ed armoniosa del Boccaccio: ha bisogno di tempo e di spazio per esplicare tutto il suo fascino e deve soprattutto comunicare un senso.
Una donna potrà apprezzare un uomo dopo averlo conosciuto nel fondo dell’animo, così come si apprezza un romanziere, il suo pensiero e il suo stile, dopo aver letto le sue opere, ma per un Uomo non esiste fiamma d’amore vero che non scaturisca dalla vista, il più nobile dei sensi, come sosteneva Cavalcanti. Dall’ammirazione per la Bellezza l’uomo dotato di intelletto si eleva alla contemplazione di quel mondo Ideale dello spirito a cui ha anelato a lungo nelle sue speculazioni filosofiche o nelle sue estasi artistiche. La Donna, sacerdotessa di Citera sulla Terra, proprio come un verso perfetto, deve rispettare, nel corpo e nello spirito, nel vestire e nel guardare, nel comportamento e nelle movenze i canoni classici di armonia, di compostezza e di equilibrio, raffigurando al contempo l’elegante slancio della bellezza terrena verso quella divina con la grazia dello stelo di un giglio proteso verso la luce.
L'uomo desidera l'irraggiungibile e lo idealizza (e questo la donna intelligente sa, quella cinica sfrutta).
Diceva il Leopardi che l'inesperto amante rimira nel volto della luna l'effigie della donna che dentro di sé desidera.
Per questo molti di noi, ad esempio, amano, sopra ogni, cosa un'accompagnatrice alta e statuaria (anche se magari lo negano, lo nascondono e ne cercano di diverse nella realtà, per sentirsi tranquilli), come le modelle della televisione, non già per "nequitia", ma per avere il piacere di poterla contemplare "suspiciens", come direbbero i Latini (letteralmente "guardando dal basso verso l'alto"), proprio come si fa per la notturna lampa, provando quell'anelito alla bellezza, quello slancio purussimo verso l'idealità, quel senso di sospensione fra cielo e terra, quell'abbandono soave al desiderio, propri del giovincello che, nel silenzio della sera, tra sogno e realtà, rimiri nella luna la fanciulla amata.
Proprio il non poterle tangere, il doverle ammirare in una lontana dimensione d’incanto e di sogno avvolge quelle gioie e quelle speranze tipiche dell'animo fanciullesco con un alone di luce diffusa, con un’aurea di idealità armoniosa e beata destinata inesorabilmente a svanire a contatto con le terrestri cure.
Ogni sogno soave, ogni speranza ardente, ogni agire appassionato, volto ad un fino nobile ed eroico è destinato a cessare con il raggiungimento stesso di quella meta terrena attorno alla quale le fole del desiderio avevano figurato un'aurea di idealità armoniosa e beata. Quell'alone di luce diffusa come di sogno, che ha reso tanto veemente la nostra brama verso il fine si scioglie "come al sol neve", lasciando i risultato ottenuto spoglio di ogni valore ideale.
Tutto ciò che desideriamo di ottenere, "che pensieri soavi, che speranze, che cori" e che identifichiamo in cose della vita è destinato a svanire a contatto con le terrestri cure, a simiglianza delle bellezze del castello di Atlante narrato dall'Ariosto.
Anche chi non è seduttore, ma ha in sé, per natura, qualcosa dell'infinito, vive ardendo della stessa fiamma di Don Giovanni. Il desiderio che spinge l'uomo verso le cose amate, i pensieri e le azioni nobili, la sua brama per la bellezza, la perfezione dell'arte, l'assoluto della melodia, il suo tentativo di raggiungere la felicità, il piacere, l'appagamento, la sua speranza di vita serena, gioiosa, amorosa, il suo stesso voler vivere e godere pienamente della vita e dei suoi frutti sono tutte aspirazioni infinite, destinate a scontrarsi con la finitezza del mondo.
La meta, in quanto tale, si ammanta sempre, per gli uomini di spirito, di un alone di luce diffusa, di un'aurea di idealità armoniosa e beata che la rende sì vaga e sublime da non poter essere raggiunta da nulla di reale e quindi da nulla di ciò che esiste nel mondo. Per quanto bella e vaga l'amanza reale non sarà mai degna di quella ideale e deluderà sempre il desiderio.
Le aspirazioni, nate dalla ricerca di qualcosa di pienamente irraggiungibile nella realtà (fatta di cose imperfette, sofferenze, delusioni, accidenti, fatiche), sono mantenute in vita proprio dal mancato raggiungimento degli obiettivi e continuamente rinnovate dalla speranza "che delude sempre", oppure, quando vengono soddisfatte, disvelano una meta finita, una gioia troppo limitata rispetto all'intensità del desiderio, delle fatiche compiute e delle speranze "infinite".
Tutto ciò, diffuso ai vari casi della vita interiore dell'uomo, ha in sé lo stesso distacco, presente nell'amore terreno, fra l'ideale del sogno di bellezza e la realtà del piacere sensuale, fra l'infinito del desiderio e la finitezza del suo appagamento carnale, che spinge il seduttore a rinnovare il sogno e il disìo verso nuove mete.
E' il distacco fra finito e infinito. Questa è la tragicità dell'uomo. E' la sua debolezza (carnale e spirituale), ma anche la sua forza, se un minimo di valore si attribuisce all'arte eternatrice.
Spesso, per questo, la debolezza carnale si traduce in una sentimentale, diffusa ai rapporti personali o alla vita intera. Altrettanto spesso la debolezza sentimentale nasce spontanemente da un modo immateriale di concepire la realtà, appunto idealmente (come ho tentato di spiegare), senza quei legami con la natura e la concezione mondana propri della donna.
Ne segue che la natura del piacere è negativa e chimerica, mentre quella del dolore nascosto in esso e delle fatiche per raggiungerlo sono REALI.
Ne segue parimenti che la natura del piacere è chimerica e irraggiungibile (la felicità non risiede mai nel presente, ma sempre in un'aspettativa del futuro o nella rimembranza di un vago passato, e non ci si scopre mai propriamente felici se non sperando o ricordando: non si sente l'immediatezza positiva del bene, ma la si percepisce solo nella perdita, mentre non si è mai certi della causa della propria felicità proprio perché essa è solo creduta possibile e mai posseduta davvero), mentre quella del doloro è reale e certa (quando si soffre si conosce benissimo la causa del male e se ne sente l'immediatezza)
Il sommo bene è dunque non nascere (per non soffrire, dato che il saggio si cura più di evitare il doloro che non di conseguire il piacere, e non accetterà mai una sofferenza reale in cambio di una felicità chimerica) e l'unico rimedio all'esser nati l'avere una vita breve e il più possibile lontana dal dolore. L'unica eccezione è una vita intellettuale idealmente giustificata, la quale deve essere lunga abbastanza da permettere il sostegno materiale alla persona la cui mente deve creare i capolavori immortali, a partire dalla cultura, dall'esperienza e dal genio (e ha dunque bisogno di tempo e modi). Una volta che le opere sono state prodotte per soddisfare lo spirito avremo ottenuto il nostro scopo, ossia, se non una vita felice (che è una contraddizione in termini), una vita "sopportabile", ad onta del fatto che come dimostrato la natura è crudele.
La realtà è costituita dalle leggi meccanicistiche della natura, volte a preservare ed accrescere la vita e la specie senza altro scopo, senza alcuna cura dei sentimenti umani, dell'interesse dei singoli e di quanto l'uomo percepirebbe come felicità, rimembranza, pietà.
Proprio perché la natura è retta da leggi meccanicistiche aliene da qualsiasi forma di volontà umana, è insensibile alle sofferenze ed alle esigenze degli individui, i quali, si trovano a vivere in un mondo lontano dai concetti loro propri di felicità e di pietà. Per questo è crudele. Per questo è matrigna e non madre: dà la vita ma non sicura che sia felice o che abbia un senso.
Non è rilevante che la natura abbia un disegno o meno, che sia "consapevole" (non lo può certo essere in senso antropomorfo) o meno.
Essa, per la sua crudeltà e la sua insensibilità alla sofferenza dei singoli è all'uomo non madre, ma matrigna. La natura è crudele perché "nasce l'uomo a fatica ed è rischio di morte il nascimento", dà la vita ma non ne dà il senso vero, dà l'esistenza mondana, con le sue gioie transeunti e le sue banalità quotidiane ma non dà le cose "necessarie universali perpetue", dà le idee e i pensieri ma non dà nel mondo che crudeltà e spietatezza (perché la natura, oltre che bella e grande, è terribile e crudela, aliena da ogni slancio emotivo di pietà umana e da ogni profondo moto di umanissima compassione), dà il cibo e il riparo ma non dà le vere sicurezze e la vera soddisfazione, e le stesse creature belle e vitali oggi saranno deperite e mortifere domani e gli stessi casi che oggi ci hanno consentito di sopravvivere o di gioire domani potranno portarci a perire o a patire.
La stessa rosa che sbocci oggi domani appassirà, ma anche la stessa bellezza naturale è sovente apportatrice e nasconditrice di morte, crudeltà e sofferenza, perché "a me la vita è male". La natura è ciclica e spietata cancellazione della vita individuale quando l'uomo è pietà e rimembranza e desiderio di continuare a vivere ed eternarsi. La natura è prosecuzione della vita nel continuo alternarsi di creazione e distruzione di individui, di piacere e sofferenza, quando l'uomo amerebbe la prosecuzione di sé, la custodia dei propri valori, e il tramandarsi della propria individualità. La natura dà il piacere ma mai discolto dalla sofferenza e dalla privazione e dalla paura del dolore ("piacer figlio d'affanno, gioia vana ch'è frutto del passato timore"), dà l'infinito dal desiderio ma non ne dà mai una completa ed esaustiva soddisfazione, dato che ogni appagamento terreno è finito (nel tempo, nello spazio, nell'intensità e nella profondità sull'essere), dà la bellezza ma non dà l'immortalità, dà la giovinezza e gli altri doni ma non il calice per non lasciarla scorrere via come da un vaso senza fondo, dà il divenire ma non dà l'essere.
Secondo quanto ben illustrato dal dialogo “Della Natura e di un Islandese”, essa ben poco si cura della felicità o dell'infelicità dei singoli individui che fa nascere e induce (tramite gli istinti e le inclinazioni dell'animo) a vivere in un determinato modo da essa sola stabilito e solo ad essa utile e comprensibile
[“Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l'intenzione a tutt'altro, che alla felicità degli uomini o all'infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n'avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvederei”].
La personificazione antropomorfa è solo un fatto letterario ed esplicativo. Il motivo filosofico non cambia se alla figura di donna sostituiamo di peso il "corpus" delle leggi matematiche di cui parli (dato che la causa finale di esse resta in ogni caso estranea all'uomo, esattamente come i piani del personaggio del Leopardi). E' indifferente che vi sia o meno un progetto o un fine (consapevole o meno) della natura, dato che in ogni caso non lo possiamo né conoscere né mutare: ne scontiamo solo gli effetti reali con la nostra infelicità e con le sofferenze necessariamente collegate alla vita e al desiderio.
La natura propaga la vita a prezzo della distruzione individuale, nel ciclo immutabile di nascita e morte (mutano le speci, ma non muta questa legge), e nel susseguirsi di deperimenti, sbranamenti e crudeltà, in cui, come disse l'Irlandese del Dialogo Leopardiano "chi sbrana non gode e chi è sbranato soffre" e un fine o un senso a tutto ciò non è dato sentire all'uomo.
In natura l'individuo non ha nemmeno diritto all'identità (infatti non ha nome). Ciò che è caro ad essa è solo muoverlo attraverso i desideri profondi, gli istinti vitali e le pulsioni appunto naturali a compiere l'interesse non proprio ma della specie. Poiché l'interesse dell'individuo, che sarebbe la felicità, non è contemplato dalla natura come esistente, esso può esistere soltanto in una realtà diversa da quella naturale, anche se ne ha la stessa parvenza: il sogno. Solo in esso la fonte del desiderio, la meta delle pulsioni, la figura verso cui si muove l'istinto dell'uomo, e senza la quale l'infelicità, innanzitutto nell'inappagamento fisico e psicologico e secondariamente nell'idea stessa di perdere l'unica possibile "promessa arcana di felicità", è reale, pungente e presente, può divenire finalmente qualcosa di esistente "in positivo" e non già "come mancanza del suo opposto".
Se ciò risponde, smentendolo, al primo presupposto (la possibilità di felicità nel reale), pone immediatamente un interrogativo sul secondo: esiste una sostanziale differenza fra realtà e sogno?
Poiché è bene studiare le cose ingrandendole, prima di considerarle per come sono, prima ancora di rispondere a questa domanda tratterò del nesso fra il ricordo condiviso ed il sogno collettivo: il mito
IL MITO
La vita umana è indissolubilmente legata alla sofferenza, in quanto non potrà mai scampare dal ciclo di nascita e morte voluto dalla natura che impone la distruzione individuale (e la conseguente indicibile sofferenza dell'individuo, in anima e corpo) come condizione per il proseguimento della vita, contro l'innato desiderio della mente umana di conservare l'individualità.
Per sfuggire a questo l'uomo ha creato il mito, ossia un personaggio capace di passare da un’opera all’altra, da un universo letterario o virtuale ad un altro, compiendo nuove imprese e magari fornendo prospettive diverse sulla propria psicologia, sul proprio profondo sentire, sulle proprie intime motivazioni , ma rimanendo comunque se stesso. In questo egli non è più appunto un semplice personaggio, frutto della fantasia di ogni singolo autore, e legato ad esso così come la nostra esistenza, la nostra anima ed il nostro ricordo sono legati ai casi ed agli accidenti della singola vita individuale, bensì mito, ossia esempio di coloro i quali vivono nell’eternità e sono soltanto resi sensibili, soltanto descritti (e non creati), soltanto cantati, nelle loro gesta e nelle loro caratteristiche, dalla poesia dei vari autori che li traspongono in versi, immagini e suoni.
Fra i miti, che nella loro variegata policromia coprono l'intero spettro delle cose umana (sì che ognuno può riconoscersi almeno in uno di essi), risplende fra tutti quello di colei che nuda sorse dall'onde sulla bianca conchiglia ed ebbe nome di Afrodite in Grecia. Di lei ogni amata è sacerdotessa e in lei ogni donna la cui bellezza è oggetto del desire di un poeta può conseguire l'immortalità.
E' un'immortalita profondamente diversa dall'avere figli, che sarebbe solo, come si dice, continuazione. Nella riproduzione, come in tutte le cose umane, la bellezza può perpetuarsi solo a prezzo della distruzione individuale nel ciclo di nascita e morte. Ci saranno sempre, nei secoli, donne belle, ma la singola donna bella è destinata a sfiorire, a perire e ad essere obliata, così come tutti gli altri esseri umani a lei coevi. Parafrasando Orazio, che diceva "la stessa rosa che sboccia oggi domani appassirà", possiamo dire "la stessa donna che è bella oggi domani sfiorirà". Tornerà cenere, se vogliamo usare un gergo cristiano. Ma, dice il Foscolo, "meste le grazie mirino chi la beltà fugace ti membra e il giorno dell'eterna pace", poichè la parola dell'uomo, come ho scritto, eleva la bella donna "a una condizione ideale e imperitura nella quale, a similitudine delle cose divine, la medesima bellezza, intatta ed immobile, si perpetua uguale a se stessa, cosicché, al sicuro dalla furia degli anni e dall'impeto dei secoli, possa essere adorata dai posteri nella chiusa perfezione dell'opera d'arte". I posteri, leggendo i carmi a lei dedicati, faranno sì che la sua immagine, (proprio quella di lei, non quella di altre donne) non conoscerà mai il declino della vecchiaia ed il freddo della morte, ma, sempre rigogliosa e sempre desiderata, riceverà in eterno gli elogi, la calda ammirazione e i pensieri amorosi di ogni generazione. Chiunque, fra i vivi, amerà attraverso la bellezza, farà rivivere in sè lo stesso desiderio che ispirò il poeta e non potrà che accostare all'immagine della propria amata quella della fanciulla eternata nei carmi e divenuta ormai dea.
La natura suscita negli uomini una miriade di desideri, per indurli a seguire le vie da essa stabilite ed illudendoli che potranno in essi trovare la loro felicità, ma il destino di ogni oggetto di desiderio è o quello di retare perennemente irraggiungibile, per l'infinita lontananza o altezza della meta, o di deludere chi, con fatiche indicibili, lo ha raggiunto.
Ogni sogno soave, ogni speranza ardente, ogni agire appassionato, volto ad un fino nobile ed eroico è destinato a cessare con il raggiungimento stesso di quella meta terrena attorno alla quale le fole del desiderio avevano figurato un'aurea di idealità armoniosa e beata. Quell'alone di luce diffusa come di sogno, che ha reso tanto veemente la nostra brama verso il fine si scioglie "come al sol neve", lasciando i risultato ottenuto spoglio di ogni valore ideale.
Tutto ciò che desideriamo di ottenere, "che pensieri soavi, che speranze, che cori" e che siamo per natura portati ad identificare nelle cose della vita è destinato a svanire a contatto con le terrestri cure, per cui la nostra intima sensazione è quella di chi vede le cose veramente desiderate scomparire non appena le tocchi con mano, a simiglianza delle bellezze del castello di Atlante narrato dall'Ariosto.
Sfugge a questa legge soltanto la bellezza di una donna cantata dai poeti.
Solo così, essendo la meta ideale per i moti dello spirito di un uomo d’intelletto, la donna può aspirare ad elevare la propria bellezza al di là delle parvenze terrene, a una sfera ideale e assoluta, mitica ed eroica, propria di chi mangia il pane degli dèi immortali, che né l’oblio dei secoli, né le bassezze degli uomini potranno distruggere, e che solo l’arte sa costruire. Allora sì la Donna risplende di quell’alone di luce diffusa che s’irradia dalla sfera lirica e purissima della Poesia, alla quale la mente dell’Uomo tende attraverso un continuo confronto con la Comunità dei Dotti di ogni epoca, un assiduo labor limae nella figurazione della forma, una costante ricerca della Parola Ideale tratta dalle immortali opere de’ Gentili e degli Italiani.
Persino Diana, Bellona e Citera erano soltanto donne mortali, prima di divenire dee per il canto de’ poeti se si accetta il mito rivelato dal Foscolo nell’ode “All’amica Risanata”.
Grazie al culto che l’Uomo d’intelletto le porge, Ella è più di una forma sensibile, più di un semplice ideale, ella è la raffigurazione di quella dimensione assoluta e perfetta alla quale lo spirito anela attraverso il culto della Forma e della Bellezza, l’effigie di quell’aurea di idealità armoniosa e beata cui l’anima aspira grazie all’amore per l’arte, la Classicità, le Belle Lettere; ella è la figura e il simbolo, come Beatrice, della beatitudine dell’anima fatta sensibile, l’interpretazione del suo “Sogno Estetico”.
Così, al sicuro dalla furia degli anni, immutabili nel loro perpetuo splendore, molte Donne sono state immortalmente amate.
Beauty is Truth and Truth is Beauty
Si tratta, con quello precedente dell'immortalità, di un tema caro anche al poeta inglese John Keats, il quale, nella celebre "Ode su un'Urna Greca", fa notare come il fanciullo così prossimo a dischiudere il bacio alla sua bella, ritratto nell'urna, sia più fortunato di ogni mortale, poichè sarà sempre giovane, custodirà intatto il desiderio, fermato proprio nel punto culminante più prossimo all'appagamento (e dunque, inevitabilmente, nel mondo reale, all'affievolimento) e, fra musiche dolci come nessuna cosa mai udita (l'urna, ovviamente non riproduce suoni e "heard melodies are sweet, but unheard are sweeter") vivrà in eterno il proprio amore: "tu l'amerai per sempre, per sempre così bella".
La natura concede agli umani, in ispecie alle donne, i migliori doni degli dèi, ossia giovinezza e bellezza, ma, come crudele contrappasso, non dà loro che di goderne per un breve tratto dell'esistenza. Per contrastare ciò gli uomini inventarono la parola, il verso melodico, il canto incantatore ed eternante e le immagini ed i suoni della poesia, per elevare la bella donna, dalla sfera terrena, soggetta alla corruzione del tempo e della morte, a una condizione ideale e imperitura nella quale, a similitudine delle cose divine, la medesima bellezza, intatta ed immobile, si perpetuasse uguale a se stessa, cosicché, al sicuro dalla furia degli anni e dall'impeto dei secoli, potesse essere adorata dai posteri nella chiusa perfezione dell'opera d'arte. Così le donne amate dai poeti, come le fanciulle ritratte sulle urne greche, cristallizzate nel ricordo e intatte nella bellezza, si salvarono dall'oblio della storia per elevarsi a quella sede beata di sogni e illusioni in cui albergano serene le dive d'olimpo.
La natura dà agli uomini i desideri per far loro compiere la sua volontà (per il bene della specie e non per la loro felicità individuale), e gli uomini, con la forza del proprio intelletto e della propria volontà elevano quelli che nelle belve sono puri istinti a una dimensione di armonia perfetta e quieta grandezza sublimandoli in speculazioni filosofiche o produzioni artistiche.
E’ naturale che primieramente l’uomo ricerchi ed ammiri in una donna le sue belle forme, l'armonia del corpo, la vaghezza del viso e l'altre grazie corporali,
Ad ogni modo, sin dal primo istante, si vede, nella donna, la femmina, il che non è dispregiativo
(almeno in un contesto in cui si parla di sessualità, non di lavoro, di studio, ecc.) e la si sceglie in base alla bellezza e i desideri profondi che sa suscitare (ma in questo caso profondo è sinonimo di istintuale, naturale, insito nelle carni, di ciò che è antico, e non di intellettuale ed elevato e frutto del pensiero). Con gli occhi dell’immaginazione e i sensi del corpo si desidera subito, con la stessa naturalità di una cascata irrompente nella calura dell’estate o di un’aurora sorgente sull’onde lucenti del mare, vivere momenti di ebbrezza e di piacere discinto da tutto e tutti (o, per chi non pone fiducia alla fugacità delle gioie terrene, di sublimare gli istinti e i desideri nella divina grandezza dell'arte, o comunque ad un livello intellettivo, in opere, suoni, immagini, nel quale possano dare piacere per più tempo di qualche minuto, e tramandare il ricordo ai posteri, ma questo è già il discorso successivo).
Un uomo che si senta un essere innanzitutto spirituale, fatto per vivere “in astratto”, in un universo di idee e di pensieri, alieno dalle cose e dalle gioie del mondo, è comunque destinato ad amare i doni degli dèi, la giovinezza e la bellezza, così come discendono nelle grazie terrene delle donne.
Da un lato Egli sa che l'oggetto del suo desiderio, ossia la bellezza carnale, pur divina e celestiale nella sua assoluta perfezione, è destinata a cedere su un punto rispetto alle bellezze celesti: come tutti i doni concessi agli uomini risulta essere soggetta alla corruzione del tempo ed alla morte. Giovinezza eterna ed immortalità spettano solo agli dei: a chi non si ciba d’ambrosia non è dato che di goderne per un istante.
Dall'altro lato Egli ha la consapevolezza della brevità e della finitezza (in tempo e in intensità) dell'appagamento terreno del desiderio stesso, il quale di per sé è invece infinito, e per questo è portato a ricercare nello spirito (privo di limiti e per questo in grado di accogliere e continuare l'infinito del desiderio) la sua salute e la sua immortalità, a trarre da esso le più vere consolazioni, l’intimo e inesauribile appagamento.
Si fa così creatore di immortalità attraverso la parola, capace di rendere infiniti i momenti di ebbrezza e di piacere, dei sensi e delle idee, di prolungare nella sfera nobile del pensiero la tensione e l'estasi carnali (altrimenti finite nel tempo, nello spazio e nella profondità), di eternare il desiderio per la bellezza, di elevarlo, nelle opere immortali, al livello dell'intelletto, nelle immagini e nei suoni della poesia, e di sublimarlo nella divina grandezza dell'arte, affinché non muoia mai, né si affievolisca.
Ciò è strettamente legato e nascente, nell'uomo, al desiderio, alla sua natura e alla sua sublimazione.
La natura dà agli umani il desiderio di propagare la vita, ma non li appaga, perché non fornisce un senso a tutto ciò e non rende possibile propagare parimenti l'individualità.
Crudele e vano è vivere senz'altro scopo. Per giustificare idealmente l'esistenza, gli uomini crearono persino gli dèi. "Il Greco conobbe e sentì i terrori e le atrocità dell'esistenza: per poter comunque vivere, egli dovette porre davanti a tutto ciò la splendida nascita sognata degli dei olimpici. L'enorme diffidenza verso le forze titaniche della natura [...] fu dai Greci ogni volta superata, o comunque nascosta e sottratta alla vista, mediante quel mondo artistico intermedio degli dei olimpici". Come scrive Diego Fusaro, "Proprio gli dei olimpici sono il mezzo con cui i greci sopportano l'esistenza, della quale hanno visto la caducità, la vicenda dolorosa di vita e morte, soffrendone in modo profondo a causa della loro esasperata sensibilità; gli dei olimpici giustificano la vita umana vivendola essi stessi, perchè la vivono in una luce senza ombre e fuori dall'angoscioso incombere della morte.
Crudelissimo è poi dover piegarsi alle leggi meccanicistiche della natura accettando di tornare al nulla da cui si è nati dopo aver tanto sofferto, pensato, creato, e soprattutto desiderato di lasciare una traccia di sé sulla terra.
Già gli Antichi (con l'istituto dell'adozione e, a livello più esteso, con il concetto di discepolo o, nel caso dei grandi artisti, di posterità pensante) avevano superato il mito del sangue comprendendo come la vita nel mondo dello spirito, al contrario di quella del corpo, sia capace di tramandarsi senza bisogno di discendenza sanguinea o del supporto della genetica, se si lasciano un’eredità d’affetti e un insegnamento ideale, e soprattutto senza distruggere l’identità dei singoli, se essa si mantiene, nelle opere prodotte dal loro genio e dal loro sentire, e nel ricordo dei posteri.
Poiché alla domanda "si può essere felici in questa realtà?" la filosofia avrebbre sempre dovuto dare una risposta negativa, l'uomo ha popolato la realtà stessa di fantasmi: il sogno, l'arte, la poesia, ma anche l'onore, la gloria, la religione, la Patria, l'Amore e tutto quanto gli rende la vita bella e degna di essere vissuta, piena di valore in sé, ed è in questo (in questo sogno protetto dal velo di Maya") che (almeno coloro che sono felici di vivere) tutti noi viviamo VERAMENTE, non già sulla terra, assieme agli altri animali (i quali hanno il privilegio di non avere abbastanza autocoscienza per percepire il terribile delle verità naturali).
Anche le persone più "concrete" di questo mondo non vivono solo come mere "volontà" naturali, mosse dagli istinti di bere, mangiare, dormire e accoppiarsi, ma quali entità della "rappresentazione", autocoscienti e protese ad un fine diverso da quello della natura (propagare la vita e la specie senza altro scopo): la propria felicità. Infatti anche quanto di più concreto si pensa esista, il denaro, è in realtà una astrazione pura, giacché si può tramutare in qualcosa di concreto (tutto quanto noi desideriamo acquistare) solo se un'altra autocoscienza riconosce lo scambio di valore. Equivalentemente a 100 dollari o 500 euro potrebbe essere scritto sulle banconote "equivalente di felicità per tot." giacché il motivo per cui guadagnamo e spendiamo denari è in minima parte dovuto al nostro sostentamente fisico e in gran parte al nostro desiderio di conseguire beni, piaceri, situazioni e incontri in grado di farci balenare innanzi agli occhi la chimera della felicità. In questo senso pagare una escort è l'atto più normale per l'uomo, in quanto il denaro viene speso per avere in cambio il sogno che più di tutti raffigura la felicità, la beatutudine, il soave e il bello dei sensi e delle idee: quello amoroso. E' attraverso quell'inganno che la natura ha sempre indotto gli individui a propagare la specie. E' sempre stata quella la trappola nella quale tutti gli uomini sono caduti, molti perdendo averi, beni, ricchezze, sentimenti speranze, tanti anche la vita, sempre comunque rovinando i propri interessi di individui. Questo perché credevano reale la felicità dell'amore. Chi invece sa essere essa illusoria, al pari di tutti i sogni, paga un biglietto per godere della bellezza scenica, della perfezione estetica e dalla grandezza artistica impersonificate dall'attrice. Questa, nel nostro caso si chiama escort, ossia colei che accompagna, così come Beatrice accompagnava Dante dai giardini del Paradiso Terrestre siano alle alte sfere dei cori angelici. Anche se il nostro paradiso è molto più pagano e naturale, esso mantiene la medesima purezza di desiderio sublimato, la stessa ammirazione stupita per la bellezza da rimirare suspici (come la luna), l'identica soavità del sogno (anche Dante stava sognando, ed anche Dante alla fine usa il termine sessuale di"venire").
Si paga per la recita da ideale etereo incarnato nelle belle forme con cui congiungersi (come si farebbe con una sacerdotessa di Venere), per vivere un sogno estetico, per 'ebbrezza dei sensi e delle idee data dalla sensazione di godere di una beltà divina.
Così è possibile abbandonarsi alle onde della voluttà, vivere momenti di ebbrezza e piacere, dei sensi e delle idee e godere realmente di quella bellezza ideale, prima soltanto rimirata e sospirata in cielo nelle più alte speculazioni filosofiche e nelle più intense estasi artistiche (o disiata e vagheggiata alla luce della luna, nel suo corteo di zefiro e di stelle) che, tramite la donna cui carnalmente congiungersi (la quale diviene così sacerdotessa di Venere Citerea), si fa sensibile a noi mortali, discendendo nell’alta figura, nelle forme perfette, nelle membra lunghe e scolpite come da un divino artefice, nella pelle liscia levigata e nelle altre grazie che è bello tacere.
La vera escort è costituita più di sogno che di carne.
Contestano i sostenitori della realtà sul sogno che il rapporto con la escort sia reale, non immaginario. Ciò è vero, ma non smentisce che da lei si voglia il sogno ed il sogno si paghi, giacché in primis, come dimostrato, il piacere fisico è in sé illusorio e breve più del fulmine (e quindi non può essere la giustificazione delle diverse migliaia di euro spese, specie considerando il fatto che potrebbe essere raggiunto da soli e manualmente o anche con "passeggiatrici notturne" molto meno costose), ed in secundis esso è perseguito non "in positivo" (per ottenere qualcosa di felicità in sé), bensì in negativo, per evitare innanzitutto un dolore, forse più mentale che fisico (e per questo più forte): la frustrazione del desiderio inappagato.
La vera felicità "positiva" è nel sogno, non nel rapporto sessuale. Quest'ultimo è incessantemente ricercato (nella escort o nella donna in generale) più per l'idea di perdere con esso un privilegio della vita, di non godere della bellezza più alta e del frutto più puro, di lasciarla fuggire via come da un vaso senza fondo senza trattenere ciò che di più prezioso vi è, per non lasciare che un bisogno naturale inappagato ingeneri una frustrazione prima fisica, poi psicologica e infine, ripetuta, un disagio esistenziale, per evitare che un desiderio a lungo inespresso diventi un'ossessione (in cui non ci sarebbe più libertà), non già per il piacere breve e fuggevole che può dare.
Se il sogno, come detto (lo definiamo sogno estetico, prima di tutto, in quanto deve appagare i desideri così come sono dati dalla natura, la quale muove il maschio verso la bellezza corporale della donna, la claritade del suo viso, le sue chiome fluenti, le divine lunghezze delle membra, le rotondità del petto, lo slancio statuario del corpo, le grazie tutte della sua angelica figura, alta, e cara allo sguardo suspiciente, e della pelle liscia e levigata, soave al tatto, e completo, perché deve giungere ad un rapporto sessuale, altrimenti il suo valore non può essere pari a quello, illusorio allo stesso modo, un modo anche fisico, dell'amor naturale, ma comprende anche l'ebbrezza inesausta dei sensi e delle idee, l'arte delle movenze, delle parole, delle squisitezze intellettuali, la sublimazione poetica e l'amore per le immagini, i suoni, i versi delle liriche che eternano la bellezza femminile) è la vera sostanza dell'escorting, la felicità in positivo (che non può esistere nel reale), viene da cheidersi se tale sostanza sia diversa da quella della realtà vissuta.
Schopenhauer scriveva che vita e sogno sono pagine di uno stesso libro: leggerlo ordinatamente è vivere, sfogliarlo a caso è sognare.
La differenza dunque fra la percezione della realtà e del sogno non è affatto sostanziale, ma risiede solo nella concatenazione causale completa fra ciò che ci accade nella vita e in quella incompleta o addirittura inesistente che esiste fra un sogno e l'altro o all'interno dello stesso sogno.
Sembra un pensiero creato per l'escorting: le donne che ivi incontriamo non sono affatto diverse, sostanzialmente, da quelle esistenti nella vita extra-escortistica, essendo sempre costituite, materialmente, di carne ed ossa, ed idalmente, di bellezza e malìa. Ciò che cambia è la concatenaziona causale, nei fatti e fra noi e loro: nella vita vera essa difficilmente ci condurrebbe a conoscere (più o meno biblicamente) una di esse e quasi mai collegherebbe fra loro mille diverse bellezze (quali possiamo incontrare nell'escoring), e raramente anche ci darebbe la possibilità di conquistarne anche solo una e di farne la nostra amante, mentre nell'escorting il denaro spezza le normali relazioni causali, permettendoci di avere come amanti, (spesso per lo spazio di una notte, lo stesso dei sogni) quelle donne dalla bellezza tanto "alta e nova" da poter essere, in condizioni ordinarie, soltanto vagheggiate di giorno, nel sogno ad occhi aperti di chi le mira gir per via, o castamente disiate di notte, come l'imminente luna e le stelle palpitanti, dall'anima sospesa di chi, nel silenzio e nello stupore, eleva a loro lo sguardo sospirando, le quali nella vita "ufficiale" fanno magari le modelle, e per avere un'esistenza molto agiata sono disposte ad arrotondare concedendosi per una notte a clienti, invaghiti dalle loro fattezze e dalla loro classe, disposti a pagarle cifre ben superiori allo stipendio medio di un impiegato, senza necessità della concatenazione di eventi (incontro, possibilità di esplicare nostre eventuali doti di fascino, occasione favorevole di conquista, predisposizione e apprezzamento da parte della donna) necessaria per un rapporto "normale".
Favellando nel ricordo a Nerina, il Leopardi disse: "come un sogno fu la tua vita". Sia il sogno sia la vita sono infatti racchiusi da qualcosa di altro da loro, da qualcosa che per loro è nulla e rispetto al quale nulla sono e il sogno e la vita.
Noi stessi, diceva Shakespeare, siamo fatti della materia dei sogni, e fra due notti infinitamente lunghe viviamo.
La risposta al nostro quesito sulla vita e sul sogno è però contenuta in un'operetta di Leopardi, quella del dialogo fra Torquato Tasso ed il suo genio familiare.
Era Torquato Tasso prigioniero in una stanza, solo con i propri pensieri essendo creduto pazzo. Una sera il suo genio familiare (Leopardi, spirito gentile, ama questo termine nobilmente romano e pagano, ma si tratta sempre di quello che ai cristiani è noto come “angelo custode”) lo venne a trovare e gli chiese cosa avrebbe potuto fare per donargli almeno qualche attimo di felicità in tanto tedio e dolore. Torquato chiese di poter incontrare anche solo per pochi minuti la sua amata, la donna cui aveva dedicato le languide rime, le belle immagini e i suoni melodiosi dei suoi madrigali. Allora, dialogando sul come ciò avrebbe potuto portare la felicità, la quale, entrambi convennero, è un concetto per così dire speculativo e non può essere (proprio per la sua natura chimerica e “negativa”) conosciuto per esperienza (la quale, al massimo, può far conoscere l'assenza di dolore, ossia il tedio, quello che Torquato viveva nella sua prigionia, quando le pene non lo tormentavano), convennero che il modo più felice di incontrare la donna non era quello reale, in cui la sua bellezza può rifulgere in maniera minore delle aspettative, in cui il dialogo può essere meno profondo di quanto si vorrebbe, in cui il sentimento delle parole, dei gesti, dei suoni, dei messaggi, degli affetti può essere meno intenso, vivo e pregno di significato di quanto si immaginerebbe, in cui mille banalità possono distogliere dalla purità dell'amore veramente sognato e disiato, bensì quello dell'evocazione.
E questo (evocare le “belle forme e 'l guardar soave” della donna) è il modus principale della poesia, delle sue rime musicali, delle sue immagini oniriche, dei suoi versi melodici, dei suoi ritmi incantatori, del suo tono sognante, del suo guardare e del suo sentire idealmente.
Anche la musica ha questo potere (ed in effetti la poesia, nella sua accezione più antica e più nobile, è strettamente correlata alla musica, nel senso di ritmo e melodia che incatena e incanta persino gli dèi, e di canto che dona l'eternità e propaga il ricordo ai posteri).
In un bellissimo film dedicato alla viola, un musicista giansenista di fine Seicento, nell'austerità e nella solitudine della campagna francese, componeva musiche suonava melodie al solo fine di rievocare l'immagine della moglie morta. Disprezzava le ricchezze e declinava le offerte di divenire musicista di corte (suona meglio del musicista del re, sussurrava chi aveva la fortuna, per caso, di sentirlo suonare nella sua casa). Negli ultimi tempi, per rendere ancora più pura la sua musica, evitava non solo di suonare in pubblico, ma riservava l'effusione delle sue melodie al silenzio profondo ed alla quiete ombrosa della foresta, per evitare che anche un solo mortale lo potesse sentire. Tutta l'altezza e la nobiltà della sua arte erano dedicate alla sua donna, e lo spandersi delle note che lei evocavano era perciò nascosto come si nascondono le effusioni d'amore. Nel film, a volte, quando la musica era così densa di poesia da farsi quasi palpabile, si compiva il miracolo, e nell'aria, felice ed eterea, si componeva la figura femminile.
La poesia, così come l'immagine e le sensazioni di un sogno, riesce realmente a farci palpitare di desiderio, anche se l'incanto è fugace. Ma fugace, se vista dalla prospettiva del tempo, è la vita stessa (rimembra Petrarca: “quanto piace al mondo è breve sogno”). “Non vi è dunque alcuna differenza fra la vita e il sogno?”, chiede Torquato Tasso al suo genio familiare”. “Solo che il secondo può essere più bello”.
Questa è la risposta che ci serviva. A chi ha avuto la pazienza e la buona volontà di leggermi insino a questo punto rivolgo le due domande che seguono necessariamente da questo ragionamento (teorico, di premessa) e risolvono quello immediatamente successivo (pratico, di comportamento).
Può una escort dare la felicità? Assolutamente sì: se vissuta come un sogno la escort può dare la felicità, come la possono dare la poesia, il teatro, il bel canto, le belle lettere, le pitture, le musiche, e i sogni stessi. Se ella è la figurazione del nostro sogno estetico, è anche la nostra promessa di felicità, giacché non sarà più una donna reale, una creazione della natura, portatrice di valori mondani e di pene e di affanni terreni, e soggetta alla corruzione del tempo e della morte, ma una creatura felice ed eterea, della stessa fattezza di quelle disegnate dalle parole dei poeti, nelle immagini e nei suoni della lirica, cantate dai ritmi e dalle rime, evocate dalle musiche, emerse per incantesimo dalle melodie arcane e dai toni soavi, sublimate dalla bellezza dei versi.
Può una donna “reale” (intendendo in tal modo una dama che non paghiamo perché reciti per noi, ma che con noi voglia realmente vivere) dare la felicità? Assolutamente no, giacché ella non è a ciò preposta dalla natura. Ella ci darà solo la vita (come ce l'ha data nostra madre), e la vita è indissolubilmente e inesorabilmente legata non alla felicità, che è chimerica, ma alla sofferenza, che sola è reale.
Coloro che sostengono la felicità reale, o scambiano davvero la chimera per la verità, oppure hanno interesse che gli altri la scambino (è in particolare l'arte delle donne come genere naturale, non solo e non tanto delle escort).
Assodato che chiunque voglia seguire nella pratica il mio ragionamento vivrà le escort come un bambino vive i suoi sogni e sarà più simile al “drogato” che all'uomo “denim”, posso chiedere: “esiste una differenza fra il bimbo e l'uomo, o, che è lo stesso, fra il drogato e il sognatore?”
La risposta è sì. La differenza è proprio nella consapevolezza di tutto quanto abbiamo appena detto. Il bimbo ed il drogato vivono ingenuamente (o patologicamente, nel secondo caso) la non distinzione fra realtà ed immaginazione, rischiando di distruggere entrambe, mentre per l'uomo ed il sognatore tale identificazione è un atto metafisico.
Non esiste allora nulla per cui valga la pena vivere realmente? Invece sì, ed proprio ciò che ci ha spinti a questo atto metafisico, e lucidamente prima ci ha permesso di vedere la nostra infelicità: lo spirito e la voglia di conoscenza pura, ma non è l'argomento di oggi. Oggi, almeno per voi cristiani, lo spirito si è fatto carne.
SALUTI DALLA SUBLIME PORTA
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