La Sublime Porta

"Signori e cavallier che ve adunati/ Per odir cose dilettose e nove,/ Stati attenti e quieti, ed ascoltati/ La bella istoria che 'l mio canto muove;"

Cumartesi, Temmuz 12, 2008

Finchè la barca va..........













I. RICONOSCERE LA SOVVERSIONE (titolo mio)

Tutti i mali del mondo moderno derivano dalla sovversione egalitaria, ovvero dalla assurda pretesa della maggioranza debole e mediocre di valere quanto la minoranza forte ed eccellente, dalla arroganza patetica della massa dei malriusciti dello spirito e degli incapaci di generare in grandezza, significato, grazia, forza e durata di essere uguale a chi sa creare opere esprimenti bellezza, maesta’, potenza e purezza, sa costruire mirabili, grandiose e durevoli architetture nella storia, nella politica, nell’arte e nel pensiero, sa essere cosi’ egoista da donare al mondo, attraverso l’espressione, l’accrescimento, il perfezionamento dall’interno e l’imposizione verso l’esterno della propria natura, un piu’ alto valore, un piu’ nobile sentire, una piu’ pura bellezza, dalla criminale credenza che la bruta forza del numero possa rendere chi non ha (a prescindere dalla sua erudizione e dal suo intelletto banalmente razionale) alcuna conoscenza dei significati superiori dell’esistenza (ne’ alcun sentore che tali significati siano necessari) del tutto equivalente in dignità, importanza e peso sociale a chi ha saputo, sa e sapra’ creare sempre nuovi valori, nuove bellezze, nuovi significati (non certo a capriccio e dal nulla, come pensano gli sciocchi male interpretando Nietzsche in senso individualista e nichilista, bensi’ conformamente ai principi della “vita ascendente” e a partire da quello sfondo cosmico, chiamato dagli indiani Rita, dai Greci Moira, daI Romani Ratio, daI Germani Orlog, dai persiani Ascia, da cui in ogni tempo si generano gli dei, ad opera di quegli uomini che non solo sanno fare cio’, ma soprattutto lo sentono come necessario, ovvero hanno “volonta’ di potenza”).
Su questo snodo fondamentale della storia (anzi, della meta-storia) concordano, partendo da vie diverse ed opposte ("dal basso" il primo, "dall'alto" il secondo), tanto il Friedrich Nietzsche della "Genealogia della Morale" e del "L'Anticristo" quanto lo Julius Evola di "Rivolta contro il mondo moderno" e di "Gli uomini e le rovine".
Che quell'insieme oltre-umano di significati, valori e bellezze la cui conoscenza (secondo Evola) o la cui creazione (secondo Nietzsche) definisce l'essenza dell'uomo aristocratico derivi dall'alto di un mondo uranico e imperituro dell'essere cui i migliori fra gli uomini si elevano tramite gli atti puri di guerra e ascesi, o dal basso delle pulsioni naturali più profonde e degli istinti vitali più forti, che la volontà di potenza degli uomini grandi sa coltivare, accrescere ed elevare fino al veritce dello spirito è assai secondario rispetto alla constatazione della sua esistenza nella storia e della sua necessità per una vita degna di tal nome.
Non ha senso rimarcare divisioni nel pensiero quando identico è il sentire. Per gli uomini che pensano davvero il pensiero non solo diverge da quello del proprio maestro, ma muta continuamente. Sono invece la forza, la direzione e la rettitudine del sentire a dover decidere sulle scelte di campo.
E, per quanto riguarda il modo di trattare con il campo avverso, non esistono dubbi. "Cosa è bene?" Si chiedeva Zarathustra. "Essere coraggiosi". " E cosa è bene nella guerra?" "Che santifica ogni causa", rispondeva poi, a significare, contro ogni politicamente corretta interpretazione ermeneutica (o relativista), che non esiste affatto un'uguaglianza aprioristica dei vari valori proposti dai vari popoli e dai vari uomini (da cui discenderebbero il "pensiero debole" e la giustificazione della pace e della fratellanza nel nome della mancanza di certezze assolute), ma che ciascun valore esprime invece la qualità intrinseca di chi lo propone: valori eroici e guerrieri, per cui i più forti e i più nobili fra gli uomini sono disposti a sacrificare il miglior sè, i compagni più cari, i figli, e tutti quanti la Moira necessiti, ad affrontare ogni colpa e ogni dolore e a rinunciare ad ogni altro bene della vita non possono essere comparati con valori collaborativi e pacifici, il cui unico significato è giustificare moralmente il desiderio dei plebei di conservarsi il più a lungo possibile in un benessere materiale da bestiame bovino.
Lo spirito guerresco è necessario se si vuole la vita ascendente, l'affermazione dei migliori, il dominio di chi ha la forza di creare nuova bellezza, nuovo valore, nuovi significato per quel continuo disperdersi di energie che è l'esistenza.
La guerra, per Nietzsche non è un fine in sè, o meglio non un fine ultimo, ma è "propedeutica" per chi non si accontenta del conservarsi senza altro scopo e brama il superamento della dimensione banalmente umana, lo slancio verso un grado di esistenza più ricco, profondo, complesso ed elevato, verso una maggior pienezza di significato, un superiore senso del vivere. La guerra contiene in sè la premessa di quella volontà di potenza creatrice: la guerra, come niente altro, dimostra la disposizione a conformare il mondo a immagine e somiglianza dei propri sogni e dei propri ideali, a costo della vita stessa. E' dunque la guerra e non la pace a generare i valori (valori per cui non si è disposti a mettere in gioco la vita non possono dare a questa una vera bellezza, un vero valore e un vero significato: possono al massimo fungere da trastullo intellettuale, per cui la vita ri-degenera in esistenza priva di scopo e di senso), e per questo, insegna Zarathustra, sarà solo la guerra a permettere il passaggio ad una fase oltre-umana della storia, in cui nuovi dèi vivranno e nuovo e più alto e vasto significato avrà la vita (in maniera del tutto analoga a quanto avvenne con la rivoluzione neolitica ad opera della stirpi Arie, come si deduce dal costante riferimento nietzscheano "all'Ellade che verrà"). Ne consegue chiaramente che nessun accordo è possibile con chi brama "la fine della storia", "la pace perpetua", il "lavorio costante e pacifico di un formicaio" e vede il tempo come una linea retta, o un segmento terminato da un verde pascolo. Consegue altresì che non serva alcuna "dimostrazione razionale" su cosa siano il bello, il nobile e l'eroico.
Come ebbi già a dire, il nobile, il bello e l'eroico possono spiegare tutto il mondo, ma nulla al mondo può spiegare il nobile, il bello e l'eroico. E' proprio ciò che fa sì alcuni li vedano come evidente ed altri li disconoscano, che alcuni uomini si infiammino, combattano e siano pronti a uccidere o essere uccisi per essi, mentre altri non li colgano, li denigrino, li neghino, li volgano in "crimine e pazzia" o li considerini roba da fiaba o pericoloso divertimento cui preferire un vile sopravvivere a stabilire il discrimine e il giudizio di valore (del valore innato, intrinseco e immutabile, non dipendente dalla cultura o dal caso) fra gli uomini. L'individuo benriuscito che è disposto ad affrontare rischi, fatiche, sacrifici, dolori e pene pur di generare oltre, di superare se stesso, di affermare i valori per cui la sua vita si ammanta di bellezza, pienezza e fascino non ha bisogno di dimostrare che "questo, e non altro, è vivere". Vive e basta.
E, ovviamente, combatte, come direbbe la miglior donna fra coloro che hanno capito Nietzsche (Anna K. Valerio) "perchè è di buon sangue, non perchè si sente sfruttato".
D'altra parte, "Non si scende a patti con la sovversione, mai", sentenziava un laconico Evola, criticando tutti quei re e quei nobili (già di per sè alquanto degenerati) i quali credevano di poter arrestare la rivoluzione giacobina alleandosi con essa contro un re o una nazione temporaneamente nemici per motivi di interesse contingente o tattico.
Questo è quanto mai attuale.
Dalla casta regale e sapienziale, in epoca arcaica, presso praticamente tutti i popoli indoeuropei, il potere passò alla casta guerriera, la quale, pur attraverso innumerevoli vicissitudini e decadenze (compresa la sovversione cristiana), lo mantenne fino al tempo dell'assolutismo illuminato, quando re fanfaroni ma assai poco avveduti (come Luigi XIV) pretesero di relegare al ruolo di privilegiati mantenuti i due pilastri di ogni potere anagogico: l'aristocrazia guerriera (esautorata dalle sue funzioni e imprigionata a Versailles nella gabbia dorata) e quella religiosa (esautorata anch'essa, con il Gallicanesimo, da ogni sua funzione realmente politica), con ciò preparando la propria caduta. Se le caste superiori dei guerrieri e dei sacerdoti, almeno finchè sono integre, vivono e agiscono secondo i criteri superi del sacro e dell'eterno, le caste inferiori dei mercanti e dei servi conoscono solo i criteri inferi dell'utile e del tempo.
E questo "cambio di paradigma" noto a tutti come "rivoluzione francese", appare agli stolti quale progresso (in cosa possa far progredire l'umanità il ghigliottinare Lavoiser a 30 anni non è chiaro) ed ai più avveduti quale "caduta verticale di ogni valore".
Assai sciocca è stata la pretesa della borghesia liberale, una volta sovvertito ogni ordine tradizionale e aristocratico, despiritualizzato il mondo ed imposto la materia quale unico valore, di fermare la stessa sovversione egalitaria che aveva fomentato. Per questo allo stato liberale succede sempre quello demo-liberale, a quello demo-liberale quello democratico, a quello democratico quello socialdemocratico e a quello socialdemocratico, quello socialista. Una volta propagandato che non esiste alcuna differenza innata fra uomini, che i valori superiori su cui le differenze passate si fondavano erano illusioni e che il fine dello stato non è anagogico (ovvero di tendere verso l'alto) ma eudemonico (ovvero di permettere la felicità), come si fa a giustificare innanzi ad un semplice cittadino "la bontà del sistema" in cui un suo simile possegga ricchezze paragonabili a interi stati, e possa vivere molto più felicemente e gaudentemente di lui, senza che tali abnormi differenze (maggiori persino a quelle che vi erano fra contadini e principi nel mondo tradizionale) abbiano una corrispondenza (come invece deve essere in ogni stato organico) nella differente dignità e nei differenti valori etico-spirirtuali di cui le persone, in base alla loro natura, e alla loro funzione all'interno dello stato, sono portatrici, e di cui le ricchezze esteriori sono semmai il simbolo sensibile? Come si fa inoltre a pretendere che egli faccia il minimo sacrificio personale per qualcosa che (come lo stato e i suoi fini), per esplicita ammissione, non ha, qualitativamente, valore superiore all'individuo?
Al momento attuale piccole pseudo-elites di mercanti (chiamo così anche i finanzieri e gli speculatori, perchè, antropologicamente, altro non sono che appartenenti alla terza casta) detengono il monopolio di tutte le ricchezze (perchè le ricchezze fisiche, fabbriche comprese, sono ormai secondarie rispetto al capitale finanziario che circola senza limiti e si autoriproduce senza con ciò contribuire nè in beni nè in ricchezze al benessere del "popolo") e con esse tiranneggiano il mondo intero, determinano i presidenti degli Stati Uniti (solo un cretinetto veltroniano può credere che Obama vinca "per il carisma" e non più prosaicamente per i miliardi di Soros), decidono guerre "umanitarie", e usano persone, intellettuali e politici quali pupazzi per una rappresentazione di cui esse tirano i fili, innanzi a cui la gente ingenua si scanna "ideologicamente" e alla fine della quale il risultato sostanziale è sempre il medesimo: primato dell'economia sulla politica e politica dettata dall'interesse plutocratico. Non sto inventando nulla: è quanto già Ezra Pound aveva visto nella storia dalla fine del Seicento alla Seconda Guerra Mondiale (che di tale sistema liberal-massonico fu l'apoteosi: infatti adesso su quei fatti si costruiscono religioni, leggi e inquisizioni). Quello che posso notare di nuovo è che il malessere per tale situazione, anzichè scaricarsi sui veri responsabili (idolatrati invece come star del sistema mediatico e guru della finanza internazionale), si esprime in tanti piccoli odii interni alla società. E questo non porta altro che a una costante disgregazione di ogni legame fra persone non riducibile all'interesse e a una premessa per quella situazione di "sfruttamento di uno su tutti" da cui, secondo il verbo marxista, nascerà la rivolta del proletariato, della massa informe e senza volto.
Il fatto che per il momento il "pericolo rosso" sembri scongiurato non deve affatto ingannare: che la società senza classi auspicata da Marx non si sia realizzata con i mezzi violenti del leninismo non implica che non ci si arrivi gradualmente, senza accorgersene, tramite la continua degenerazione verso stadi sempre più indifferenziati di società. E ciò è ancora più pericoloso, poichè, persa la via "eroica" della rivoluzione" (tali vie energiche, eroiche e guerriere sono necessarie a chi voglia instaurare un ordine: per chi vuole semplicemente dissolverlo basta, per fare un paragone con la fisica, assecondare costantemente il naturale, fisico, aumento di entropia dei sistemi), la volontà di uguaglianza e appiattimento si va sempre più mascherando da "pacifico progresso", "giustizia sociale", "ridistribuzione della ricchezza", "riduzione degli squilibri mondiali", "lotta contro la fame nel mondo", "lotta alla discriminazione", "libertà per tutti di essere diversi" secondo forme "politicamente corrette", e in una veste tanto femminea e strisciante da parere quasi una predica cristiana sulla povertà e la felicità da raggiungere attraverso l'alienazione dei propri beni. Che poi i grandi possidenti le vere ricchezze si alienino davvero di esse per tali prediche è fatto dubbio, ma non modifica la constatazione di quanto, presso le persone "normali", ogni differenza sociale, sessuale, economica, linguistica, razziale sia considerata ormai una colpa da parte di chi "ha di più" (o è di più), un privilegio da annullare, un peccato da scontare (anche se magari a volte dipende dal merito, altre dall'impegno personale e dalla fatica impiegati per compensare vere differenze naturali a sfavore, come spesso nel caso dei maschi costretti a raggiungere certe posizioni socio-economiche per non essere negletti dalle donne, altre ancora dalla natura, come le caso di chi è più bello, più abile, più nobile nel senso pieno e viene penalizzato e colpevolizzato fin da piccino dalla scuola egalitaria). Anche in paesi formalmente liberali, i governi continuano a promulgare leggi e campagne demagogiche per far apparire quale "ingiustizia" e "discriminazione" tutto quanto in ogni ordine normale sarebbe il naturale riconoscimento di differenze necessarie. La più lampante di esse è quella fra padre e madre, che il governo spagnolo ha voluto mutare in genitore A e genitore B. Non è solo una questione di nome, ma di disconoscimento di ogni principio di differenza, distanza, personalità (che è il contrario di individuo o individualismo), di odio per tutto quanto è capace di distinguere e generare qualcosa di superiore al tutto indifferenziato. E' questo odio a giustificare l'esaltazione del diverso (anche qui, opposto rispetto al differente): se tutti sono belli, se tutti sono buoni, se tutti sono giusti, se tutti sono degni, allora non esistono più bellezza, non esistono più i migliori, non esiste più la giustizia, non esiste più la dignità nel senso alto conosciuto dalla tradizione (e neppure in quello vitale e ascendente voluto da Nietzsche).

Rispetto a questo prevalere della quantità sulla qualità, del comune sul prezioso, della materia sullo spirito, dell'indifferenziato sul differenziato, del mediocre sull'eccellente, della normalità debole sull'eccezione forte, della massa sul singolo, del grande numero insignificante e anonimo sulla perla rara e pregna di significati e bellezze si potrebbe pensare di non poter scendere più in basso. Le abissali forze della sovversione riescono invece a non porre mai limite al peggio e paventano quale ultimo stadio della degenerazione il ritorno ad una sorta di matriarcato pre-ellenico.

II. LE MADRI E LA VIRILITA' OLIMPICA (titolo preso in prestito da Evola)
Qui si inserisce il motivo del mio blog. Perchè infatti appaio ai profani (e alle profane) così "anti-femminile"? Personalmente non ho motivo di ostilità verso donna alcuna. Non ho mai dato alle femmine neppure la possibilità di ferirmi intimamente, non ho in sospeso nè litigi nè matrimoni infranti, non devo vendicarmi per torto alcuno. Non sono neppure un patito della gnocca-pay che si è rovinato per non aver saputo fermare le proprie crisi di astinenza. Perchè dunque sono avverso al femminile, o, meglio alla demagogica e rutilante esaltazione socio-culturale che di tal genere fa la modernità? Il motivo non è nè individuale nè fisico. E' superindividuale e metafisico. Dipende SEMPRE e SOLO dalla scelta di campo fra Kosmos e Chaos, fra ordine e sovversione, fra differenza e uguaglianza.

Non solo erano donne le prime credenti del mito cristico fondatore del sentire egalitario, non solo erano donne quelle nobili romane che permisero l'infiltrazione del cristianesimo tellurico e semita nelle fondamenta del solare impero di Roma, non solo erano donne le tante sostenitrici del giacobinismo, non solo le femministe sono degne eredi di Kant (basta pensare all'uso del suo astratto concetto di dignità per condannare la prostituzione), di Hegel (basta pensare alla dialettica servo/padrone da cui sono ossessionate), di Marx (basta pensare a quando vedono disparità e discriminazioni e sfruttamento ove sono privilegi e maggiori scelte e sfruttamento da parte loro) e degli altri esegeti dell'uguaglianza contro natura e contro ogni istinto ascendente (oltre che, spesso, nelle applicazioni pratiche di tali precetti, contro ogni buon gusto ed ogni buon senso), ma è proprio nel richiamo continuo all'essere "madri della vita" che si rivela la più tellurica delle forze della sovversione.
Donde vengono infatti la credenza nell'uguaglianza, nella fratellanza e nella pace universali (l'intuizione non è certo mia ma di Bachofen, poi ripresa puntualmente e rettificata da Evola), l'aspirazione a fare della vita una conservazione senza altro scopo che un benessere da bestiame bovino, la tendenza ad annullare ogni differenza, a distruggere ogni identità (di sangue, di spirito, di persona), a negare ogni realtà a quanto è al di là e al di sopra del mondo dei sensi o del bassamente umano, se non dalla primitiva fede nel principio della grande madre, da cui ogni individuo dirama e a cui ogni individuo ritorna dopo una esistenza effimera, e innanzi al quale tutte le gerarchie fra individui si annullano, assieme a tutti i valori superiori, su cui tali gerarchie si fondano?

Quando poi si legge di donne che si attribuiscono valore e significato "in quanto madri" non solo si capisce chiaramente come in ciò risieda la negazione di ogni dimensione superiore dell'esistenza (subordinare infatti un valore a quanto gli è inferiore significa negarlo), di ogni significato capace di valere al di là e al di sopra della materia, o comunque di ogni fine nietzscheanamente ascendente e non limitato alla conservazione di quel genere di umanità dato dalla madre, ma si coglie con evidenza la scissione dei due "campi". Ecco il vero "scontro di civiltà", altro che Occidente e Islam!

La differenza e’ fra chi individua la vita nella pura dimensione naturalistica e materiale quale data dalla madre, e allora non concepisce altro significato di vita dal ricercare un tranquillo benessere materiale da bestiame bovino, non ricerca altra ricchezza che quella terrena, non giudica la vita da altri criteri che quelli dell’utile e del tempo, non vuole alcun paradiso diverso da quello dei sensi offerto dalla donna, non conosce altra fonte di diritto dall’arbitrio di colei la quale, quale fonte dell’unica vita ritenuta reale, stabilisce a capriccio il bene e il male, il piacere e il dolore, il bello e il brutto, il giusto e l'ingiusto, e chi invece identifica la vera vita con la dimensione superiore e spirituale data dal padre, e allora concepisce come fini supremi il non accontentarsi della banale sfera materiale, il continuo superamento di se’, il passaggio dalla dimensione infera del divenire a quela supera dell'essere, dalla vita alla piu’ che vita, da quanto ha in se’ il germe della caducita’ e del tempo a quanto splende eternamente uguale a se’ come il sole invitto (senza dover passare, per perpetrarsi, attraverso il ciclo di nascita e morte in cui l’individuo si annulla), ricerca quei valori etico-spirituali in grado di conferire alla vita un significato superiore alla tranquillità del benessere materiale desiderato dalla plebe e dalle mucche, e rispetto ai quali ricchezza, onori e potere sono e debbono essere soltanto i simboli sensibili, giudica la vita secondo i criteri del sacro e dell'eterno, vuole per se’ prima di tutto il paradiso che spetta a chi sa vincere la parte soltanto umana di se’ ed elevarsi, tramite gli atti puri di guerra o di ascesi, ad una superumanita’ eroica, incapace di sentire la paura, il dolore e la pieta’ e tutt’uno con la Gloria solare di chi splende di luce propria sempre fedele a se’ stesso, al di la’di ogni legge del divenire, e conosce quale fonte del giusto e dell’ingiusto non gia’ qualcosa di bassamente umano, di pretenziosamente universalista ed egalitario o di debolmente utopico o sentimentale, ma solo la pura e dura necessita’, intesa non gia’ quale bisogno dei deboli e dei mancanti, bensì quale liberta’ di realizzare pienamente la propria natura, di volere e amare il proprio destino di grandezza, di essere capace, per compierlo, anche di sacrificare se’ come individuo, nella consapevolezza che per gli eroi, Nietzsche et Wagner docunt, la fine coincide eternamente con una rigenerazione.

Il primo tipo umano da’ vita ad una societa’ materialista ed egalitaria, nella quale le differenze qualitative fra individui, le quali sarebbero fondate su gerarchie di valori superiori a quanto risiede nel dominio del divenire, dell’utilita’, della materialita’ e della temporeita’, spariscono di fronte al principio naturale della terra madre da cui ogni individuo deriva e a cui ritorna dopo una esistenza effimera, nella quale le uniche differenze fra uomini, quando esistenti, sono date dal possesso di beni materiali e dalle capacita’ di produrre ricchezze (come avveniva infatti presso i Fenici o a Cartagine, il cui potere era puramente mercantile, ben lontano da qualunque sacralita’ e da qualunque gerarchia di stampo aristocratico e spirituale come invece a Roma) e nelle quali, anche quando la Zivilisation raggiunge livelli di raffinatezza e sviluppo eccelsi (come presso gli Etruschi) continua a mancare una qualsiasi Kultur in grado di conferire agli elementi della cultura, dell'identita’ di sangue e di spirito, della guerra e della pace, dell'architettura e della letteratura, un “grande stile unitario” e di giustificare idealmente l’esistenza alla luce del sacro e dell’eterno, o comunque di quanto vada al di la’ delle leggi della caducita’ e del divenire, della ricerca dell’illusoria felicita’ individuale e della patetica fuga dal dolore, di quanto insomma liberi l’essere umano dall’ossessione del nulla come origine e fine di un’esistenza priva di significato superiore (ovvero da quell'angoscia ben visibile in ogni espressione culturale presso Egizi e Etruschi e sconosciuta invece a Greci e Romani). Pare tanto una consolazione piu’ che una fede o una consocenza: una consolazione piena di angoscia (del resto gli dei rispecchiano sempre i loro creatori: popoli dominati dalla paura e dalla materia, pacifici per deebolezza, generano dèi spaventosi e imperscrutabili, popoli dominatori delle passioni e forti in guerra generano dèi chiari, sereni, più che umani e luminosi anche nella loro corporeità).

Il secondo tipo umano, invece, genera una societa’ guidata da una aristocrazia guerriera e da una casta di sapienti (nel senso platonico), nella quale chi vive secondo i criteri del sacro e dell’eterno stabilisce i valori e conforma a se’ gli altri uomini (ognuno secondo il proprio grado di eccellenza o mediocrita’ e in conformita’ alla propria natura), nella quale la giustizia si identifica con l’attribuire a ciascuno il suo (non gia’ con l’uguaglianza), nella quale i valori etico-spirituali capaci di giustificare idealmente l'esistenza sono tanto importanti che fondano gerarchie reali fra uomini, solo in virtu’ delle quali hanno senso le differenze di rango, dignita’ e possesso di beni materiali, nella quale lo splendore di ogni ricchezza e’ il simbolo sensibile delle differenze qualitative fra uomini, e non gia’ queste pura derivazione di quella (come nelle societa’ egalitarie di diritto e plutocratiche di fatto), e nelle quali, anche quando (come nella roma arcaica o nella grecia cantata da omero) gli strumenti esteriori della Zivilisation non sono ancora progrediti, esiste comunque una Kultur in grado di mostrare al mondo cosa, al di la’ di ogni splendore esteriore e di ogni intellettualita’ estrinseca, siano davvero il grande, il nobile e l'eroico, e di portare il popolo che la possiede a generare opere di tale grandezza, maesta’ e durata da essere eternamente ammirate e mai raggiunge dai posteri, nell' arte come nella guerra, nella vita come nella letteratura, nelle architetture della politica cosi’ come in quelle del pensiero.
Rileva poco il fatto che come strumenti di cio’ spesso siano adoprati strumenti propri alla Zivilisation di altre societa’ (penso all’ars edificatoria ripresa dagli Etruschi o a quella letteraria dei greci), poiche’ gli strumenti della Zivilisation si scoprono o si apprendono (per caso o per volonta’ o per inevitabile compenetrazione di idee), mentre l’identita’ della Kultur e’ innata. E per una grande opera non bastano strumenti raffinati (si possono sempre procurare), ma serve la grandezza intrinseca dell’autore. Ed e’ non l’estemporanea invenzione dell’una o dell’altra cosa artistica o letteraria, ma il Grande Stile in grado di dare un senso unitario e superiore a tante e diverse espressioni di cultura a dare vita ad una civilta’ superiore. Questo e’ stata Roma.

Serve ricordare che invece il primo tipo di civiltà fu massimamente rappresentato da Cartagine (ossia civiltà semitica, matriarcale prima dell'introduzione del denaro, mercantile dopo, ma comunque legata ad una religiosità crudele, tellurice e femminea, e famosa per la sua "perfidia" e la sua "infidia") e nell'era moderna è stato degnamente ripreso dalla Gran Breatagna prima e dagli Stati Uniti poi? La consonanza fra potere di una oligarchia mercantile, sfruttamento semischiavistico del resto della popolazione (e non parliamo degli schiavi come ultima casta, ma di cittadini che vengono sfruttati nonostante i loro diritti!) e femminilità del sentire e del valutare, nonchè tendenza a dominare i mari, fondare colonie commerciali e astenersi da una vera politica (l'economico domina sul politico, e l'unica politica consiste nel distruggere le identità di sangue e spirito degli altri popoli tramite il mercato e le "guerre di liberazione": fece così anche Annibale quando, sceso dalle Alpi, tentò di disgregare l'alleanza sociale dei Galli Cisalpini e degli Italici con Roma) è chiara. Non vengono poi da Gran Bretagna e Stati Uniti le più estreme, aberranti e tragicomiche invenzioni e maledizioni del femminismo?

III. SESSO E CARATTERE (titolo preso in prestito da Weininger)
Si badi bene che la differenza qui non è fra uomini e donne in senso biologico, personale o psicologico, e neppure in senso storico. E' fra sentire solare e sentire lunare, senso virile e senso feminile, fra Civiltà Olimpica e tutto indistinto della Grande Madre. Non è una questione neppure di interesse personale.
Erra platealmente chi crede che gli uomini siano tutti per natura dalla parte della virilità olimpica e le donne tutte da quella della grande madre! E' vero invece che, proprio per essere un tipo di civiltà intrisecamente aristocratica, gerarchica, guerriera, disposta ad accettare solo chi sa donarsi e non chi vuole prendere, chi sa spendersi e non vuole risparmiarsi, chi vuole la colpa ed il dolore pur di compiere l'opera e non vuole il piacere e l'innocenza a tutti i costi,
la Virilità Olimpica raduna in sè, per natura, solo i migliori, tanto fra gli uomini quanto fra le donne. Gli altri sono semplicemente conquistati dal suo splendore o dalla sua forza e subordinati nelle sue gerarchie secondo il loro valore. E' il tutto indifferenziato della Grande Madre che, per il fatto di non avere nè forma, nè fine, nè scopo, accetta indistintamente tutto e tutti e per questo, oggi, ha vita più facile.
Non si pensi che le donne spartane, le quali sopportavano senza piegarsi il dolore per la separazione dal figlio a soli cinque anni, per poi rivederlo a quindici o venti al momento di porgergli lo scudo e dirgli "torna o con questo o sopra di questo", o le donne romane, disposte come Lucrezia a rinunciare ad ogni gioiello ed ogni ornamento pur di assicurare comunque, nell'assenza del padre, ai figli un'educazione eroica e lontana da lussi e vezzi, o ancora quelle germaniche, ascoltate sempre per i consigli dai saggi prima delle battaglie e pronte, in caso di necessità, a impugnare anch'esse le armi piuttosto che arrendersi alla sconfitta, e capaci ancora in quel maggio del '45 di gettarsi sulle bestie bolsceviche, ben sapendo la loro sorte, ma non volendo capitolare prima di un ultimo tentativo (eroico, eroico, eroico, tre volte eroico, e chiudetemi il blog se non vi piace, cari custodi della religione democratica e antifascista...) fossero di tempra inferiore a quella dei loro uomini solo per il fatto biologico di essere nate, per caso, donne. Ad un mondo guerriero corrisponde sempre una donna guerriera, almeno nello spirito, e persino la donna "riposo del guerriero" su cui tanto i maschilisti quanto le femministe, per motivi opposti, ironizzano, senza conoscere il legame che anche dopo il litigio correva fra Nietzsche e Wagner, non è una schiava, ma una valchiria (il riposo di un guerriero non può essere che un premio concesso solo ai migliori, e quindi a coloro che, secondo la mitologia wagneriana, sono "scelti dalle donne", e non già un divertimento a disposizione del primo borghese, pantofolaio e senza qualità nato, per caso, maschio).
E così non si pensi che di tempra simile ai Romani, agli Spartani o ai Germani antichi e moderni siano potenzialmente gli uomini d'oggi solo perchè biologicamente uomini. E' vero invece che la maggior parte di essi ha un sentire assai femmineo (in ambito culturale e cinematografico quasi tutti) e, pare, almeno in Italia discendere assai più dagli schiavi siriaci o dai subumani pelasgi che non dai Romani. Il loro fare della donna, nel bene e nel male, una ossessione poetica e prosastica, il loro dare valore ad una azione solo in quanto gesto scenico e non in quanto agire oggettivo necessitato dal compimento della propria natura (facile immaginarsi dall'italiano medio, in caso di scelta, una morte teatrale, difficile pensare ad esso come capace del sacrificio anonimo del legionario), il loro non vedere altro argomento degno di lotta, fatica e sangue che non sia correlato alla femmina, il loro divenire rumorosi, vistosi, gesticolanti e frenetici ad ogni apparire, anche vago e indistinto, di grazie femminili e di possibilità di godimento li renderebbero irriconoscibili da parte dei Romani dell'età di Catone (che pure, proprio perchè non ossessionati al contrario dei cristiani e dei moderni dal sesso, non erano affatto moralisti, sessuofobici e puritani, e ben conoscevano, nei momenti opportuni, le gioie della carne).
L'uomo indifferenziato di oggi, proprio perchè privo di valori superiori a quelli umani e troppo umani della carne e della pace, è totalmente dipendente dalla donna, e quindi tende a vedere in essa ogni bene fisico e intellettuale, anche quando le più assurde cretinate si affermano e le più inaccettabili iniquità si perpetrano. Non è un mistero che giudici e parlamentari maschi continuino imperterriti a promulgare e far rispettare leggi di totale e sfacciato favoritismo verso la donna (e rovina di mariti, padri, amanti, fidanzati o semplici passanti accusati) e che, se per il caso di una donna assassinata si muovono ministri e poliziotti, per il caso di un uomo praticamente "rapito" dal governo americano e incarcerato come un cane sulla base della sola parola della sua ex (pronta, pur di intascarsii soldi da "vittima di violenza domestica", a raccontare cose impossibili da ogni punto di vista fisico, chimico e biologico), non si muova nessuno in due anni (sto parlando del caso Parlanti, e se non ne avete sentito parlare significa che ho ragione).
Tutto ciò non accadrebbe se esistessero uomini capaci di vedere che non è affatto la donna la fonte unica della vita davvero degna di essere vissuta. Non serve inneggiare alla castità, ma tenere presente quel che Nietzsche disse riguardo all'uomo superiore "il piacere lo si deve avere, non volere".
Il pugno di uomini eletti capaci di restaurare la virilità olimpica non si identifica, però, neppure con quei maschi che si organizzano per i propri diritti con gli stessi modi, gli stessi argomenti e lo stesso sentire del movimento femminista e richiamandosi ai valori, alle mitologie e alle demagogie del mondo liberale e individualista: anche io sono stato tentato in ciò, ma mi sono reso conto in tempo che combattere l'estremo della sovversione con argomenti, idee e mitemi propri degli stadi precedenti della sovversione stessa sarebbe come tentare di spegnere un incendio che sta già bruciando benzina gettandovi legna da ardere con l'argomento "è meno infiammabile".
Si tratta dello stesso medesimo errore dei borghesi liberali che tentavano di frenare democrazia e socialismo cercando di far apparire immortali, fissi e fondanti i principi con cui essi stessi avevano sovvertito l'ordine tradizionale. Pensare che il liberalismo sia l'opposto del socialismo solo perchè non contiene tutti gli elementi degeneri è come, per dirla con Evola, ritenere che il crepuscolo, poichè non ha ancora spento ogni luce, sia l'opposto della notte fonda. Allo stesso modo pensare che uno stato in grado di proporre o di garantire uguali diritti a uomini e donne (e non già, come è ormai, doveri agli uni e privilegi alle altre) sia l'opposto del matriarcato, e non già la sua prefigurazione, ed affidarsi ad esso per proteggersi dalla prepotenza femminile è come affidarsi alle ultime luci del tramonto sperando che possano rischiarare la notte.
Un uomo vero voglia il chiaro mattino! Un uomo vero sia mattiniero come un Nietzsche! Non serve ormai far notare con il più logico ragionamento e la più chiara dimostrazione che, anche da un punto di vista liberale, esistono di fatto discriminazioni contro gli uomini (a partire dalla scuola, passando per l'età liceale e per finire con certi luoghi pubblci e certi incarichi amministrativi e certe leggi matrimoniali), ricordare che certe apparenti disparità derivano da fatiche, studi e meriti personali di uomini impegnati a bilanciari i privilegi posseduti dalle donne per natura e cultura, e non da discriminazion contro di esse, non serve mostrare l'assoluta estraneità dell'uomo normale al fatto che i tiranni finanziari del mondo siano per caso maschi e anzi il suo svantaggio nel subire il loro fomentare, per motivi di interesse e calcolo, il femminismo mondiale, la cultura antimaschile, la pubblicità e la demagogia dell'irrisione, dell'umiliazione e della devastazione, materiale e morale, dell'uomo, la promulgazione di leggi femministe a senso unico, la distruzione di ogni ordine tradizionale, di ogni legame non monetario fra uomini e donne, non giova far presente che anche da un punto di vista individualistico ed eudemonico l'uomo ha bisogno di compensare le disparità naturali di numeri e desideri favorevoli alle donne, di fronte a chi nega la realtà pur di negare ogni ragione del maschile (anche quelle non eroiche e banalmente umane) e si serve dei "diritti" per piegare ogni giustizia alla propria vanagloriosa prepotenza di madre e di femmina.

Un uomo vero abbia il coraggio di tornare all'origine della questione, di negare anche sotto questo aspetto il principio della sovversione e di affermare che il diritto è quello di Roma, non quello astratto dell'Onu, la giustizia il suum cuique tribuere, non l'uguaglianza, il ruolo dell'uomo quello del guerriero, non della seconda mamma o del giullare-maggiordomo-bancomat, il ruolo della donna quello di chi attira, seleziona e premia, fra tutti, il migliore guerriero, e non vi è nè vi deve essere uguaglianza, ma differenza necessaria alla vita ascendente, che i Romani, i Greci, i Persiani e gli Indiani, in quanto ordinatori del mondo in kosmos, sono la fonte stessa della civiltà e del diritto e non i barbari invasori, mentre piuttosto i Pelasgi, in quanto degenerati nel tutto indifferenziato, dominati dalle donne, privi di forma e senso nella loro vita, substrato umano cui solo i conquistatori danno un ordine e un posto nel mondo.
Si replichi con fierezza a chi taccia questo pensiero di violenza che la violenza dei migliori è formatrice di civiltà, mentre è la rabbia degli indifferenziati ad essere violenza distruttrice, si esprima essa con le parole, con gli ululati, con le isterie femminili, con i calci, con i pugni, con le spranghe, con i libri, con gli insegnamenti scolastici, con i blogs, con le leggi femministe o democratiche, con le pistole, con la polizia, con il carcere, con le bombe intelligenti, o con le bombe atomiche.
E a chi parla di donna schiava si ricordi che quanto piace a certi orientali (oggi o ieri, ma più oggi, specie se finanziati dalla Cia) in fatto di condizione femminile non è quanto piace a Roma, che mai tutti gli schiavi furono donne o tutte le donne schiave in alcuna epoca indoeuropea, che schiavi di ambosessi servivano alla civiltà (Nietzsche docet) e che in ciò spesso le femmine avevano sorte migliore (ovvero di essere quanto oggi sono le badanti anzichè remare nelle galere: sebbene la condizione disumana attribuita dall'immaginario collettivo allo "schiavo medio" dell'antichità, e prodotta quasi per intero dalla propaganda cristiana, andrebbe rivista e assimilata a qualcosa di assai meglio di quanto oggi è la condizione dell'immigrato medio) e sopratutto che schiava non è la donna romana fedele a se stessa e dignitosa nel suo posto di matrona, ma la presunta "libera di oggi", non rispondente più ad alcuna forma o legge interna e quindi destinata al "disfacimento sessuale" di cui parla la narrazione sul Kali Yuga (e non è che serva tanto vietare la prostituzione per fermare tutto ciò, anzi). Libero è soltanto chi compie la propria natura, non chi crede di poter essere e fare di tutto: questi è semplicemente il licenzioso.

Difficile però udire tali discorsi in un mondo in cui gli uomini, pur di non contraddire le donne o di non apparire "anti-femministi" e "antiquati", se ne escono con frasi del tono "non avrei alcuna difficoltà ad ammettere una società di sole donne". Ecco il tipo umano che asseconda la corrente! Che osserva il progresso! Che si compiace dell'emancipazione del mondo!
Chiunque fosse un uomo formato dovrebbe sentire lo schifo per il ritorno alla promiscuita’ e all’uguaglianza senza forma, per la distruzione di ogni senso superiore del vivere, per la dissoluzione delle differenze qualitative fra individui, per il volgere la societa’ ad un lavorio di formiche senza asenso e senza scopo piu’ alto del lavoro stesso, per l’appiattire ogni valore della personalita’ e della differenza, per l’annullare ogni fine anagogico, ogni slancio eroico, persino ogni tensione ad essere migliori, fino a fare dell’intero mondo quello che e’ oggi la scuola gestita dalle donne, nella quale I peggiori dettano legge, I migliori si devono vergognare per il fatto di emergere dalla massa e le stronzette possono impunemente sfoggiare ogni loro tirannica vanagloria senza compensazione e freno alcuno. E’ il tutto indifferenziato, vale a dire il mondo fattosi, attraverso il chaos, nulla. Fine della storia. Inizio del nichilismo eterno.

IV. SUBUMANI PELASGICI (titolo preso in prestito dal mio stesso sdegno)
Come possono gli uomini accettare questo? Il motivo è presto detto: alla maggioranza degli uomini senza forma il matriarcato starebbe più che bene. Non avrebbero alcuna delle responsabilità di cui sanno non essere all'altezza. I più prepotenti potrebbero continuare a furoreggiare come già avviene nella matriarcale scuola dell'obbligo. I mediocri, sparito ogni valore e appiattita ogni differenza, potrebbero continuare ad esistere senza sentire la loro nullità. Tutti insieme avrebbero forse più modo di appagare i loro focosi bisogni carnali (a giudicare dall'innumerevole serie di riti orgiastici presenti nei popoli preellenici) e, nel tutto indifferenziato, anche i privi di qualità potrebbero per caso, magari dopo qualche umiliazione, accoppiarsi sovente a femmine meravigliose.

Chi ci rimette? Ancora una volta: chi ha valore, chi ha dignità, chi ha forma propria.
A chi dà più fastidio il rumore? A chi sa suonare o vuole ascoltare la vera musica. A chi o è sordo o non conosce musica può anche piacere.

E non mi si parli di giustizia nel matriarcato o di diritto in un mondo senza Apollo (laddove con esso si intenda qualcosa che è più della semplice ragione illuministica, qualcosa di afferente un amore per la chiarezza unito alla comprensione del cosmo in senso alto e non sempre traducibile in parola). Qui alla dottrina si unisce l'esperienza di aver vissuto, da fanciullo e adolescente, fra donne. Non esiste nè il diritto, nè il giusto laddove non vi siano ordine e luce, non esiste civiltà nè umanità in senso alto laddove il culmine di ogni visione del mondo e il fondamento di ogni valore e di ogni realtà siano posti esclusivamente nella propagazione della vita terrestre senza altro scopo e in chi a tale senso conservativo e tellurico dà attuazione.

Da questo principio discende il chiaro rifiuto di ogni umanitarismo, giustamente da lasciare alle crocerossine, e di ogni pacifismo, da lasciare alle scuole.
Appartenere ad un popolo ed incarnarne i valori di sangue e di spirito, nonchè conoscerne e amarne tutto quanto, nella cultura come nel costume, nell'arte come nel pensiero, fa sì che esso sia quello che è, costituisce un "di più" rispetto all'essere semplicemente e naturalisticamente umani, e a sua volta essere leali, coraggiosi, conoscere e amare l'etica cavalleresca ed essere perciò guerrieri, oppure avere nobiltà di spirito, altezza di sentire, purezza d'intelletto, ed essere perciò brahamana, è un "di più" rispetto all'appartenere semplicemente ad un popolo.
Per questo chi si sacrifica per qualcosa di afferente la propria patria, o per affermare quei valori che qualificano un dato tipo umano, che creano differenze fra uomini, che fondano le civiltà capaci di giustificare l'esistenza alla luce del sacro e dell'eterno, fa qualcosa di eroico, nel senso di sacrificarsi per quanto è a sè superiore (e che per questo comprende il sè e lo illumina dall'alto), mentre chi si sacrifica per ideali umanitari, per un bene puramente collettivo (nel senso di riguardante un insieme di individui superiore solo per numero e non per qualità all'individuo singolo), per puro altruismo indifferenziato (ossia per un prossimo non avente alcuna specificità che non sia la banale appartenenza biologica alla specie umana) esprime un semplice "amore sbagliato per se stesso" (direbbe Nietzsche), agisce verso il basso (direbbe Evola), si sacrifica per quanto è a sè inferiore. E' un'anima bella sprecata, la quale, magari, educata a sentimenti, aspirazioni e imprese eroiche, avrebbe potuto compiere gesta immortali e fondatrici di civiltà.
Allo stesso modo da qui discende ogni condanna verso quelle donne che pretendono di essere una forza solo per il fatto di unirsi "in quanto donne". La forza non può nascere da un puro aumento quantitativo di individui (non pensava questo nemmeno Lenin, il quale ben sapeva come solo una minoranza attiva avrebbe potuto far accettare alla massa, sempre inerte e pecorina, il cambiamento, in meglio o in peggio e dovette sperimentare le conseguenze della fede nello "spontanesimo rivoluzionario" Rosa Luxemburg, per fortuna eterna della Germania). Per essere davvero formatrice la forza deve fondarsi su una differenza di qualità. Una nazione che non vada oltre sè ma semplicemente conquisti con la bruta forza di mezzi numericamente superiori territori e popoli è imperialista, una nazione che si superi divenendo qualcosa di più alto e solo in nome di ciò usi la forza conquistatrice e ordinatrice di popoli è impero. Ogni riferimento all'Inghilterra e a Roma è puramente voluto. Il riferimento al mondo d'oggi è invece a tutti quei "collettivi femministi" (reali, ma anche virtuali) i quali, nell'attesa di poter sciogliere nell'indifferenziazione la società tutta, sciolgono in essa le donne, valorizzando le loro idee e le loro esperienze in quanto "provenienti da donne", anzichè, come vorrebbe qualsiasi principio superiore all'indifferenziazione, valorizzare quelle donne, rispetto alle altre, in quanto portratrici di esperienze e di idee. Conosco già la replica delle donne: "fare delle differenze è maschile, mentre noi siamo già valorizzate e differenziate per il fatto di essere coloro che generano nel corpo". E questo è proprio quanto mi convince a vedere il loro unirsi come qualcosa capace solo di far tendere il semplicemente umano verso il basso, di trattenere ogni slancio, di appiattire ogni differenza, di annullare ogni valore e ogni significato superiore alla mera dimensione corporea e conservativa della vita, e il nostro come invece fondazione di ogni senso propriamente e superiormente umano, quanto mi fa identificare il loro agire con quello del chaos, e il nostro con quello del kosmos, quanto mi da' oggettivo diritto di sostenere che il "mondo di donne" è il tutto indifferenziato, mentre solo quello degli uomini può tendere verso l'alto, la differenziazione e quindi forme di vita, civiltà, senso, significato e bellezza superiori.
Chi mi voglia far cambiare idea su questo punto e considerare le donne (o, meglio, questo tipo femminista di donna) come possibili alleate alla pari degli uomini per un mondo più che umano deve senz'altro invertire questa pretesa maternalista. Davanti ai miei occhi donne che si uniscono perchè donne sono equivalenti a quegli uomini che si uniscono perchè uomini in certi forum e si riducono così a somigliare alle bestie. Le vere unioni di uomini sono solo e soltanto quelle in cui il principio unificatore è la differenza rispetto al banalmente umano: lealtà, coraggio, etica eroica per i guerrieri, contemplazione, ascesi, purezza di sentire per i sapienti, abilità tecnica, ingegno, creatività per i produttori, ovvero la qualità che distingue il tipo d'uomo appartenente alla "casta" e in base alla purezza della quale si fondano i gradi gerarchici. Tale meccanismo di differenziazione può benissimo applicarsi a qualsiasi adunanza virtuale o reale basata su interessi fisici o metafisici, storici o metastorici, filosofici o automobilistici e persino sessuali, purchè appunto sia ciò che afferisce al tema il vero principio di unione e di ordinamento. Tutte le altre unioni possono chiamarsi branco, massa o gregge.

Fra quei maschi che si scagliano contro le donne per i più vari motivi (quando essi non coincidano con i principi poco sopra esposti) magari si trova chi ha in sè il più femmineo e indifferenziato dei principi e tramite esso critica "la superdonna". A ripensare al branco contro Chiara di qualche anno fa sull'immondezzaio constato come gran parte dei detrattori di lei la attaccasse "in quanto donna" senza accorgersi di rappresentare proprio, per l'amore dell'uguaglianza e del piattume e la tendenza ad una libido incontrollata, quella subumanità pelasgica da sempre alle donne soggetta.

V. PERCHE' SOSTENGO LA CHIARA-ARTEMIDE (titolo preso in prestito almeno in parte dalla fantasia)
Qui ci si può chiedere perchè difenda proprio Chiara che pare nel suo pensiero rappresentare l'esatta antitesi dei principi virili sopra esposti. Avrei capito davvero poco dell'umana natura e della oltre umana necessità di superamento se mancassi proprio in questi casi di distinguere fra il pensare, che è acquisito, e il sentire, che è innato.
Un pensiero ha sempre, almeno in parte, un'origine esterna. Se è vero che alcune argomentazioni di Chiara di Notte ricalcano i più vieti luoghi comuni di certa demagogia diciamo femminil-materialista e risuonano di strutturalismo marxista (con conseguente svilimento di tutto quanto nella storia è fine anagogico), è altrettanto vero che non si può pretendere da chi ha continuamente sotto gli occhi certi esempi di sottouomini una visione pura e limpida dell'ideale virile. Ciò supererebbe le capacità astrattive di ogni uomo. Se quali esempi reali di uomini si sono avuti il subumano bolscevico (o ex bolscevico) arricchito i cui modi brutali e volgari sono ben immaginabili, il vile mercante tiranno del mondo e sfruttatore di popoli la cui ipocrisia è nota, il biscazziere delle fogne di Calcutta e, in alternativa, il chiassoso e gesticolante pelasgico italico dalla litania amorosa alternata allo sbavare è difficile immaginarsi l'esistenza di un Catone di Utica, di un Leonida, di un Arijuna, o anche solo di un cives romano, di uno spartiato o di un guerriero indiano comune.
Il pensiero sulla virilità correrà sempre prima alla degenerazione fallica tanto facile da riscontrare oggi che non alla trasfigurazione eroica. E il pensiero sull'agire sarà volto alla degenerazione moderna della brama e del bottino più che al vuoto interiore nella parte umana oltre cui vi è l'ascesi guerriera.
Tutto questo è accidente della vita ed è destinato a perdersi nei meandri del web.
Quanto rimane alla storia è l'essenza del personaggio. E per chiunque abbia conosciuto Chiara sui forum o in tempi meno "riflessivi", quando cioè la rapidità delle battute e degli argomenti rivelava il sentire immediato e non mediato dal procedere di ricordi e ragionamenti (nonchè di influenze culturali) sarà parso evidente un sentire diverso e assai più fieramente e nobilmente guerriero in senso classico.
Dai particolari minuti e perfetti si riconosce la grandezza del tutto. Espressioni immediate quali "ma quello è il ragioniere calcolatore, per me ci vuole chi sia disposto a gettarsi dalla rupe di Acapulco", o "che squallore gli abiti grigi e le macchine grigie, io amo ciò che è vivace e sgargiante" dimostrano il disprezzo per tutto quanto è pura conservazione, risparmio di sè, piccolo egoismo che prende e trattiene, mediocrità del sentimento, mediocrità dell'agire, mediocrità del vedere il bello e amore per quanto è invece autusuperamento, disposizione a spendersi senza indugio, grande egoismo che dona e che effonde, altezza di sentimento, grandezza dell'agire, forza e spudoratezza, oltre ogni limite umano e divino, nella bellezza. Questo, quando sincero, non può mai derivare da un sentire materno e conservativo, ma solo e soltanto da un sentire eroico. Dovrebbe ella solo capire che in un mondo appiattito sul materno sono proprio le eccezionalità come lei a perire nel tutto indistinto della grigia materialità senza luce. Ella, letteralmente, merita un mondo aristocratico, poichè sa cosa è nobile.
Ne sia conscia o meno, il suo sentire definisce "plebeo" chi tende alla mera conservazione di sè senza altro scopo, chi non vede oltre sè orizzonti lontani dall'illusioria felicità individuale e dalla patetica fuga dal dolore, chi crede di poter vivere e godere, come direbbero a Roma, "a sbafo", senza giustificarsi in senso superiore nemmeno innanzi alla vita stessa (ma accontentandosi di innocenza e piacere) e definisco invece "nobile" chi, al contrario, non si contenta di esistere in senso conservativo e individuale, ma brama di superarsi, di trascendere la dimensione individuale, di dare alla vita un senso superiore, di arricchirla di valori e significati più puri, più grandi, più nobili o comunque di generare qualcosa di superiore a sè.
Fosse anche solo per lei dovrebbero esistere gli Aristoi. La sua stessa esistenza come eccezione dal buio è prova della necessità che esistano o si generino uomini, dèi ed eroi.
L'anti-maschilità a parole di Chiara di Notte non è meno apparenza, agli occhi di chi sa vedere, oltre di quanto non lo sia la presunta "maschilità" di un mondo moderno materialista e mercantile, governato in realtà da principi femminili e tellurici totalmente antivirili nell'idea e nel fatto e nella propaganda, e in cui gli uomini sono soltanto roussovianamente "ciò che vogliono le donne" quando non, come avviene nella sfera privata, dei pupi manovrati da dietro le quinte dalle femmine.
Il sentire è destinato a prevalare sul pensare e ad informare questo secondo il proprio mito autofondante.
Se e quando Chiara vorrà prendere atto che essere una escort nel senso di perfezione in cui ella lo è, o lo è stata, è un "di più" rispetto all'essere una qualsiasi donna generatrice nel corpo (specie come sono attualmente certe pelasgiche italiane partorienti tutt'altri esseri dagli "uomini veri") e che essere il mito "Chiara di Notte" è ancora "un di più" rispetto all'essere una top escort, allora muterà sostanzialmente il proprio pensiero matrilineare di indifferenza. Se e quando Chiara vedrà che la differerenza qualitativa e ascendente supera sempre quella determinata dalla vita puramente conservativa e corporea e, come l'escortismo è qualitativamente diverso se interpretato da certe "shampiste" o da sacerdotesse di Venere per divina elezione, così il mondo è qualitativamente diverso se retto da una classe "democratica" mercantile tutta "profitto e denaro" o da una casta aristocratica e guerriera tutta "sangue e onore", allora muterà parere anche sulle vere "società di uomini".
Sarebbe allora, quella di Chiara, notturna come la luna, l'ultima e magnifica trasformazione della deità olimpica: l'Artemide materna e tellurica delle civiltà mediterranee si muterebbe nell'Artemide celeste e uranica delle genti eroiche, simbolo della purità quale valore metafisico.
Se anche tutto ciò non dovesse avvenire mai e la turba di uomini senza legge che la attaccano o il gregge di uomini senza valore che la circondano dovessero invece rafforzare quei pensieri che nascondono il suo sentire ciò non sarà mai motivo sufficiente per considerarla appartenente al campo avverso la vera e solare virilità. Solo i figli del materialismo marxista (quando, come quel simpatico di Giubizza, tentano di frenare sul versante femminista la valanga causata dalla loro stessa visione del mondo) possono giudicarla "nemica degli uomini", e proprio perchè non sanno davvero "chi è l'uomo", confondendolo con la sua parte puramente vegetativa e conservativa, non spirituale e neppure naturale in senso nietzscheano e ascendente.

VI. ANTIMODERNI PERCHE' POSTMODERNI (con finale preso in prestito dall'articolo capolavoro di Adriano Scianca "Come si può essere postmoderni"?)
Coloro i quali vogliono la ri-generazione di un mondo di dèi e non di bestie devono avere fede nel fatto che, come gli dei stessi si trasformano e si rigenerano, come dalla testa di Zeus nacque Atena, così anche dal web può sorgere una divinità femminile non dell'oscurità e della paura incapacitante del materno tellurico, ma della gloria e della luce. Solo dalla conoscenza della possibilità di simili mutamenti "non umani" si trae la forza per combattere la sovversione e la decadenza dell'ultima fase del ciclo (l'Eta oscura), propiziando una nuova età radiosa, capace nuovamente di riconoscere al di là del divenire banalmente biologico e del materialismo egalitario, i valori superiori dell'esistenza, la loro incarnazione umana, la casta, il loro sostegno, la legge tradizionale, il loro simbolo terreno, l'impero.

All'obiezione che non esistano criteri oggettivi per stabilire chi è il migliore e chi deve costituire l'aristocrazia guerriera Nietzsche risponderebbe che già una volta la "sapienza della vita", come mostra ad esempio il "Codice di Manu", è stata in grado di stabilirlo meglio di tutti i matematici, di tutti i filosofi socratici, di tutti i signori socialisti, e se persino gli animali, quando devono ordinare le loro società, sanno sentire, al di là del bene e del male in senso morale e delle dimostrazioni in senso razionale, cosa "è bene" per la vita ascendente, devono saperlo gli uomini che vogliano ancora essere vivi. All'ulteriore obiezione secondo cui tali sistemi sarebbero "ingiusti", negatori della "libertà umana" e fondati sulla "bruta forza", Evola, risponderebbe, avendo testimone la Storia, che proprio lo stato moderno ha sempre più bisogno della coercizione e della forza al suo interno per reprimere il dissenso nascente da un sistema umano e troppo umano di gestione del potere e della ricchezza e di disuguaglianze non fondate su differenze qualitative e finalità anagogiche, mentre gli stati tradizionali, reggendosi sull'autorità e sul fine anagogico, potevano resistere per millenni senza avere i mezzi di controllo e repressione degli stati moderni e che civiltà millenarie capaci di ogni grandezza spirituale, etica nonchè storica, prima della sovversione egalitaria iniziata con il cristianesimo e proseguita dalle varie rivoluzioni borghesi, socialiste e femministe, sono esistite secondo "verità e giustizia" e permettendo ad ognuno, all'interno dell'ordine organico, di compiere la propria natura (vero concetto di Libertà) senza che una setta di giudei rinnegati, un Kant, un Hegel con le femministe che ne conseguono dovessero spiegare cosa fossero la libertà e la giustizia.

Gli irriducibili egalitari sono soliti qui scendere alla bassezza di asserire che tali civiltà superiori o non siano esistite o siano esistite solo nella penna dei poeti, o, se esistite nella storia, siano state altro da quanto le "favole mitopoietiche" di Nietzsche o di Evola volessero, in età moderna, far credere.

Mi si deve spiegare come allora, tanto per rimanere a quanto è conoscibile in Italia, sia possibile per quel demagogo di Veltroni o per quel traditore di Alemanno continuare a posare i loro deretani su allori, monumenti, opere e gesta prodotte da semplici "favole", o per legulei e saltimbanchi giudiziari fondare le loro uniche certezze di diritto su un "sistema di invenzioni mitopoietiche posticce".
Possono "invenzioni moderne arbitrarie" costruire fondamenta per imperii millenari e concezioni durature del diritto? Può, in genere, quanto è frutto di un effimero individuo essere lo sfondo cosmico da cui nascono gli dèi e le visioni del mondo per cui vivono, operano e si sacrificano generazioni e generazioni di uomini producendo architetture dell'arte e del pensiero, della materia e dello spirito, ancora palpabili, udibili, visibili pur nel disordine attuale?
Per chiunque non sia cieco appare chiaro che non solo sono esistiti uomini assai diversi da quelli odierni, non solo sono esistiti uomini capaci di creare opere di potenza, maestà e durata, non solo sono esistiti gli eroi, i forti, gli uomini virtuosi in grado di sentire il nobile, il bello e l'eroico e di subordinare a ciò ogni azione e ogni pensiero, ma sono esistiti interi popoli di eroi, di forti e di virtuosi, interi popoli in cui i valori eroici, i valori affermativi della forza e la virtù guerriera e civica costituivano il principio unificatore e il criterio di gerarchia, di autorità e di potere sacrale. La Roma Repubblicana, la Grecia di Omero, l'India vedica e la Persia iranica non sono invenzioni di Evola o di Nietzsche o favole antiche per fanciullo: sono realtà storiche (anzi, meta-storiche) verificabili sia tramite le espressioni di grandezza, bellezza e forza ancora tangibili, sia attraverso quella visione del mondo, diffusa anche in epoche buie come la nostra tramite l'epica, disprezzabile per taluni (specie se vili e "intellettuali"), ma non disconoscibile per nessuno, che permette di concepire le gesta di un Achille, di un Ettore, di un Romolo, di uno Scipione, di un Cesare, di un Alessandro, quali non semplici episodi transeunti ma quali azioni immortali fondatrici di civiltà e di senso superiore del vivere, e che ancora oggi rappresenta la quintessenza di quanto vive, risplende e trascina verso l'alto, al di là e al di sopra della materia bruta, della vita solamente vegetativa, della caducità di ogni corpo e di ogni legge umana e troppo umana, di ogni criteri infero dell'utile e del tempo. Anche qui è il fatto di vedere e di sentire tutto ciò a testimoniare e il suo valore e le differenze di valore fra uomini.
Favola, invenzione e falsi miti escogitati dal nulla da esegeti pantofolai sono invece la credenza nell'uguaglianza degli uomini, la visione della storia quale progresso lineare, il mito della scienza come verità superiore, la cieca e puerile fede nella non esistenza di dimensioni della realtà altre da quelle percepibili dai sensi o banalmente dimostrabili per tutti e concepibili da tutti. Sono stati tali "esegeti" egalitari a distruggere quanto rimaneve di un mondo superiore e a degenerare l'umanità ad un livello tale da farle apparire impossibile ogni altra realtà da quella brutalmente materiale e transeunte e ogni tipo umano diverso da quello del mercante e dello schiavo.

Che cosa e’ l’umanita’ odierna? Una ciurma di briganti e di ammutinati (capeggiata da bucanieri affamati di bottino, peraltro realmente discendenti dei pirati e dei predoni patentati dal cosiddetto "impero britannico") che, dopo aver ammazzato a tradimento i legittimi comandanti e i sapienti timonieri va alla deriva della storia, in balia di tutti i flutti e fra le peggiori ingiustizie, credendo di navigare verso le isole felici del progresso, del benessere e della pace perpetua.

Non si creda che questo sia il solito panegirico reazionario di chi da una torre d'avorio lancia sterili invettive verso un mondo girato dall'altra parte: l'anima futurista di chi scrive non è morta e la ragione sovrumanista sa che il tempo è una sfera, l'uomo decide in ogni momento in ciascuna delle tre direzioni il proprio divenire storico e curvo è il sentire dell'eternità. Il naturale diritto delle genti eroiche non è un punto di arrivo da contemplare placidamente nel passato, ma un punto di partenza da cui muovere nell'attualità, per mirarlo da prospettive sempre nuove in grado di fungere da meta e modello per il futuro. Innanzi ad una modernità che sta esplodendo nelle sue contraddizioni egalitarie, nel suo promuovere l'uguaglianza nelle parole e nel suo incrementare differenze ingiustificate nei fatti dell'economia, nel suo promuovere la pace perpetua e nel suo generare continue guerre democratiche, nel suo promettere benessere e tranquillità e nel suo impedira all'uomo normale di vivere appagato e felice anche solo nei suoi bisogni naturali di bellezza e di piacere, nel suo parlare di amore universale e nel suo accrescere minuziosamente e sistematicamente l'odio fra i sessi, le generazioni, i popoli (si pensi allo "scontro di civiltà" tramite cui si vogliono mettere gli europei contro gli asiatici), nel suo parlare di libertà e nel suo introdurre (con la scusa del terrorismo o della lotta al razzismo) leggi liberticide per il pensiero, per il viaggiare, per il diritto all'habeas corpus (abolito, anzi sospeso, da Bush), nel suo ciarlare di scienza risolutrice dei problemi umani e nel produrre attraverso la scienza armi, strumenti comuni e sistemi di controllo contrari ad ogni libertà, ad ogni natura e ad ogni vita, è preciso dovere di ogni sovrumanista (e quindi anti-egalitario) insinuare nelle crepe già aperte il proprio grimaldello per provocare la rottura definitiva. "Dalla nuova barbarie la nuova civiltà" diceva Nietzsche. E il discepolo Adriano Scianca, quasi a proseguire la mia metafora marittima, aggiunge: "imbarcati sul titanic, abbiamo fino ad oggi giocato ad essere le scialuppe di salvataggio: e se finalmente provassimo ad essere iceberg?"

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24 Comments:

At Pazartesi, Temmuz 28, 2008 10:04:00 ÖS, Anonymous Adsız said...

Caro Sultano,
torno necessariamente con la sferza.
Sai bene che anche a me bruciano gli occhi sino a lacrimare travolti dal denso fumo del sub/disumano che ci sorride intorno pasciuto e innocente.
Ma l' "oltre", la luce che deve squarciare i nuvoloni che sciocchi ci circondano, deve essere meglio definito e pensato.
Arrivo subito al nodo.

Il "sentire, al di là del bene e del male in senso morale e delle dimostrazioni in senso razionale, cosa "è bene" per la vita ascendente", non ci basta e non ci soddisfa più.
Affrontando la profonda natura filosofica del problema, rispondo a te come se dovessi rispondenre a quello spirito che tanto fu affascinato dalla Mole Antonelliana.
L'esaltazione della sofistica e della forza che onestamente essa pone come "criterio", "facoltà di giudizio", non sfugge in alcun modo alla forza omogeneizzante,a quella violentissima "mancanza di differenza" che si rabbuia in sterile ed uniforme eleatismo. La forza si muove sullo stesso livello di ciò in rapporto a cui essa si dimostra tale. La forza è opportunismo in "un" mondo in cui i punti di vista sono resi genericamente equipollenti. La sofistica ce l'abbiamo sotto agli occhi (di qui anche le contraddizioni che rilevi).

Attento a Kant, caro Sultano. Non leggerlo attraverso chi non l'ha saputo leggere. Non dissimularlo tra Hegel e Marx. Proprio la filosofia trascendentale, colta nel momento della sua scaturigine prima è il nostro punto di partenza, il punto di discrimine. Lasciamo ormai ad altri, ai mediocri Luciani e simili, le "constatazioni" e i dialoghi con le meretrici.
Non Dioniso, ma Apollo è il nostro dio, l'enigma che ironico ci sfida a prezzo della vita.

Kefiso.

 
At Pazar, Ağustos 10, 2008 5:51:00 ÖS, Blogger michail tal said...

Un pezzo magnifico non c'è altro da aggiungere.



C'è un'impostazione ed una sensibilità di fondo che apprezzo in voi.

La vostra estetica esistenziale se mi concedete il termine, insieme all' esigenza e al senso dell'ordine cosmico appartengono anche a me.



Divergo pero' su diverse questioni diciamo "contingenti" .



Per certi verso io ho avuto un percorso formativo / politico opposto al vostro. Non staro' qui a tediarvi raccontandovelo.



Diversi temi trattati suscitano il mio interesse.

Uno ad esempio che mi ero scordato di segnalarvi nella vostra precedente risposta era quello della tecnologia. E qui mi rende felice sapervi ingegnere.

Tempo fa lessi un libro di Umberto Galimberti che apprezzai molto, Psiche e Techne, che dovrebbe raccogliere la summa della sua riflessione.

Un paio di amici miei che si interessano di filosofia storcono un po' il naso a quel nome, lo trovano un po' troppo da rotocalco.



Io lo apprezzo, se non altro per aver messo in luce un certo pensiero sul rapporto uomo / tecnica. Non è tutta farina del suo sacco, la sua è una riformulazione ed una interpretazione del pensiero di Severino, il quale a sua volta riprende Heidegger, che tra l'altro mi piacerebbe approfondire.



Il succo del discorso è che la crescita abnorme dell'apparato tecnico ci pone in una condizione non piu' di artefici, ma di meri funzionari delle macchine.

TUTTO è sottomesso alla tecnica, e l'uomo, evolutosi in delle ere in cui il rapporto era invertito, ora vive (senza saperlo) un profondo disagio perchè le categorie analitiche ed esistenziali con le quali era abituato a leggere il mondo sono ormai obsolete. E non sono state sostituite da null'altro se non la ricerca della funzionalità tecnica.

Tecnica che, di per se', non ha alcun fine se non quello di FUNZIONARE ed accrescersi quantitativamente.

Un tema interessante e trasversale alle vostre riflessioni.



Due aspetti non ho mai condiviso col pensiero della destra radicale.

Il primo è il culto della comunità nella classica contrapposizione sociologica città/comunità intesa come dualismo fra: vita ancorata alla tradizione immutabile degli avi e individualità atomistica isolata.



Io ho passato 12 anni della mia vita in una cosiddetta comunità. So cosa vuol dire vivere in un paesino di campagna di 2500 abitanti.

Inutile vagheggiare della terra di mezzo, la dimensione "comunitaria" è spesso fucina di ottundiemento del pensiero, mediocrità, invidie e pochezza spirituale e intellettuale.

E' solo nella solitudine che si puo' sperare di costruire un'individualità forte, autonoma, indipendente.

Una solitudine dove pero' sei tu a scegliere i tuoi compagni di viaggio, senza dover essere confinati entro gli angusti spazi del quartiere o del paese.

Viva la città dunque.



E qui veniamo a parlare della questione della differenziazione e dell'omogeneizzazione culturale, e qui il secondo aspetto.

Viviamo in società ormai multietniche. Tante razze, tante differenze, nessuna differenza. Conosco quell'equazione.



Il problema dell'omologazione culturale esiste, è concreto, ma la sua causa non sta nella vicinanza di piu' razze.

Sono un sostenitore dell'eugenetica e credo che ogni incrocio biologico sia altamente opportuno. Rafforza la razza dandole vigore e bellezza.

Io stesso sono un incrocio fra un italiano ed una slava. Non è mai stato un impedimento anzi, al limite ha solo ingenerato invidia.



Interessante l'idea per cui alla perfezione si giunga tramite sotttrazione e non attraverso il contatto ed il dialogo. Era anche questo che intendevo dire a proposito del modo di relazionarci in rete. Tuttavia ho sempre creduto fermamente che la vicinanza e il contatto con chi è, o riteniamo essere migliore di noi non possa che giovarci. Ovvio che prima di tutto chi è migliore di noi vada riconosciuto e accettato senza invidie ma con l'umiltà di chi sa riconoscere "il piu' alto" di se', e questa capacità ci è stata inibita dal cristianesimo, che volendoci tutti uguali non ha fatto altro che dare battesimo al sentimento odioso dell'invidia, quella dei meschini.

In relazione a cio' ritengo che l'educazione dei fanciulli sia fondamentale per formare uomini e donne forti e capaci di prendersi quelle responsabilità di cui parlavate, e questo a prescindere dalla loro razza o provenienza. Per questo sono sempre stato diffidente verso chi professa dottrine razziste. Lo spirito alto non conosce colori. Nonostante ciò se me lo indicherete saro' ben felice di leggere il blog della Valerio. Mi sembra un personaggio piuttosto unico nel suo genere.



Grazie mille

 
At Çarşamba, Ağustos 27, 2008 10:44:00 ÖS, Blogger Beyazid II Ottomano - Sultano di Costantinopoli said...

L'amore per la chiarezza è senz'altro apollineo.
La pretesa di vedere chiaro prima del tempo è però un peccato contro gli dèi.

Come nella metafisica tradizionale quanto appartiene al divino non può essere spiegato e dimostrato per le vie bassamente umane, ma soltanto mostrato a chi sa prendere le vie dell'ascesi,
così "nell'antimetafisica nietzscheana" (le virgolette sono d'obbligo) quanto è oltre l'umano non può in nessun caso essere chiaro e definito a priori (se così fosse non sarebbe oltre ma soltanto umano e troppo umano), bensì solamente percepito come necessario da chi per esso è nato (e infatti, sia detto per inciso, noi lo percepiamo, altrimenti non saremmo qui a parlarne).
Chi ha ammirato la Mole Antonelliana può al massimo indicare la via per raggiungere tale dimensione superiore, ma sarebbe un impostore se si vantasse di poterla descrivere compiutamente. Bisogna prima compierla.
Ecco il senso del divenire ciò che si è. L'aquilotto non si chiede se sia giusto volare e in cosa esattamente consista: inizia a volare perchè andare oltre la terra è la sua natura.

Non credo che i Greci o i Romani, e neppure gli epigoni dell'India dei Veda e della Persia iranica, conoscessero a priori con chiarezza il loro "oltre". Lo hanno però compiuto (e, come scrive Nietzsche, "i Greci forse non si sono resi conto appieno di cosa davvero hanno fatto").

Si abbattano pure anche su di me tutte le critiche alla "irrazionale vaghezza" e alla "imprecisa definizione" del "progetto nietzscheano". Tali critiche sono per me infondate. Il forzato paragone infatti (tipicamente illuminista e progressista) dell'oltreumano con un progetto, il quale può e deve essere chiaro a priori ancora prima della realizzazione, non regge. Nel progettare cose umane è implicita una facoltà in grado di cum-prendere la logica della cosa progettata, mentre qui stiamo parlando di qualcosa che deve inventare un nuovo logos. E' come dover generare non solo l'opera, ma anche la capacità di costruirla. Un oltreumano che possa essere progettato e definito da qualcosa di umano senza implicare un cambio qualitativo nell'umano stesso che oltreumano è?
La nostra situazione è piuttosto simile a quella di uno scalatore il quale, sentendo come necessario compimento di sè il raggiungere una vetta inviolata, cerchi per prima cosa il sentiero di salita, senza pretendere di conoscere anticipatamente e nel dettaglio il panorama di cui potrà godere una volta salito. Egli sa che per il fatto stesso di essere il panorama di una vetta sarà magnifico e sa anche che non può fare previsioni sul se e sul quando giungerà alla cima, giacchè per giungervi deve superarsi nelle proprie stesse forze. Solo per le cime già raggiunte da altri si possono fare programmi e definire dettagli. E così solo in quanto è già troppo umano si possono fare progetti e avere definizioni. L'oltre-umano è quella cima non mai violata il cui panorame non è mai stato veduto.

La visuale dall'alto del mondo può apparire evidente solo a chi ha le doti e la volontà per scalare il monte, e solo dopo che lo ha fatto. Solo allora appaiono chiare le valli, i fiumi, i monti e i villaggi: chi racconta di vedere tutto prima di salire o pretende che tutto debba essere chiaro anche per chi non può e non vuole salire è un mendace. Per questo diffido oggi dei filosofi troppo "nemici dei fumi".
Il cammino verso la vetta dell'oltreumano è appena all'inizio, e forse proprio perchè siamo entrati nel fitto del bosco l'era appare oscura. E sarà magari necessario camminare anche in mezzo alle nuvole per certi tratti ad altezze intermedie. L'importante è però sentire come necessaria, per salire e giungere nel regno delle rocce e dei ghiacci su cui splenderà il sole, la via che Fritz ci ha indicato, che è poi la stessa già nominata un tempo dal sempre troppo sottovalutato Giambattista Vico quale "naturale diritto delle genti eroiche".

E qui interviene la contro-obiezione.
Come non esiste l'universale "uomo", non esiste nemmeno l'universale "forza".
Uomini diversi non sono equivalenti. Forze diverse non sono equipollenti. Come l'uomo può tanto appartenere al tipo inferiore "da gregge" e favorire la vita decadente quanto essere del tipo superiore "da preda" e tendere alla vita ascendente, così la forza può essere formatrice e può essere distruttrice. Esistono in filosofia come in fisica forze che contribuiscono a creare un maggior significato, una maggiore "bellezza", un maggiore valore (in fisica sarebbe una condizione di minore entropia e maggiore energia potenziale) e forze che aiutano invece la degradazione a stati di insignificanza, indifferenza, banalità (per parlare in termini scientifici, maggior entropia e minore energia potenziale).
Poichè quanto avviene "lasciando che le cose vadano" è la degenerazione ad uno stato di indifferenza, tanto nel mondo umano quanto nel mondo fisico (morte della materia, degradazione dell'energia, eccetera) amare la forza è necessario a chi preferisce il kosmos al chaos, giacchè solo se esiste una violenza formatrice in principio, in grado di generarlo, e forze sostenitrici in seguito, in grado di sostenerlo, può esistere un ordine comprendente valori, bellezze e significati superiori al tutto indistinto, omogeneo ed entropico.

Liquidando come fastidiosi attriti tutte quelle forze che davvero sono "opportunistiche" (ed oggi, ahimè, sono la maggioranza, tanto da indurre molti a rigettare il concetto stesso di forza) e come forze del caos quelle che accelerano l'aumento d'entropia e l'appiattimento allo stato più omogeneo e meno energetico (uno stato comunque destinato a verificarsi se nessuno interviene), posso concludere che se non tutto ciò che è violento è creatore di valore, significato e bellezza (vi certo sono la violenza nichilista, la furia distruttrice, e la cieca brutalità), tutto ciò che ha valore, significato e bellezza DEVE essere violento nel senso più pieno della parola derivante da vis-roboris (e quindi anche, non a caso, saldezza, pianta con radici, fondamento di civiltà).
Come ha capito Giorgio Colli, Apollo è un dio di violenza: la violenza che appare come bellezza.

Quanto a Kant, egli si è escluso da solo dalla mia attenzione: chiamando "fumo" la metafisica non ha fatto altro che ridurre il concetto di reale a quanto è perfettamente descrivibile secondo i criteri inferi dell'utile e del tempo su cui Marx ha fedelmente e coerentemente costruito la sua "storia". Probabilmente l'idea di Kant era diversa, ma ciò non toglie che sia stato lui a "castrare" il pensiero occidentale. Anche per il buon cittadino di Konigsberg vale (in negativo) il detto di prima: "non si è reso conto di quanto ha fatto".
Quanto al fatto che anche Nietzsche possa essere considerato "antimetafisico", vale quale obiezione l'evidenza di come il concetto stesso di "vita ascendente" svolga nel suo pensiero tutte e sole le funzione di una formale e verissima metafisica. Probabilmente la constatazione dell'impossibilità di restaurare un ordine già decaduto ha convinto Nietzsche a "dare una spinta a quanto stava per cadere", ad abbandonare ogni metafisica tradizionale e a ritornare ad uno sfondo cosmico primigenio da cui rigenerare gli stessi dèi, come già avvenne agli albori delle civiltà indoeuropee. Questo è per me il "motivo" dell'eterno ritorno dell'uguale, del passato che, in una concezione sferica del tempo, cambia continuamente e funge da meta e modello per il futuro.

Sono d'accordo con voi: Apollo è il nostro dio, un dio iperboreo, noto a tutte le genti eroiche, ma come farà a veder costruito o restaurato un proprio ordine se i suoi figli e le sue stirpi, rinnegato ogni senso del nobile, del grande e dell'eroico, si estingueranno riassorbiti nel magma umano che ha nome cosmopolitismo?

BUONE VACANZE DALLA SUBLIME PORTA

P.S.
Per me la frase "lasciar perdere i dialoghi con le meretrici" ha lo stesso valore di "lasciar perdere i dialoghi con gli ingegneri". Vivendo in un'era mercantile, il mestiere con cui provvediamo alle necessità corporali non sempre identifica le necessità spirituali. Come vi possono essere alti spiriti fra chi bene o male fa commercio con il mondo del capitale e del lavoro, così vi possono essere anime belle fra chi fa commercio dell'amore sessuale. Non riesco neanche volendo a crearmi un pregiudizio contro le meretrici peggiore di quello contro i miei colleghi, almeno oggi che ogni ordine cosmico è saltato.

 
At Perşembe, Ağustos 28, 2008 9:10:00 ÖÖ, Blogger michail tal said...

Buongiorno sULTANO

Non voglio essere pedante, solo capire. Un mesetto addietro vi avevo lasciato una modesta risposta che non avete pubblicato. Sono forse stato in qualche modo sgarbato o ho scritto qualcosa di inappropriato, o il tenore delle argomentazioni era troppo basso?

grazie

 
At Cumartesi, Ağustos 30, 2008 3:10:00 ÖS, Blogger Beyazid II Ottomano - Sultano di Costantinopoli said...

Messer Tal, scusate voi.
Il vostro tono era tanto garbato e gli argomenti tanto alti che devo ancora completare una adeguata risposta alla vostra domanda (in genere pubblico assieme domanda e risposta).
Sono tornato solo mercoledì dalle montagne (dopo un mese esatto), trovando, diversi messaggi a cui sto cercando di rispondere. Procedendo in ordine cronologico, ho risposto immediatamente al primo messaggio di messer Kefiso, poi gli impegni mi hanno impedito di rispondere subito a voi.

Pur consapevole che "perder tempo a chi più sa più spiace" vi chiedo di pazientare ancora un giorno.

SALUTI DALLA SUBLIME PORTA

 
At Pazar, Ağustos 31, 2008 1:31:00 ÖS, Blogger Beyazid II Ottomano - Sultano di Costantinopoli said...

Carissimo Messer Tal,
mentre preparavo la risposta a voi mi sono reso conto a metà dell'opera che i temi da voi toccati sono troppo profondi ed alti (come ho appena letto in un forum, altezza e profondità sono della stessa natura) per meritare di essere condensati a piè pagina in uno striminzito commento.
Mi riservo dunque (e vi prometto) di completare ed ampliare la risposta che sto preparando sino a farne il motivo di un nuovo post.
Se avrete la pazienza di aspettare ancora mi farò perdonare del ritardo.
Del resto capirete che quando si torna dalle Feriae Augustii, se non si coglie proprio la prima ora di ritorno a casa (come nel caso della risposta a Kefiso), il carico di lavoro "mercantile" accumulato restringe ahi lasso i tempi della cultura.
Piuttosto che rispondere in fretta e superficialmente, come spesso è d'obbligo fare nei forum di botta e risposta, rimpiangendo poi di non aver detto di più e meglio, preferisco farmi attendere ma poter esporre gli argomenti in maniera organica ed esaustiva.

Non sono Nietzsche, che poteva rispondere con un epigramma a questioni millenarie e cruciali. La formazione analitica mi ha forse segnato.....

SALUTI DALLA SUBLIME PORTA

 
At Pazar, Ağustos 31, 2008 10:49:00 ÖS, Blogger Rocky Joe said...

Direi che "Chiara" è uno strano nome per un sultano del mediterraneo. Vabbe', a parte questo vorrei fare alcune considerazioni sul tuo scritto.
Secondo me quando si parla di una presunta "nobiltà" e una presunta "plebe" si mette in mostra un certo malcontento che però fa fatica a ben definirsi, così ci si ripiega su una presunta età dell'oro che per noi occidentali viene spesso identificata con l'antica Grecia, non per altro ma perché magari ci sono giunte delle belle statue. Ma cosa è "nobile" veramente? Cosa è "plebeo"? Sono parole di per sé vuote che possono essere riempite a piacimento secondo i propri gusti. Il superuomo di Nietzsche non ci sarà mai non perché impossibile, ma semplicemente perché è una fantasia vacua di questo abile filosofo-attore che nessuna realtà potrà mai soddisfare. Si tratta solo di una versione della mitica promessa messianica di un'era futura che DEVE rimanere futura perché se dovesse realizzarsi finirebbe la speranza.
Secondo me le cose stanno molto più semplicemente. Voglio dire che ognuno pensa, vuole e persegue i cavoli suoi. Tutto qui. Ciò che ci serve è un apparato di governo che tuteli la piena libertà di tutti di pensare ai propri cavoli senza infastidire i cavoli altrui.
L'ugualitarismo, o la "sovversione egalitaria", come la chiami tu, credo sia una conseguenza e non certo la causa dei "mali" del mondo (ma non si doveva andare "al di là del bene e del male"?). Ma in ogni modo le dottrine "egalitarie" sono una stupidaggine, ogni uomo è fatto a modo suo, ciò però non vuol dire che esistano uomini "superiori" e uomini "inferiori", anche per il semplice fatto che "superiore" e "inferiore" sono nostre finzioni linguistiche che nulla hanno di reale. In definitiva io sostituirei il concetto di "democrazia" con quello di "buon senso". O magari, come affermò Churchill, "la democrazia è il peggior metodo di governo esclusi tutti gli altri", uan sorta di "male minore", insomma.
Quando Nietzsche il birbantello esaltava la schiavitù mi viene la curiosità di sapere se lui si fosse fatto avanti per primo come schiavo. Chissà come se la sarebbe caverta a zappare la terra dalla mattina alla sera, lui che viveva tranquillo con un sussidio datogli dall'Università di Basilea. Ma chi, come la stragrande maggioranza dell'Umanità, questo sussidio non ce l'ha? E qui mi sovviene il motto "Son tutti gay col culo degli altri"...
Ti faccio i miei complimenti per lo scritto però ti prego di non mischiarmi più coi marxisisti.
Grazie e un salutone
Peppe

 
At Salı, Eylül 02, 2008 2:16:00 ÖS, Blogger Beyazid II Ottomano - Sultano di Costantinopoli said...

Messer Giubizza,
a quanto pare solo una diretta e opportuna (ma non velenosa, ve lo assicuro) frecciata vi può svegliare dal letargo internettiano. La vostra rinomata verve dialettica e creativa si è però un po’ appannata. Le vostre argomentazioni mi paiono tanto prevedibili quasi quanto quelle delle femministe che (giustamente) combattete. Oltre che meno originale siete anche divenuto meno attento. Il Giubizza dei tempi migliori avrebbe spulciato i commenti ai post, scoprendo come io abbia dato la definizione di nobile e di plebeo in maniera tutt’altro che vaga o vuota.

“Io definisco "plebeo" chi tende alla mera conservazione di sè senza altro scopo, chi non vede oltre sè orizzonti lontani dall'illusoria felicità individuale e dalla patetica fuga dal dolore, chi crede di poter vivere e godere, come direbbero a Roma, "a sbafo", senza giustificarsi in senso superiore nemmeno innanzi alla vita stessa (ma accontentandosi di innocenza e piacere) e definisco invece "nobile" chi, al contrario, non si contenta di esistere in senso conservativo e individuale, ma brama di superarsi, di trascendere la dimensione individuale, di dare alla vita un senso superiore, di arricchirla di valori e significati più puri, più grandi, più nobili (i quali non possono però ovviamente fondarsi su quanto, come la collettività o la mera appartenenza alla stessa specie attiene ad una sfera qualitativamente inferiore a quella individuale, o, peggio, su quanto, come la compassione per i deboli e la volontà di uguaglianza anche con i maltiusciti, o gli infimi sotto ogni aspetto, deriva dalla mediocrità e dalla mancanza di forza, discernimento e distinzione, e rappresenta lo scivolare verso un gradino inferiore di esistenza) o comunque di generare qualcosa di superiore a sè.
Che poi i plebei giustifichino filosoficamente il proprio essere con intelligenza e abilità, con utilità materiali, o con culture fondate sul mito dell'uguaglianza, sulla religione della compassione o sul sentimento di soliderietà verso l'uomo indifferenziato e verso il livellamento, all'insegna di un benessere materiale da bestiame bovino o di una condizione di pace, sicurezza, pietismo e amore indifferenziati degne del sabato dei sabati sognato da deboli e da mediocri diseredati dalla vita, non cambia nulla.
E non cambia neanche in maniera troppo decisiva che tale dimensione superiore sia, come sostengono i metafisici, esistente in maniera oggettiva e debba essere dagli individui raggiunta tramite gli atti puri di guerra e ascesi, ovvero che, come predica Nietzsche, debba invece essere creata dalla volontà di potenza di individui già in partenza, per forza e rettitudine di istinto, superiori.
Ancora una volta il sentire vale più del pensare.
Non è neppure troppo rilevante che gli aristocratici siano in grado o meno di formulare il loro sentire in un pensiero coerente, sistematico o sonoro: contano le azioni e ciò che vi è dietro di esse.”


Anche la poesia può apparire, soprattutto oggi, un concetto vuoto e riempibile a capriccio dal primo venuto, ma ciò non nega né cancella l’esistenza del Poetico, a prescindere da quanto riconoscimento abbia nelle masse o nella sedicente “intellighenzia”. Qualunque scribacchino può in effetti porre insieme parole e frasi andando a capo ogni tanto e dire di aver composto una poesia pari alle terzine di Dante, ma ciò non pone affatto in dubbio la divinità della Commedia dantesca (insita nella visione cosmica che traspare dai versi agli occhi addestrati a vedere), bensì qualifica lo scribacchino come superbo e imbecille sprofondato nella propria soggettività, incapace di elevarsi alle cose “necessarie, universali, perpetue”, o comunque inadatto alla poesia.

Il significato con cui si riempiono in me i termini di “nobiltà” e di “plebe” non sono affatto frutto del mio arbitrio o dell’arbitrio di Nietzsche o di chiunque altro in particolare, bensì derivano da quanto può ben essere estratto con economia di principi da un’osservazione non borghesemente distorta della vita (non “lotta per la sopravvivenza” con effetto accessorio, esterno e casuale di una “evoluzione”, come è portato a pensare chi come Darwin proviene da ceti umili passati dal conoscere soltanto la fatica del vivere al primato sociale grazie ad una competizione basata sul caso, l’adattamento, lo sfruttamento, l’imposizione dei criteri mercantili, la negazione di ogni valore intrinseco, originario e superiore, ma “lotta per l’affermazione, l’accrescimento, la potenza, l’autosuperamento, la continua generazione verso l’alto”, ossia direttamente e necessariamente “tensione verso forme di vita sempre superiori”, come sa chi è aristocratico, nel senso primigenio della disposizione innata a sacrificare persino il miglior sé pur di generare qualcosa a sé superiore) e, se proprio si detesta qualsiasi riferimento “vitalistico” (persino Evola, forse a torto, forse no, lo detestava) da quanto accumuna la Kultur dei popoli indoeuropei, simboleggiabile in quella ciò che il vostro illustre concittadino (non a caso ormai cancellato dall’insegnamento scolastico “egalitario”) Giambattista Vico ebbe a chiamare “naturale diritto delle genti eroiche”. I popoli indoeuropei, i quali non si riconducono ai soli Elleni tanto amati da Nietzsche, ma comprendono pure i Romani (almeno prima del miscuglio con l’oriente), i Persiani, gli Indo-germani non sono certo importanti “per qualche bella statua” (confondere le espressioni esteriori della Zivilisation, assolutamente estrinseche e importabili da un popolo all’altro, con quelle identità di sangue e spirito costituenti la Kultur è proprio di chi o non vede o vuole annebbiare la questione di fondo: “”), ma per la particolare visione del mondo che hanno saputo generare, ovvero per il senso che in essi prende ogni espressione dell’arte, della guerra, della tecnologia, della politica, della letteratura e del mito (se proprio vogliamo fermarci alle statue, il fatto di rappresentare gli dèi al contrario di quanto avviene, con parziale e non sempre verificata eccezione di un certo cristianesimo, nelle religione derivate dal “libro”, testimonia quanto proprio di ogni religione cosmica rispetto a quelle della “creazione ex nihilo”, ossia un senso del divino presente non in un “altro mondo” innanzi a cui tutto qui è cenere o nulla e al nulla destinato a tornare, ma in questo mondo quale principio superiore e ordinatore, e la perfezione splendente dei corpo statuari e immortali simboleggia la forza vittoriosa e solare del dell’Apollo dio iperboreo il quale con una violenza formatrice paragonabile a quella del martello dell’artista sul marmo fa passare l’uomo e il mondo dal tutto indistinto alle identità differenziate, dall’informe al delineato, dall’anarchia alla gerarchia, dal fluire insensato alla forma sensata, dal chaos al kosmos: ecco perché parlavo con Kefiso, riprendendo peraltro Colli, di “violenza che appare come bellezza”).
Piaccia o meno, sia permesso o meno di raccontarlo, sono i popoli indoeuropei, al tempo della rivoluzione neolitica, a trasformare il primo uomo (l’uomo naturale, delle società di cacciatori e raccoglitori, replicante se stesso e le stesse strutture per milioni di anni come le altre speci animali, o anche, a seconda delle opinioni storiche, di quelle società capaci di inventare elementi oggi classificati dagli storici come segno di civiltà, ma incapaci di includerli in un senso superiore trasformatore della struttura sociale e mentale in senso propriamente storico; la celebre battuta di Sid Caesar, “chi ha inventato la ruota era un imbecille, è chi ha inventato le altre tre ad essere un genio”, può essere molto più di un ridere da cabaret, se pensiamo a come i Sumeri abbiano inventato la ruota, ma solo a saperla usare nel carro per creare ed imporre una nuova visione del mondo e una nuova struttura sociale sono stati gli Ittiti, avanguardia indoeuropea bollata dalle maestrie della scuola egalitaria e dagli antifascisti crociani quale “simbolo di barbaria e distruzione” ma in realtà soltanto simbolo dell’incapacità del mondo moderno di riconoscere come la violenza, nel senso latino di vis-roboris, possa essere formatrice di civiltà e come Nietzsche non fosse certo attore quando diceva “i creatori sono duri”) nel secondo uomo, l’uomo storico, a far entrare insomma l’uomo nella storia.
E oggi che questa fase si sta chiudendo e non rimane alcuna terza via fra la fine della storia e la rigenerazione di essa diviene non nostalgia del passato ma necessità del futuro riprendere l’essenza della mitologia indoeuropea, sempre che si sia capito qualcosa della visione sferica del tempo (certo: se si è ammesso sferico lo spazio non si vede perché non si possa postulare come sferico anche il tempo, dato che nulla né di matematico né di fisico può definire esso quale retta) proposta da Nietzsche, nella quale, al contrario dell’ingenua visione lineare (discendente diretta della Bibbia e di ogni prospettiva finalistica, provvidenzialistica e messianica, dal giudeo-cristianesimo fino al marxismo-liberismo) il passato non è né fisso e immutabile, né passato per sempre, ma, con l’uomo e il suo divenire storico, muta continuamente di prospettiva e può (se l’uomo in esso sceglie ciò che sente come suo) fungere da meta e modello per il futuro. Certo che se si interpreta il mitema dell’Eterno Ritorno dell’Uguale o come una mera riedizione della visione ciclica tradizionale dei popoli antichi (per cui il tempo è un cerchio, non una sfera) o addirittura come interpretazione “poetica” del “già visto” tutto questo non si capisce. Non si capisce però neppure la fisica moderna, se si rimane ancorati agli schemi dell’illuminismo.

Il mito non è una favola: non lo è mai stato neppure per gli Antichi (popoli esistiti in carne ed ossa il cui lascito materiale e ideale è tuttora tangibile e la cui visione del mondo, espressa proprio dal mito, ha lasciato segni nella storia tutt’altro che fiabeschi, a prescindere da idealizzazioni o demonizzazioni di parte). Il mito, come sottolinea Giorgio Locchi, “è la visione che un popolo dà del proprio passato in funzione del futuro che vuole forgiarsi”. E se dall’attuale secondo uomo non si vuole cadere nell’ultimo uomo che saltella per il mondo convinto di aver inventato la felicità (“e chi non la vuole se ne vada da solo al manicomio”), ma si vuole passare ad un possibile, anzi necessario, terzo uomo (se questa espressiono locchiana piace più della “troppo superba” superumanità di Nietzsche), capace di affrontare la sfide che ora sfuggono sempre più di mano alla modernità (una fra tutte: la questione della tecnica, cui mi richiamava messer Tal e a cui non ho ancora avuto tempo di rispondere) e che non si potrà continuare a gestire, in mancanza di una adeguata visione del mondo consapevole di portare sulle spalle la responsabilità del proprio destino, con proibizioni, moralistici divieti e freudiane rimozioni (tanto simili in molti settori alla condanna patristica della libido sciendi), si dovrà imparare da un certo passato a costruire un certo avvenire.

Nulla vi è dunque nel filosofo del superuomo nè del ritorno al passato (egli sa che "non potranno ritornare i Greci") nè del vagheggiamento di una felice età dell'oro. Il "superuomo" da voi inteso "che non può venire perchè altrimenti svanirebbe l'attesa e con essa il desiderio" non è il superuomo nietzscheano, ma il messia biblico (alcuni testi ebraici sono proprio incentrati sul tema del messia che pur non venendo rende migliore l'uomo grazie alla speranza e al sentimento dell'attesa), e infatti la "bellezza dell'attesa", lo "sperare continuamente", il "correre non vedendo il fine", la "meta bella perchè non colta" e lo "struggimento del desiderio" (Sensucht) sono i termini di quel Romanticismo che acutamente Nietzsche vede interamente essere un "dono" del sentire ebraico all'Europa e in cui constata il "nuovo e pericoloso fascino" assunto dalla vita (il fascino di una rinunzia e di una sublimazione).

Vi è invece nel mitema del Superuomo, se vogliamo usare i termini del Leopardi (il quale, per inciso, non è affatto un romantico, ma un anticipatore di Nietzsche, come ha capito Severino) tutto dell'universale (perchè la comparsa del superuomo permette all'umanità di raggiungere un senso superiore del vivere in da cui tutto quanto prima esisteva si mostra più chiaro e unito come da altezza maggiore), del necessario (perchè il superuomo è necessario ad evitare la fine della storia e rigenerare la storia è sentito come necessario da chi vuole divenire ciò che è), del perpetuo (perchè l'eterno ritorno, conformemente ad ogni concezione grande e tragica, vede nella fine dei grandi sempre un nuovo inizio e rende le leggi e le valenze del divenire ascendente "metafisiche" alla pari di quelle dell'essere).

Non si tratta di “far girare all’indietro la ruota della storia”, semmai di evitare che essa “giri a vuoto” (come oggi sta iniziando a fare).

L’alternativa è solo quella di accontentarsi che la storia finisca in un “verde pascolo delle greggi”, in un regno “di libertà e di giustizia” (fallacemente intese come licenza di essere e fare di tutto entro certi limiti e come uguaglianza qualitativa), un tempo magari identificato da molti nella “società senza classi” e oggi (in maniera ancora più pericolosa perché più subdola e incoscia) visto da quasi tutti (su un’onda di pensiero cavalcata da pensatori quali Fukuyama) nella società liberal-liberista più o meno “socialmente corretta” (magari per poi ritrovarsi con controllo sistematico, incapacitante e ossessivo di una tecnica acefala sull’uomo privo degli strumenti culturali per dominarla e quindi destinato ad esserne dominato come chiunque non voglia o non sappia costruire una visione del mondo per darsi un destino, con l’oppressione di un sistema autoreferenziale, insensato e a volte distruttore, sull’individuo, con l’imbrigliamento di ogni qualità più nobilmente umana all’interno di una società sempre più simile a un formicaio, incapace di ogni superamento e di ogni significato, degna degli insetti più che degli uomini).
Anche senza considerare le sia pure possibili catastrofi atomiche o ambientali insite in questo “sistema di buon senso”, il pericolo, anzi, la certezza se una scelta in senso inverso (ovvero nel senso dell’oltreuomo, o del terzo uomo) è che l’attuale secondo uomo diventi una “specie fredda”, capace solo di riprodurre all’infinito le stesse cose, perdendo quella proprietà sua caratteristica dell’inventarsi continuamente (del “poter essere qualunque animale”, direbbe, sia pur con opposto giudizio di valore fatto passare per scienza, un personaggio a voi certamente più caro e conosciuto di me e di Nietzsche) del decidere del proprio destino come per la prima volta ha fatto nella sua entrata nella storia. La storia è la prima in ogni senso fra le sue opere, giacchè è l’opera dell’uomo su se stesso: per questo parlo di un primo e di un secondo uomo, per questo parlo di un terzo uomo (se proprio non vi piace “superuomo” o “oltreuomo”) che funge da spartiacque fra chi lo vuole e chi non lo vuole. Questo è precisamente ciò che oggi distingue fra nobile e plebeo: essere disposti a scegliere, a rischiare, a sacrificarsi per innovare (come sceglievano e imponevano, rischiavano e combattevano, innovavano e creavano le aristocrazie guerriere dell’era “mitica”) o seguire il gregge verso il pascolo in cui tutti sono felici perché non accade più nulla (salvo forse, una volta sopravvenuti cambiamenti esterni, l’estinzione per incapacità di adattarsi, esattamente come capita alle popolazioni indigene che, per scelta o per caso, sono “uscita dalle storia”, quando incontrano l’uomo occidentale, oggi ancora all’interno della storia).

Se poi il vostro intento non era discutere di quanto sopra, ma convincermi (o convincere voi stesso) che l'uomo superiore e l'uomo inferiore non esistono solo perché non esiste un metro universale per misurarli e un criterio “scientifico” per distinguerli (come se non dovessero esistere uomini alti e uomini bassi prima dell’invenzione e della definizione del metro di lunghezza), che nulla di bello, di nobile, di eroico possa dare valore alla vita (e non già essere vuoto contenutore da riempire a caso dal primo venuto) allora rispondo da par mio, abbandonando i rigori accademici.

"Non costituisce affatto un argomento contro Nietzsche l’impossibilita’ di DIMOSTRARE il suo sistema di valori, anzi. Solo se rimaniamo attaccati al pregiudizio illuminista secondo cui tutto quanto e’ reale deve essere dimostrato in termini banalmetne razionalistici abbiamo bisogno di dimostrare qualcosa per sentirne il valore. Ma questa e’ una sciocchezza.
Come non vi e’ alcun bisogno di dimostrare di essere vivi per voler vivere, ne’ che sia giusti mangiare per avere fame, o che sia opportune amare per disiare l’amorosa bellezza, cosi’ non vi e’ bisogno di dimostrazione per sentire cosa siano il bello, il grande e l’eroico.
Una dimostrazione servirebbe solo a tentare di mostrare la loro falsita’ ai brutti, ai piccolo, ai meschini e ai malriusciti, ma essi, dannati gia’ dalla natura, non necessitano di essere svergognati anche dal come volevasi dimostrare. La loro vita LI CONFUTA.
Chi ha un sentire volto alla bellezza, al superamento di se’ ed alla grandezza non puo’ in alcun modo dimostrare in altri termini cio’ che ha proprio in lui la funzione di dar senso a tutto il resto.
E’ il mondo che prende senso da tale visione estetica e da tale sentire eroico, non gia’ il bello e l’eroico a prendere senso in base al resto del mondo.
Si puo’ spiegare il mondo a partire dal bello e dall’eroico, ma non il bello e l’eroico a partire dal mondo. Chi pretende dimostrazione ha gia’ negato nel suo stesso sentire il valore di tutto quanto essendo grandezza ed eroismo e non puo’ per sua natura essere ridotto in termini vili e volgari, o anche solo spiegato secondo criteri inferi di utile e di tempo. Ragionare secondo l’utile e il tempo e’ gia’ segno di avere un sentire antieroico. E pretendere che si dimostri quanto e’ bello e divino significa gia’ essere empi e cieci verso la bellezza. Chi, davanti alla Venere di Milo o ad una statuaria venere vivente in carne e sangue chiamata modella sente bisogno che la sua bellezza venga dimostrata?
Chi nell’udire un verso, ha bisogno che le parole, oltre che suonate, vengano dimostrate?

Tutte le cose migliori della vita, del resto tutto quanto rende questa bella, nobile e degna di essere vissuta, tutto quanto ne costituisce il significato e il valore piu’ pieno, ricco e complesso, non puo’ essere affatto parlato o spiegato, ma solo sentito. La bellezza non si dimostra, semmai si mostra.
Si puo’ dimostrare la divinita’ della commedia dantesca? Si puo’ dimostrare la purita’ della conchiglia d’argento chiamata luna quando si specchia sul mare? Si puo’ dimostrare che la nostra amanza deve essere amata?
Chi ancora non e’ cieco vede come tutto quanto davvero VALE e da’ valore non solo non puo’ essere misurato, ma non puo’ essere neppure spiegato (se non con la banalita’ di un analizzatore di spettro sonoro che tenti in termini di frequenze di spiegare Wagner).
C’e’ chi lo sente e chi non lo sente.

C’e chi di fronte alla bellezza di un tramonto, all’asprezza di una montagna o alla soavita’ di una fanciulla rimane tiepido o guarda “in basso” e chi rimane estasiato e si volge verso l’alto. E questa non e’ una questione di dimostrazione, ma di natura."


Tanto per restare in tema di bellezza: la non esistenza di un criterio di giudizio su di essa, e l’apparente “capriccio” con cui si definiscono belle le persone e si desiderano, sono forse motivo di ritenere che tale parola sia “un vuoto contenutore in cui ognuno mette quello che vuole”? Se è così allora spiegatemi perché la cugina di Chiara con i baffi e le gambe storte non è disiata neppure gratis e la Chiara da escort aveva il seguito disposto a pagare qualsiasi cifra (visto che l’avete tirata in ballo, in maniera poco corretta poiché ella non può qui replicare, almeno diamo a Chiara quel che è di Chiara)?

A proposito di correttezza, non crediate di avermi ingannato con il sistema di rispecchiare nel campo avverso quei difetti di visione propri al campo di appartenenza. E’ il campo egalitario a cui tutte le ideologie moderna appartengono come figlie del mito cristico (e biblico) ad avere in comune la visione messianica dell’uomo e della storia, non già il campo sovrumanista (quello di Nietzsche e del superuomo). Chi è infatti il messia? Colui il quale redime una volta per tutte l’uomo dalla sua entrata nella storia avvenuta con una infrazione (o peccato) rispetto ad una legge pretesa uguale per tutti (esterna all’uomo e al mondo) e una decaduta da uno stato di felicità e tranquillità primordiale (considerato quello naturale o comunque proprio dell’uomo, di un concetto già dato di uomo). Con il messia la storia finisce in quanto, dopo la “valle di lacrime” del periodo storico, grazie a lui l’uomo riconquista il paradiso perduto. Nel mito cristico lo stato iniziale felice è l’Eden, la sua perdita la cacciata dell’uomo in seguito al peccato originale (ovvero il peccato di cogliere il frutto della sapienza, della sapienza più alta, quella che sa decidere sul proprio destino), la valle di lacrime la storia stessa, segnata dal “dominio dell’uomo sull’uomo” (in contrasto con la pretesa biblica dell’uomo quale universalmente ed egalitariamente servo del solo Jahvè), la redenzione da essa l’avvento (o il ritorno) del Messia e l’avvento del Regno dei Cieli. Nella laicizzazione marxista (uso questo termine ben sapendo che probabilmente Marx avrebbe potuto e voluto andare ben oltre tale visione, ma resta il fatto che la visione del mondo scaturita dalle sue opere e forse un suo stesso inconscio sentimento del mondo sono un calco laico del cristianesimo o, se vogliamo, dell’ebraismo) lo stato iniziale è il comunismo primitivo (riguardo a cui si insiste sull’uguaglianza biologica dell’uomo rispetto ad ora) , il peccato originale l’introduzione del denaro, la divisione del lavoro, la nascita della classi, e dei conflitti di classe, la redenzione l’avvento della rivoluzione proletaria, la fine dello sfruttamento capitalista e della divisione del lavoro, e l’instaurazione di una nuova società senza classi, e con ciò la fine della storia (che Marx chiama preistoria).
Come Giorgio Locchi ha reso evidente a chi lo ha voluto seguire (da un Alain De Benoist a uno Stefano Vaj), tale schema può essere rintracciato in ogni ideologia si proponga la fine della storia: dal liberismo contemporaneo al pacifismo utopico, dal freudismo alla scuola di Francoforte, dalla religione dei diritti umani oggi in voga alla religione sessantottina di Marcuse & C. Lascio ad altri l’esercizio stucchevole di rintracciare corrispondenze e paragoni fra queste sia pur dialetticametne diversissime scuole di pensiero.

Cos’ha di diverso da proporre invece il campo che, seguendo Locchi, ho chiamato “sovrumanista”?
Innanzitutto il giudizio di valore diverso sul “peccato”: uscendo dal “paradiso primordiale” l’uomo non ha commesso un peccato tradendo una legge già data (si chiami essa legge di dio, stato di natura o età dell’oro), una forma data, un significato imposto da un mondo altro da sè, ma ha compiuto la precisa scelta di darsi da sé una legge, una forma, un significato superiore (non certo a capriccio o per piccolo egoismo, ma in conformità ad un’ordine cosmico in grado di garantire una vita ascendente e per il grande egoismo che dona e segue la necessità di compiere la propria opera capace di grandezza, potenza, durata, per divenire ciò che si è, come conferma il fatto che in ogni mito indoeuropeo i fondatori di città sono non maledetti come nella Bibbia da Dio alla pari di Caino, ma benedetti dagli Dèi, il rispetto dei quali implica non la sottomissione da schiavo alla morale imperatova, ma un agire fondante, affermativo e creativo di valore) e la stessa possibilità di creare e conoscere significati. Proprio in quel momento, scegliendo di non essere più qualcosa di già dato (come vorrebbe la Bibbia, e come in fondo sostengono i devoti al culto dei “diritti umani naturali”) è diventato Uomo (non è decaduto: ha compiuto un salto di livello).
In secondo luogo, il giudizio di valore opposto su ciò che da tale scelta è disceso. Quello che la Bibbia, Marx, i liberali, i freudiani eccetera chiamano “dominio dell’uomo sull’uomo” è in realtà l'ordine cosmico, l'attribuire a ciascuno il proprio posto, il porre in alto quanto ha più valore: non nasce dal capriccio arbitrario o dalla volontà di sfruttamento egoistico, ma dalla necessità (per divenire ciò che si è) di compiere imprese esprimenti forza, bellezza e durata, dal grande egoismo che dona insomma, e non è affatto strumento d'oppressione o ingiustizia, ma di generazione e propagazione di un ordine in cui solo sono possibili opere di grandezza, maestà e grazia. E quello che per voi (e per le femministe Gimbutas-style) è crimine è per me l'atto fondativo di una civiltà capace di donare alla vita e al mondo un più alto significato, una più compiuta bellezza, un più nobile valore di quanto sarebbe mai possibile con il "lasiare che le cose vadano" sottomettendosi ad una morale da schiavi (la morale uguale per tutti, la morale delle civiltà derivanti dal principio lunare e feminile, come tutte le civiltà semitiche del resto, la morale della grande madre da cui ogni individuo dirama e a cui ogni individuo ritorna ed innanzi a cui ogni differenza individuale si scioglie), nella conservazione (come in effetti succedeva e succede nelle società matriarcali nei fatti) di sé senza altro scopo da un benessere materiale e morale da bestiame bovino (cui sono corollario gli ideali di pace, uguaglianza e fratellanza universali).
In fine, che il Superuomo (o, ripeto, “terzo uomo” se il termine non vi piace) segna l’esatto contrario del Messia, ovvero la scelta in FAVORE della storia, del rifiuto di farla terminare in una felicità da pascolo in cui nulla più di doloroso e colpevole, e quindi anche nulla più di bello, nobile, eroico, vitale insomma (alla vita dolore e colpa sono connessi) possa accadere. Il Superuomo è colui che, parallelamente alle aristocrazie guerriere degli antichi popoli indoeuropei, sa conoscere, incarnare e imporre quei valori affermativi ed eroici che rendono la vita un continuo autosuperamento e una continua tensione verso l’alto, e sulla base dei quali l’umanità può compiere un effettivo “salto di livello”: un tempo l’entrata nella storia (con il subordinamento delle popolazioni ancora legate al vecchio paradigma primitivistico), oggi la rigenerazione di essa (con il ripudio dell’ultimo uomo e della sua concezione “conservativa”).

Non per nulla Nietzsche scrive l’Anticristo: non certo contro il cristianesimo strettamente religioso (già ormai chiaramente avviato alla dissoluzione storica) lanciava i suoi strali (eccessivo, come dice Colli, nei confronti di una religione già colpita a morte dall’Illuminismo e dal Positivismo trionfanti). Il suo essere anticristiano si contrappone ad ogni concezione cristica del mondo (ivi comprese le moderna parole d’ordine di “emancipazione”, “uguaglianza”, “diritti umani”), ad ogni tipo umano che attenda la “liberazione” dalla propria condizione, anziché il compimento “tragico” e “necessario” di essa.

E che questo sia il momento di decidere fra due vie non è mia invenzione: non ho scritto io il “Tramonto dell’Occidente”, non ho inventato io il termine di “Decadenza” associato all’uomo occidentale (oggi possiamo dire “globalizzato”) da oltre un secolo, né sono l’unico a percepire lo stato di ultima decadenza e di “ultimo uomo” già profetizzato da Nietzsche (e riconosciuto ormai da quasi tutto il mondo culturale e non, anche quello situato all’opposto del pensiero nietzscheano).

La scelta fra le due vie è anche una scelta fra due tipi umani, fra due visioni del mondo non derivate ma innate: da un lato l'uomo superiore, dall'altro l'uomo del gregge, da un lato un'etica fondata sul sentimento della necessità di compiersi nella grandezza e nel superamento, dall'altra l'etica fondata sulla morale imperativa del "tu devi" e sul sentimentalismo umanitario e conservativo.

Pretendere una dimostrazione comprensibile e valida per tutti di cosa sia necessario per il primo tipo umano significa già negare la possibilità di mostrare ogni valore superiore.
Appartiene alle qualità di ciò che porta al superamento dell’umano o comunque costituisce un senso superiore del vivere (afferente il nobile, il bello e l’eroico) il fatto di essere visto come evidente e sentito come necessario dal tipo umano superiore (così come il volare sarebbe considerato naturale ed evidente per l’aquila) e di risultare oscuro e “irrazionale” o addirittura malvagio e distruttivo per il tipo umano inferiore (esattamente come il volare sarebbe incomprensibile, irrazionale e foriero di sciagure per il serpente).
Se si trattasse di qualcosa in grado di apparire parimenti valido ed evidente per tutti sarebbe qualcosa in vero privo di un reale significato superiore, giacchè avrebbe il principio del proprio valore in quanto accumuna gli uomini nel bassamente umano dell’appartenere alla stessa specie (ammesso e non concesso al concetto di specie di essere davvero fondato), del vivere secondo i criteri dell’utile e del tempo, del ricercare piacere e innocenza, anziché (come deve essere per ogni valore davvero superiore) in quanto differenzia gli uomini nel più che umano dell’elevarsi ad un agire eroico, del superarsi continuamente, dello spendersi più che conservarsi, del sacrificare persino il miglior sé pur di generare oltre, del vivere secondo i criteri del sacro e dell’eterno o comunque secondo quanto dà alla vita e al mondo significato, valore e bellezza superiori al conservarsi in un tranquillo benessere da bestiame bovino, dell’affrontare ogni colpa ed ogni dolore pur di compiere la propria opera di grandezza sentita quale necessaria, divenendo ciò che si è.
Mente per la gola chi pretende di presentare la propria visione del mondo come razionalmente dimostrata: la ragione non può dimostrare nulla, a partire dal nulla, può solo indicare strumenti materiali o passaggi logici per realizzare fini e concludere discorsi stabiliti ed iniziati in ben altra sede. Ogni dimostrazione è un’utopia, l’utopia della creazione ex nihilo, nel caso, la creazione di un valore di verità. Persino nella rigorosissima matematica nessuna dimostrazione è possibile senza l’imposizione a priori di principi assunti quali veri, a partire dei quali soltanto si dimostra tutta la teoria. Allo stesso modo in tutto quanto (anche di meno rigoroso) riguarda il pensare dell’uomo esistono sempre a monte elementi fondanti la cui verità è semplicemente sentita come tale e vista come evidente per natura. Prima di me è stato detto da Nietzsche che ogni verità, anche quando scientifica, si basa sempre su una fede. Ed io sottolineo (esplicitando il pensiero aristocratico di Nietzsche) come proprio la natura di tale fede (più di tutte le pretese di dimostrazioni razionali) denoti la qualità innata ed il tipo umano di chi la sente per vera (anzi, per fondamento di verità).

Chi sente per vera la fede nell’uguaglianza, nella pace, nella vita quale conservazione di sé senza altro scopo in un tranquillo pascolo da diffondere a quanti più simili possibile, in quanto insomma appiattisce gli uomini sulla paura della morte, sull’accontentarsi del bassamente e indifferenziatamente umano, sulla persecuzione della illusoria felicità individuale e della patetica fuga dal dolore, sulla ricerca di un benessere materiale e morale da bestiame bovino (cui sono mezzi morali gli ideali di pace, uguaglianza e fratellanza universali) denota l’appartenenza al tipo umano inferiore dell’animale da gregge. Al contrario, chi vede come evidente la vita quale continuo superamento di sè, quale continua generazione verso l’alto, quale continua tensione verso forme sempre superiori, verso ordinamenti del cosmo in grado di esprimere valori, bellezze e significati sempre più alti, quale accrescimento di sé, lotta, selezione, affermazione e dominio dei migliori, o, meglio, dei più eroici, di chi è disposto a spendersi più che a conservarsi, a uccidere più che a tradire (la propria natura), a rischiare la vita stessa pur di affermare i valori che la rendono bella, nobile e degna di essere vissuta,
chi vede la necessità di dare alla vita un superiore significato, un più nobile valore, una più compiuta bellezza ed è disposto a sacrificare il miglior sé, i più forti guerrieri, gli affetti più cari e tutti quanti la moira richieda pur di compiere il proprio destino di grandezza (verso cui si lancia con la voluttà e la volontà di un eroe tragico consapevole nella fine essere sepre un nuovo inizio), chi percepisce per vera la fede in quanto non accumuna ma differenzia ed eleva gli uomini dal fatto bassamente biologico d’appartenere ad una data specie e fonda intere gerarchie sui valori in grado di giustificare idealmente l’esistenza alla luce del sacro e dell’eterno o comunque, se vogliamo proprio essere antimetafisici, sulle qualità necessarie a generare opere di grandezza, potenza e durata, a compiere imprese esprimenti bellezza, maestà e grazia, a donare alla vita e al mondo il senso del bello, del nobile e dell’eroico dimostra di appartenere al tipo umano superiore dell’animale da preda (proteso al continuo autosuperamento).

Voi parlate di buon senso a proposito di un sentimento del mondo di tipo egalitario (anche se non volete chiamarlo così). Il mondo attuale per voi esprimerebbe buon senso?
Solo se si nega l’esistenza di ogni senso superiore del vivere e si postula l’uguaglianza qualitativa fra tutti coloro aventi in comune il fatto bassamente biologico d’appartenere alla specie umana (ammesso e non concesso il concetto di specie sia fondato) si può considerare un bene “che ognuno faccia ciò che vuole (più o meno disordinatamente) e sia portato a vivere tranquillo e felice” e giusto che “tutti possano esprimersi liberamente, con diritti uguali, senza alcuna distinzione per la propria origine”. Ma questo non è affatto né autofondato e autofondante, né dimostrabile razionalmente: questo implica già una visione del mondo definita, da cui deriva e in cui risiede il giudizio di valore. E tale visione del mondo è precisamente la visione nichilista (o che porta al nichilismo), la quale (di fronte alla madre terra nel caso delle civiltà matriarcali, di fronte a dio nel caso delle ideologie derivate dalla bibbia, di fronte alla pretesa degli “uguali diritti di natura” dell’egalitarismo moderno) non ammette l’esistenza di differenze qualitative fondate sui valori superiori “in grado di giustificare la vita alla luce dei criteri superi del sacro e dell’eterno” (se parliamo metafisicamente) o comunque “volti al superamento della dimensione bassamente umana” (se vogliamo seguire Nietzsche anche nella sua “antimetafisica). Già dal punto di vista religioso, l’uguaglianza della anime davanti a dio cancella quei valori superiori su cui tali differenze sono fondate e genera e prepara quel nichilismo di cui il cristianesimo originario è portatore (salvo qui da ogni critica in tal senso, perché il discorso è lungo, l’intermezzo del cattolicesimo medievale di cui la visione cosmica dantesca è capolavoro dovuto però più alla “restaurazione germanica” e all’opera ardita di San Tommaso, che non agli “agitatori cristiani” fustigati da Nietzsche come San Paolo e Sant’Agostino) e che oggi pare essere dagli ultimi cristiani e dagli egalitari laicizzati attribuito a tutto e a tutti fuorché alla sua causa prima.
Io mi rifiuto di prendere proprio tale principio egalitario come fondamento dei miei giudizi di valore (e non mi si dica che in molte ideologie moderne non siamo comunque tutti uguali perché ognuno è libero, diverso e fa quello che vuole: l’uguaglianza dei diritti, delle pretese libertà e delle limitazioni sottintende un’uguaglianza qualitativa fra uomini rispetto a cui ogni differenza, fosse anche la più materiale e appariscente, diviene fittizia).
Se già, per ipotesi, la libertà viene intesa non negativamente come la possibilità di essere e avere tutto (e in tal senso, paradossalmente, una piena libertà “liberale” potrebbe essere goduta solo dall’uomo più ricco del mondo che schiavizzi col denaro tutti gli altri e quindi davvero possa fare di tutto: il fatto che per ovvi motivi l’uomo normalmente arrivi a godere di fatto solo di qualche goccia di tale libertà tanto proclamata, non possa affatto divenire chiunque e avere tutto, e la sua vita realisticamente risulti diversa da una autocostruzione meritocratica genera quel diffuso malcontento nient’affatto presente di norma nelle civiltà tradizionali, raccolto dapprima razionalmente dal socialismo e oggi irrazionalmente dal nichilismo e dal consumismo), non come licenza di fare tutto all’interno di certi limiti (tanto simile questa alla libertà di un animale in gabbia, i cui limiti non sono i contorni della propria forma, come in ogni essere libero, ma un’imposizione esterna e tutto sommato arbitraria) ma come compimento perfetto della propria natura conforme all’ordine cosmico (e a questo, senza scomodare Nietzsche, persino il Dante del Paradiso dà conferma), e la giustizia diviene non l’uguaglianza qualitativa ma il porre in alto quanto ha più valore, allora anche la visione sociale diviene più simile a quella da me tratteggiata (e corrispondente non già all’età dell’oro, ma alle ere storiche in cui gli aristoi governavano e in cui lo stato, pur non potendo disporre degli attuali immensi mezzi repressivi e di propaganda, poteva reggersi per millenni usando assai meno coercizione e forza verso i governati di quanto non avvenga nelle ere moderne).

Quella di essere e fare di tutto e risultare svincolati dal ciò che si è per natura (svincolati dalle proprie origini, come vorrebbe il pensiero facente capo ad Hannah Arendt e riproponente niente più che un concetto biblico) è, se ci pensiamo, la libertà dello schiavo, del malriuscito di chi si ribella alla propria stessa natura in quanto infera. La libertà vera è il compimento della propria natura, il perfezionamento delle proprie doti innate, l’elevare, potenziare coltivare nobilitare i propri istinti più forti e le proprie pulsioni più profonde, il portare alla perfetta realizzazione quanto di meglio è già in noi per natura (e che deve solo essere fatto emergere nella sua purezza e nella sua forza), il generare un'identità non a partire dal nulla (come pretende la bibbia, facendo sempre ritornare il motivo della creazione ex nihilo) ma dalle qualità e dalle esperienze accumulate nel patrimonio ereditario, a partire dalle quali creare qualcosa di superiore di inedito eppure di non infondato nè inventato, bensì compiuto e radicato, come ramo di una pianta dotata di radici (e non ramo innestato come pretende il cristianesimo che si innesta sulla bibbia, tutto con la minuscola).

Il “porre in alto quanto ha più valore”, poi è sempre stato sentito come giusto da tutte le civiltà indoeuropee prima della sovversione cristiano-semitica, non è una invenzione del Nietzsche della “genealogia della morale” (dove per la prima volta parla della sovversione). E lo scontro di questi tempi fra gli Indù ed i Cristiani non è altro che lo scontro fra quanto (nonostante più o meno volontarie uscite dalla storia dovute al colonialismo inglese) una vera civiltà (indoeuropea) e la sovversione e la negazione di ogni possibile concetto superiore di civiltà.

Potrei chiedervi cosa mai dovrebbe essere la libertà, nella concezione da voi difesa, se non un nulla arbitrariamente limitato per le necessità del sistema. Il senso positivo di libertà sarebbe invece proprio di ogni vero stato (ovvero mai uno stato demoliberale).

Non si confondano qui le caste di ogni stato tradizionale con le classi sociali odierne pretendendo, come Lucaks fa nei suoi processi postumi a Nietzsche, di fare del pensiero sovrumanista (egli lo chiama “fascista”) un avvallo dei deliri di onnipotenza della borghesia liberale.

La posizione sociale, i livelli di studio e ricchezze materiali devono essere solo i simboli sensibili delle superiori qualità etico-spirituali di cui si è portatori o rappresentati, non già (come appunto per i borghesi, che io chiamo, tradizionalmente, “casta mercantile”) elementi da perseguire in sè per piccolo egoismo e conseguiti attraverso fatti casuali ed accidentali scorrelati rispetto alle qualità che differenziano gli uomini alla luce del sacro e dell'eterno o comunque del superamento della dimensione bassamente umana, e dipendenti solo, quando non dalla nequitia, dall'avidità, e dal materialismo, dalla fortuna o dall'abilità truffaldina e mercantile.

Dai marxisti mi distinguo non già nell’analisi (pur non potendo seguire Marx nel suo modo univoco, hegeliano, sistemistico e aprioristico di leggere tutta la storia con i criteri dell’utile e del tempo buoni giusto per l’era moderna, condivido di lui perfettamente sia l’analisi del mondo liberale e delle sue strutture, sia la denuncia dello stato di ingiustizia per differenze sociali non fondate su differenze qualitative, sia la previsione che un sistema siffatto sia destinato al collasso: solo quando ero indottrinato e illuso dal liberal-liberismo potevo non constatare come la profezia di Marx sulla concentrazione del capitale si stia avverando, anche se in maniera più “finanziaria”, “invisibile” e “astratta” di come la pesante ed arretrata cultura comunista del dopoguerra sia in grado di capire) ma nella sintesi si può e si deve porre al posto del mondo demoliberale.

I marxisti, come tutti gli egalitari del resto (i quali oggi condannano il marxismo molto più per i mezzi utilizzati che non per i fini di partenza, e lo trattano comunque, a differenza del fascismo, come una “eresia” all’interno della medesima “religione egalitaria”) vogliono appiattire l'umanità al tutto indifferenziato e alla ricerca del tranquillo benessere da bestiame bovino, fino a far terminare la storia nel pascolo delle greggi.
Noi sovrumanisti vogliamo invece quanto permette l'emergere delle differenze qualitative e l'affermazione del tipo umano superiore dell'animale da preda (che ha in sè le doti eroiche per superare la dimensione semplicemente umana).

Voi egalitari avete il difetto di presentare come giustizia universale quanto non è affatto una convivenza fra tutti e un bene per tutti, ma una affermazione totalizzante del tipo umano inferiore dell'animale da gregge, una assolutizzazione di quanto lo fa prosperare a discapito del tipo umano superiore dell'animale da preda. Le vostre condizioni di pace e giustizia sono le condizioni di estinzione di qualsiasi tipo superiore rispetto alla pecora dominata dalla morale della reazione, della paura, della limitazione e protesa alla ricerca della illusoria felicità individuale e della patetica fuga dal dolore.

Poichè tutti sono capaci di essere mansueti e di accontentarsi di piacere e innocenza (come di essere lenti e di vivere nella banalità e nella sicurezza), mentre pochi sanno essere forti, coraggiosi e abili e disporsi a sopportare ogni colpa ed ogni colore pur di compiere la propria opera di grandezza sentita come necessaria (come di essere veloci e vivere pericolosamente ma in maniera significativa e volta verso l'alto), l'appiattimento sul tipo da gregge è una perdita di valore, significato e bellezza da cui non si torna indietro (aumento di entropia e abbassamento di energia, se volete un paragone scientifico).

Il senso “democratico” risulta “buono” solo per il tipo umano inferiore dell’animale da preda, che voi astutamente assumete quale paradigma della umanità accettabile (relegando l’altro “possibile animale” al ruolo di “male assoluto”, di criminale o di pazzo).

La frase di Churchill da voi citata non è affatto stupida, ma non bisogna dimenticare come sia stata pronunziata dall’esponente di quella frangia politica inglese che ha voluto la guerra ideologica “per la democrazia” al fine di svendere l’Impero Britannico alla borsa di New York (mentre Lord Chamberlain rappresentava la parte politica più vicina agli interessi propriamente inglesi, non solo mercantili). Churchill è diventato ricco e potente (l’Europa nel suo complesso e gli stessi Inglesi un po’ meno) e per lui la democrazia è certo stato il sistema di governo migliore fra quelli conosciuti. Per chi invece dalla democrazia liberale è governato senza esserne accecato essa pare piuttosto il sistema più adatto ad imporre al popolo tutto (ai plebei come agli aristocratici, semmai ve ne rimangono nel senso da me precisato e assai diverso da quello con cui si definiscono tali famiglie degenerescenti come quelle dei Savoia) il modello di vita e di valori della casta mercantile, fino a fare di essa signora assoluta del mondo materiale e morale.
Da chi ha capito per primo (almeno fra quanti io conosca e il vostro dunque è un grande merito) come il femminismo attuale sia proprio lo strumento utilizzato dalla casta mercantile per distruggere (attraverso la denigrazione e la maledizione della figura dell’uomo e del padre) ogni residuo del mondo tradizionale e cancellare (con l’individualismo, le rivendicazioni femminili, l’odio fra i sessi) ogni legame umano non traducibile in moneta (ed infatti mi ritrovo a parlare sempre di escort) non mi aspettavo un’argomentazione tanto banale.

Tramite un apparato di propaganda non secondo a quello degli stati cosiddetti totalitari, costituito da una scuola in cui storia e visione del mondo vengono imposte a senso unico, da una cultura i cui giudizi di valore sottostanno sempre e solo al sentire egalitario, e da una pubblicità volta a far degenerare i desideri naturali in ossessioni e la ricerca di sé in una ricerca di beni materiali induce negli animi (salvo in quelli di magari ricchi ma disperati suicidi) la convinzione di vivere nel migliore dei mondi possibili, e tramite leggi, modi di vita, obblighi di lavoro, impone (a meno di non voler tornare a vivere sugli alberi) la vita “borghese” quale unica “vita civile”, applica i criteri dell’utile e del tempo (propri della casta marcantile) quali soli validi per tutti (confinando il sacro e l’eterno, propri della caste superiori, e pure il bello, il nobile, l’eroico, nella soffitta dei sogni) e con ciò riduce popoli di tradizioni millenarie ad un miscuglio cosmopolita, distrugge ogni identità di sangue e di spirito capace di proporre significati e bellezze diversi alla vita dell’uomo, cancella ogni valore superiore del vivere (tanto che chi li ripropone viene ascoltato come uno che racconti fiabe).

Questo sarebbe buon senso? Diciamo che è buon guadagno per un certo tipo umano (il mercante).

Quanto alla schiavitù, non funziona con me l’usare la provocazione del “rovesciare la condizione di schiavo”. Tale discorso per essere fondato e non risibile ha come presupposto l’uguaglianza qualitativa fra uomini, la convinzione che tutti abbiano lo stesso diritto ad “essere o non essere ciò che vogliono”, il convincimento che indipendentemente dall’origine e dalla natura specifica ognuno di noi abbia almeno potenzialmente lo stesso ruolo e lo stesso valore (“in quanto uomo”), ovvero quanto precisamente io, come ogni seguace di Nietzsche, nego negando l’esistenza dell’universale “uomo” e affermando ogni valore manifestarsi proprio in ciò che è differente per origine, e non per derivazione (intellettuale, ambielntale o di qualsiasi altro tipo: sulla originarietà del valore e sulla sua ereditarietà, e quindi sul tema correlato del valore degli individui, delle caste, delle razze e dei popoli, si prega di attendere il mio futuro post in risposta a messer Tal).
Esistono per me uomini che per natura e sentire, nonchè per i pensieri e le azioni di cui sarebbero protagonisti se liberi, devono essere servi (e su questo potrei scrivere un post) ed altri che, conformemente allo stesso ordine cosmico, devono essere signori.

Chiedere a Nietzsche se sarebbe disposto ad essere schiavo è per me come chiedere ad un’aquila se sarebbe disposta a strisciare come i serpenti e, in caso di risposta contraria, esclamare “ma tutti gli animali sono uguali e devono poter volere le stesse cose” (gli uomini, proprio in quanto uomini, artefici di destino, e non animali determinati, sono tanto differenti fra loro da richiedere paragoni fra animali di speci diverse e non fra animali della stessa specie biologica).
Per il serpente è giusto strisciare, per l’aquila volare, indipendentemente dal fatto che sia possibile dimostrare ai serpenti o al resto del mondo in cosa davvero consista il volo. Si vola e basta, se si è nati a quello.
Allo stesso modo, per voi che pare consideriate esistere solo gli “animali di terra”, deve essere giusto per tutti indistintamente muoversi entro certi limiti, senza che nessuno strisci e senza che nessuno voli.
Diventa abbastanza tautologico. Nella mia visione è giusto che alcuni siano schiavi e altri no, nella vostra visione è giusto che nessuno sia schiavo. Ma nessuna delle due visioni del mondo può essere dimostrata “vera” in astratto. Ci si deve accontare di sentire per vera l’una o l’altra.

La schiavitù è necessaria ad ogni civiltà superiore, e non per il motivo banalmente materiale di avere una manodopera per determinati compiti e lavori (i quali potrebbero poi essere svolti anche da macchine, dal che i bolscevichi deducono l'inutilità della schiavitù nel mondo moderno), ma per la motivazione altamente etico-spirituale del permettere ad una minoranza di esseri olimpici di generare un mondo dai valori, dalle bellezze e dai significati al di là dell'umano ed improntati al nobile, al bello ed all'eroico (e tale mondo non risiede in una ipotetica età dell'oro, come si contesta a Nietzsche o a Evola, ma, se non se ne pretende una espressione ideale, risiede nella storia: cosa altro sono la società spartana, il mos maiorum dei romani, la cavalleria dei persiani, le caste degli Kshatrya e dei Brahamana nell'india vedica, se non opere di compiuta e divina bellezza, reale, duratura e vivente, da parte di quei "filosofi violenti ed artisti tiranni" sperati da Nietzsche, e non ancora costretti, come ad Atene ad esprimersi nel locus conclusus del teatro e dell'arte come la si intende oggi?). Se si concede ad una massa dal basso sentire (ad esempio il sentire come valore quanto accumuna bassamente gli uomini per il mero fatto biologico di appartenere alla specie umana anzichè quanto li differenzia nel tendere al più che umano) di avere una qualsiasi influenza sulla società si rende impossibile qualsiasi nobiltà di significato, qualsiasi bellezza divina, qualsiasi valore eroico poichè essi svilupperanno un sistema intellettuale e una cultura a ciò contrari, proprio perchè nascenti da un sentire che ciò non è in grado per natura di percepire.

Non esiste alcuna uguaglianza qualitativa fra chi vuole dell'umano elevare il vertice (fino a fargli raggiungere una grandezza eternante, una forza, uno splendore, una maestà quasi divini, una capacità di generare opere di bellezza, potenza e durata oltre l'umano) e chi vuole appiattire tutto verso la base (verso quanto accumuna gli uomini nell'individualismo eudemonico, nella ricerce del benessere materiale da bestiame bovino, nella paura del dolore e dell'autosuperamento), come non ne esiste fra il benriuscito e il malriuscito, fra la cellula malate e quella sana. Losurdo mi accuserebbe (assieme a Nietzsche) di "despecificare" l'uomo: io accuso lui e gli altri egalitari di voler racchiudere nel termine "specie" esseri del tutto diversi. Anche qui vi è il discrimine fra il campo egalitario che considera come uomo il primo uomo, l'uomo puramente biologico e il campo sovrumanista che come uomo intende il secondo uomo, l'uomo storico come uscito dalla rivoluzione neolitica, e dunque attribuisce valore (e quindi diritti) non al fatto di appartenere alla specie (da cui gli uguali diritti a priori), ma a permette a ciascun individuo, ciascuna razza, ciascun popolo di elevarsi e differenziarsi rispetto a tale condizione (da cui i diritti differenziati in base ai diversi tipi umani, esprimibili nel motto caro agli evoliani "suum cuique tribuere").

Non esiste un diritto naturale per il semplice fatto di essere nati uomini. I diritti esistono a partire da quelle doti innate e da quelle qualità specifiche che differenziano ogni uomo dal tutto indistinto del bassamente umano in relazione a ciò che giustifica idealmente l'esistenza, o, se vogliamo essere fedeli all’antimetafisica, in base a ciò che porta la vita a superarsi.

"Quanto io voglio, altri non hanno diritto a volerlo", direbbe Nietzsche.

Io non ho la pretesa di essere creduto e condiviso, ma non accetto nemmeno di essere convinto da un’argomentazione che ha come presupposto la negazione del principio da me sostenuto. Suvvia, ho più volte ammirato nei vostri post una dialettica ben superiore!

Si accusa spesso Nietzsche di irrazionalismo, ma qua si chiama ragione persino quanto non può affatto dimostrare nulla razionalmente: la vostra affermazione parte dal presupposto (indimostrabile) che gli uomini siano della stessa natura (e quindi si possano indifferentemente scambiare nei loro ruolo servo/padrone e si possa chiedere con lo stesso diritto all'uno e all'altro se siano disposti a questo o a quello e si possa dire che quanto è bene o giusto per l'uno sia bene o giusto anche per l'altro) ovvero quanto io, assieme a Nietzsche, precisamente nego. Quanto è bene per l'uno è male per l'altro, quanto è ingiusto per l'uno è giusto per l'altro. Io non dico che lo schiavo stia necessariamente bene da schiavo (lo “star bene” non è criterio di valore nemmeno per l’aristocratico), ma che sia giusto lo sia per il suo infimo valore innato e la sua potenzialità sovversiva dell'ordine cosmico.

L’obiezione classica egalitaria è “avere schiavi solo perché i signori possano fare ciò che a loro piace?”
Ma ciò che “piace” piace non per arbitrio o sentimentalismo soggettivo, ma per conformità all'ordine cosmico e alla necessità di improntare la vita e il mondo a valori, bellezze e significati superiori alla ricerca della illusoria felicità individuale e alla patetica fuga dal dolore.
per necessità di passare dall'entropia all'ordine, dall'indifferenziato al sensato, al distinto e al significativo, dal comune al qualificato, dall'insignificante al denso di significato.

Già percepisco le urla e le maledizioni del fronte egalitario che mi accusano di volere instaurare nel mondo un sistema spietato, oltre ogni limite e inumano di prigionia, torture, costrizioni innaturali, umiliazioni estreme e punizioni crudeli inflitte senza altro motivo dal sadismo quale si può vedere sui siti di bondage s/m, o quale ci si può immaginare (e in certi casi vedere direttamente dai filmati d'epoca) nei lager (o nei gulag) fra l'orrore dello sterminio, oppure di voler costringere gran parte dell'umanità a remare in catene o a lavorare forzatamente frustata a sangue da aguzzini senza umanità. Posso restare tranquillamente sordo a tanto stridore, poichè l'una situazione è frutto di deviazioni (le une private, le altre politiche) proprie alla modernità, e l'altra (quella che si fa passare per "epoca romana" nell'immaginario collettivo contemporaneo) è totalmente inventata dalla cinematografia cristianeggiante dei kolossal pasquali (quasi tutti antiromani, o forse dovrei dire "antiariani", e finanziati, se non direttamente realizzati, per lo più da ebrei americani, con il neanche tanto velato intento di far apparire la classicità e i suoi valori un coacervo di ingiustizie e sfruttamento, e l'introduzione del cristianesimo, dunque di precetti e sentimenti biblici, la salvezza "che viene dagli ebrei", perfezionata magari oggi dalla "american way of life" che permette di "godere" di tali "capolavori cinematografici").
Una visione più equilibrata e realistica dovrebbe conoscere come le immagini "da film" sulla schiavitù siano in realtà legate al trattamento riservato (nell'antichità e pure oltre) agli schiavi divenuti tali in seguito a reati comuni (ossia, anzichè metterli alla sedia elettrica come in America o mantenerli a vita, come in Italia ora, Roma preferiva farli lavorare duramente), mentre la maggioranza di chi viveva nel mondo antico (e anche moderno, fino almeno al Rinascimento, se si parla di non-cristiani in Europa) nella condizione giuridica di schiavo (o liberto) svolgeva in tutto e per tutto le mansioni ora riservate alle classi medio basse della società, vivendo, in relazione alle classi agiate contemporanee, alquanto meglio (o meno peggio) rispetto all'attuale situazione degli immigrati, dei proletari e pure della piccola borghesia.

Tipicamente gli schiavi fungevano da precettori (equivalenti ai maestri elementari attuali, con la differenza di non dover avere a che fare con i ministri dell'istruzione e i tagli alla spesa della scuola pubblica), da impiegati (equivalenti agli impiegati di oggi, con la differenza di non subire lo stress delle multe per andare a lavorare e per far quadrare i conti della spesa per a fine mese poichè vivevano comodamente e agiatamente in una parte riservata della casa dei padroni), da uomini delle pulizie (come gli immigrati di oggi, con la differenza di non essere molestati da squadre di camicie verdi che gridano in celtico di andarsene dalla terra dei galli), da aiuto domestico (come le colf, con la differenza di non poter avvelenare l'anziano per papparsi l'eredità poichè ciò comportava ipso iure la messa a morte di tutti gli schiavi) dipingendo un ritratto sociale non troppo dissimile (ed anzi migliore e "più umano" sotto molti aspetti: non ultimo quello della cura prestata agli schiavi malati ed anziani al confronto dell'America in cui chi è senza assicurazione viene abbandonato a se stesso, alla faccia del "diritto universale alla felicità") da quello, vantato come "libertà" del mondo attuale demoliberale. Il "ripristinare la schiavitù" significherebbe solamente eliminare un'ipocrisia odiosa di questo mondo capitalista e cambiare la risposta alla domanda "chi deve essere schiavo?".
Ci si può chiedere infatti perchè allora mi lamenti, se il mondo "antico" non era nella vita quotidiana di gran parte della società tanto dissimile da quello attuale. La risposta è che là le caste (dagli aristocrati agli schiavi) erano ordinate secondo quanto rimaneva di un ordine fondato sulle differenze di valore etico-spirituale, mentre ora tutto verte sul potere assoluto della finanza, spregiatore di ogni differenza.

Chi tanto ha da dire contro la schiavitù così come proposta secondo l'ordine tradizionale, dovrebbe prestare maggiore attenzione a come con tutte le benedizioni della religione dei diritti umani la schiavitù sia effettivamente presente nella società in cui viviamo: come definire se non servo chi ad onta di impegno ed eccellenza nello studio deve mendicare uno stipendio negli infimi gradi di una multinazionale, chi non può far altro durante il mese che alzarsi presto, andare a lavorare, pagare, bollette, multe, e affitti al solo scopo di continuare a vivere, chi, sia esso un manovale o un uomo di stato, non ha a disposizione per sè i due terzi del proprio tempo (proporzione di Nietzsche)?

La soluzione delle anime belle del socialismo è quella di annullare ogni differenza sociale e appiattire il mondo all'uguaglianza del gregge felice, la soluzione della anime dure del sovrumanesimo è invece quella di far corrispondere le differenze sociali a differenze di qualità umana (o più che umana), per far tendere la società "verso l'alto" (fine anagogico).

Qui è il problema.

SALUTI DALLA SUBLIME PORTA

P.S.
Mi scuso di avervi inserito fra i marxisti se non vi sentite tale, prometto di non farlo più. Però la vostra ammissione ufficiale sul sito di avere avuto una formazione marxista e la vostra opera principale sul blog imperniata tutta sulla distinzione natura-cultura voluta da Lèvi-Strauss e in sè già segno di un giudizio di valore (per noi nietzscheani tale distinzione è un falso clamoroso) mi giustificano.
Del resto, pur essendo ferocemente antiegalitario, non ho alcun problema a relazionarmi costruttivamente con i marxisti, fra i quali conto diversi amici personali, esattamente come l'antigiudaico (ma non antisemita) Nietzsche contava tanti amici fra gli ebrei. Non si potrebbe parlare di superamento dell'umano se non si fosse in grado di oltrepassare i soliti schemi semplificatori. Lascio le risse e l'odio aprioristico agli opposti ultras del calcio.

 
At Salı, Eylül 02, 2008 3:15:00 ÖS, Anonymous Adsız said...

Mr Mandelbrot disse: "...l'irrevocabile Naufragio del Mondo dell'Uomo non deriva dal conflitto dei molti meschini contro i pochi virtuosi, nè dal revanchismo della donna, povera lei, nè dalle pastoie di una qualsivoglia religione. E' Essere e Necessità. Quell'essere, beninteso, che scaturisce e torna, secondo "Necessità", nel non essere. Il Non Essere che è a sua volta sostanza dell'essere, fattispecie del Divenire, che è scaturigine del non essere destinato a riprendersi definitivamente l'essere. E' éscatos senza telos, Shiva senza Vishnu, Uomo senza Dio. A questa atavica convinzione, mai suffragata, posson esser fatti risalire molti dei pregiudizi che ci affliggono, e ad essi molte delle sofferenze che l'imperfezione ci impone. E', infine, l'omogenesi della volontà di potenza, che in questo quadro futuro prossimo venturo, ha assunto il suo vestimento definitivo per l'imperio, quello dell'Apparato per il superamento di ogni potenza, quello di Téchne - com'ebbe dire Emanuele Severino. A codesto moloch della tecnologia la volontà di potenza tutti ci incatena per la radice stessa dell'anzidetta cieca fedeltà nel Nulla Che Tutto Divora. Da questa fede proviene lo spirito dei nostri tempi, uno spirito che è uscito dall'uomo ed è entrato nell'Apparato. Se l'uomo e la donna, il povero e il ricco, il folle e il savio erano eguali dinanzi a Dio, oggi si può dire altrettanto? Dinanzi ad un Apparato infinitamente potente non solo uomini e donne sono eguali, ma anche uomini e animali, vivi e morti, nulla ha più un inalienabile valore, dal momento che la potenza ogni cosa può cambiare. Noi parliamo di un orizzone che prograssivamente si allontana da noi stessi, che ogni giorno è più libero dal condizionamento della carne, una emancipazione dalla stessa umanità. Ma l'apparato oggi soffre di scarsità di potenza e deve nutrirsi di uomini e donne, mezzi e risorse senza i quali può regredire e dinanzi al quale hanno valori assai diversi. Diversi da ieri, innanzitutto: non più uomini ma ingegneri (quanti di loro infestano il mondo!), programmatori, economisti, operai, funzionari, non più eroi ma impiegati, e le ridicole scaramucce tra i sessi e gli altri conflitti tra gli uomini impallidiscono dinanzi alla logica che ci vuole tutti eguali ed egualmente asserviti all'apparato. La democrazia è a sua volta un apparato tecnico che configura metodi e mezzi politici in maniera da preservare se stesso. Essa ci richiede tutti uguali e liberi, e l'ideologia alla base di questa mitopoiesi è una derivazione dell'illuminismo, una malata figliazione della paura del Caos. Il Caos è innanzitutto rivoluzione, distruzione, terrore e imprevedibilità, ovvero la suprema minaccia all'apparato. Colui che vuole il mondo, l'uomo nuovo, egli non si spaventerebbe dinanzi alla furia di Kali, dinanzi alla Donna Virtuosa, dinanzi alla Madre del Mondo, dinanzi al Grande Mistero: egli piuttosto, come Shiva, distenderebbe le sue bianche carni dinanzi alla nera marea della sua furia..."

 
At Salı, Eylül 02, 2008 4:50:00 ÖS, Blogger Beyazid II Ottomano - Sultano di Costantinopoli said...

Io non stavo parlando affatto di un CONTRASTO fra pochi e molti in nome di qualcosa, o fra uomini e donne, ma della mancanza di un ordine che ponga i pochi eccellenti e forti sopra i molti deboli e mediocri e il principio virile e solare (quindi il nietzscheano autosuperamento, come ho tentato di spiegare nel post e nella risposta a Giubizza) sopra quello femminile e lunare (e quindi la conservazione, l’egalitarismo, l’eudemonologia, secondo i modi più volte discussi). Si possono benissimo ignorare o evitare i contrasti fra tutto e tutti, si può sopportare qualsiasi cosa, ma non si possono affatto ignorare le conseguenze della dissoluzione dell’ordine cosmico. Non è questa la sede per discutere se tale fase sia un necessario Kali Yuga come vogliono gli evoliani e i tradizionalisti in genere o una evitabilissima decadenza come voleva Nietzsche, e quindi quale azione si debba svolgere.

Ritengo che Mr Mandelbrot attribuisca alla tecnica tutte le colpe e le responsabilità di quel particolare tipo umano che oggi la applica alla politica, alla società, al mondo. Anche l’uomo del neolitico aveva la sua tecnica, ma ciò non lo rendeva succube di un apparato ed egalitariamente appiattito su esso, perché la sua visione del mondo era in grado di dare un senso superiore a quella tecnica. Il problema attuale non è che ci sia “troppa tecnica” o che vi siano “troppi ingegneri”, ma che l’uomo, per come ha scelto ormai da duemila anni di evolversi (o involgersi), non possiede più una visione del mondo adeguata a padroneggiare la tecnica più evoluta, la complessità dei problemi da essa generati e a dare un significato, un valore, una bellezza superiori al tutto. E chi non domina è necessariamente dominato. Tertium non datur.
Non è l’Apparato ad essere acefalo, insensato, massificante, annichilente in sè perché è tecnico, ma è l’ultimo uomo di oggi, con la sua mancanza di mente, di significati, di eccellenze, di valori, a rendere acefalo il sistema. Il resto è solo una conseguenza, non una causa.
Quali mirabilie sarebbero possibili con le stesse tecniche oggi impiegate per limitare, rassicurare, eguagliare, controllare gli uomini? Nessuna nuova scoperta sostanziale sarebbe necessaria per realizzare “cose che voi umani non potreste mai immaginare”. Basterebbe saper impiegare costruttivamente ed “eroicamente” quanto già è stato scoperto. I futuristi furono i primi e forse gli unici a capire, reinterpretare e cantare tutto ciò (infatti sono negletti dall’attuale cultura, quando non apertamente messi in ridicolo fin dai banchi di scuola). Sono le pretese di sicurezza, di pacificazione, di limitazione, di appiattimento ad impedire applicazioni “anagogiche” della tecnologia. Sono la preoccupazione di volersi assicurare un verde e tranquillo pascolo e il patetico sentimentalismo del dare sempre ragioni e diritti a chi meno vuol rischiare, meno è abile, ardito, aggressivo e dinamico e più vuol conservarsi, contro chi più sa rischiare e superarsi, più mostra abilità e coraggio e meno vuole risparmiarsi, a generare l’attuale stato di cose. Il gregge di pecore genera gli stati democratici e i controlli sociali tecnologici, non vengono questi imposti dal cielo. E’ il potere senza volto del gregge ad avere creato “l’Apparato”, immagine dei propri occhi smarriti.
Un sistema di valori in fondo nichilista, come quello egalitario che, nelle sue varie laicizzazioni, discende diretto dal cristianesimo, non poteva che avere quale immagine politica, sociale ed economica un gigantesco “Apparato” vuoto di ogni senso, controllore e tiranno come la morale biblica del tu devi e terribile all’individuo come il giudizio finale.
Non è certo respingendo gli strumenti tecnologici dell’apparato che si può mutare la situazione (a meno di non voler agire come quegli stolti che chiedono urlanti il bando delle armi credendo con ciò di risolvere i conflitti). E’ la visione del mondo che lo sostiene a dover essere ribaltata.
Le stesse tecnologie impiegate per “tutorare” (termine significativo di come si sia voluto trasformare l’automobilista da animale da preda teso alla sfida, alla difficoltà, alla velocità e all’autosuperamento, in un animale da gregge necessario di pastori, recinti e guardiani) la velocità dei veicoli potrebbero essere impiegate per aumentare la velocità EFFETTIVA degli stessi a livelli consoni al XXI secolo (per cui qualche tempo orsono si immaginava il teletrasporto) garantendo la medesima sicurezza. Invece qui, come in ogni campo, anziché anziche’ cercare nella massa di migliorare i mezzi meccanici (con assetti sportive, freni da corsa, motori potenziati) e le abilita’ umane (con corsi di guida in pista, studio della dinamica del veicolo, interiorizzazione delle mosse necessarie in condizioni limite, affinamento della sensibilita’al comportamento della vettura in ogni circostanza e soprattutto in velocita’) per rendere quante piu’ vetture e quanti piu’ piloti in grado, a parita’ di condizioni, di essere sia piu’ veloci sia piu’ sicuri, si preferisce negare la possibilita’ di essere al contempo veloci e sicuri e si danna e si condanna chi, per eccellenza di mezzi meccanici e di abilita’ personale, per conoscenza, studio, impegno e doti naturali ed acquisite, potrebbe viaggiare piu’ veloce a pari sicurezza!
E questo, a prescindere dal mio amore incommensurabile per la divina rapidità, è una immagine simbolo dell’attuale regresso umano, dovuto all’egalitarismo, dunque alla sopravvalutazione dell’individuo indifferenziato, all’impossibilità di sacrificarlo, alla dannazione del tipo aggressivo capace di accettare morte, dolore, fatica per il suo stesso superamento, a tutto quanto insomma Nietzsche ha ben per tempo imputato alla visione del mondo portata dal cristianesimo delle origini. Se non lo volete chiamare superuomo, chiamatelo terzo uomo, ma l’avvento di un essere che superi questo ultimo uomo è necessario, come fu necessario l’uomo storico per superare l’uomo naturale incapace di creare con gli strumenti un nuovo senso per la vita.
Come dicevo a Giubizza:
“L’alternativa è solo quella di accontentarsi che la storia finisca in un “verde pascolo delle greggi”, in un regno “di libertà e di giustizia” (fallacemente intese come licenza di essere e fare di tutto entro certi limiti e come uguaglianza qualitativa), un tempo magari identificato da molti nella “società senza classi” e oggi (in maniera ancora più pericolosa perché più subdola e incoscia) visto da quasi tutti (su un’onda di pensiero cavalcata da pensatori quali Fukuyama) nella società liberal-liberista più o meno “socialmente corretta” (magari per poi ritrovarsi con controllo sistematico, incapacitante e ossessivo di una tecnica acefala sull’uomo privo degli strumenti culturali per dominarla e quindi destinato ad esserne dominato come chiunque non voglia o non sappia costruire una visione del mondo per darsi un destino, con l’oppressione di un sistema autoreferenziale, insensato e a volte distruttore, sull’individuo, con l’imbrigliamento di ogni qualità più nobilmente umana all’interno di una società sempre più simile a un formicaio, incapace di ogni superamento e di ogni significato, degna degli insetti più che degli uomini).
Anche senza considerare le sia pure possibili catastrofi atomiche o ambientali insite in questo “sistema di buon senso”, il pericolo, anzi, la certezza se una scelta in senso inverso (ovvero nel senso dell’oltreuomo, o del terzo uomo) è che l’attuale secondo uomo diventi una “specie fredda”, capace solo di riprodurre all’infinito le stesse cose, perdendo quella proprietà sua caratteristica dell’inventarsi continuamente (del “poter essere qualunque animale”, direbbe, sia pur con opposto giudizio di valore fatto passare per scienza, un personaggio a voi certamente più caro e conosciuto di me e di Nietzsche) del decidere del proprio destino come per la prima volta ha fatto nella sua entrata nella storia.”

Vogliano gli dèi che l’attuale caos non sia per l’uomo solo l’ultimo spasimo prima del rigor mortis.

Dell’esistenza delle multinazionali e dei poteri che rendono (in prospettiva prossima) il sistema simile a un “grande fratello” e a una “dittatura universale” è responsabile la rivoluzione borghese, quindi il tipo umano mercantile. Il tipo ingegneristico è un tipico uomo apollineo presente anche in ogni civiltà classica (non sovvertita) e non ha colpe sul modo in cui il resto della società applica le sue creazioni. Non diamo la colpa a Fidia se gli altri uomini usano le sue statue come attaccapanni.
Gli ingegneri forniscono al mondo attuale macchine meravigliose. E’ l’uomo moderno che le usa per fini assai poco magnifici e progressivi. Il progresso sostanziale (quello che produce i “cambi di paradigma”, “i salti di livello”) si è da tempo fermato (o comunque procede rallentando): non è più propriamente vero che “la tecnica va avanti”. Più correttamente: le multinazionali trovano sempre nuovi modi di applicare tecnologie “vecchie” ad aggeggi inutili e a presentare come “novità ingegneristiche” e “oggetti trendy” semplici rivisitazioni e perfezionamenti di sistemi noti da tempo, quando non copie tecnicamente identiche diverse solo nella forma “mercantile” con cui vengono esposte al pubblico. I chip elettronici utilizzano ancora il silicio come trenta anni fa, gli aerei hanno tempi di percorrenza di cinquanta anni fa, per ordine di grandezza, , le auto funzionano a combustione interna come un secolo fa. Al massimo le macchine vengono affinate. Ad un affinamento delle macchine non corrisponde però un affinamento dell’uomo e la risposta è semplice: l’uomo non ha il coraggio né la consapevolezza, né la capacità di controllo e di creazione di senso necessari per agire su se stesso.
Basti pensare alla maledizione corale scagliata contro l’eugenetica, contro le biotecnologie o anche solo all’opposizione del mondo “etico” e “cristiano” alla possibilità di far nascere, grazie a diagnosi precoci, bambini sani anziché malati. Assomiglia tanto alla maledizione biblica sull’entrata dell’uomo nella storia.
Siamo di fronte alla medesima paura, alla medesima freudiana rimozione che ebbe il primo uomo (l’uomo naturale) al contatto con le sfide da cui nacque il secondo uomo (l’uomo storico): si preferisce fuggire il nuovo piuttosto che affrontarlo (e in questo errore cade anche una parte dei tradizionalisti).

E’ tempo quindi che lasci la discussione per affrontare il mio mondo. Cercherò di non infestarlo.

SALUTI INGEGNERISTICI DALLA SUBLIME PORTA

 
At Salı, Eylül 02, 2008 8:17:00 ÖS, Blogger Rocky Joe said...

Ho capito che “mestiere” fa questa Chiara, ma non ho capito come mai i tuoi post portano sotto questa firma. Ma non credo che comunque faccia molto onore a una persona colta e intelligente come te parlare di un tale personaggio. Questo a meno che non ci sia qualcosa sotto ovviamente…
Col mestiere che questa tipa fa, poi, una che vive speculando su veri o presunti bisogni sessuali maschili e fa pure la femminista da operetta, avrebbe una ragione in più per mettere la testa in una particolare tazza di ceramica per rinfrescarsi le “idee” (ammesso che tale nobile termine sia consono alle sue “stravaganze”).
Vabbe’, lassamo sta’ va, e passiamo al testo.
Non capisco perché mi dai del voi, comunque hai ragione: sono parecchio stanco di internet, sia perché sto in un internet point e non ho molto tempo (né voglia) per leggere e scrivere, ma anche perché, seppure scrivi cose interessanti, sei un po’ prolisso e io sono un po’ pigro, soprattutto nel leggere sul monitor. Sono un tradizionalista, amo la vecchia carta stampata e se devo leggere con attenzione testi lunghi preferisco un libro in carta stampata vecchio stile. Del resto io son fatto così, mi stanco subito delle cose nuove per tornare alle cose vecchie. Scherzi a parte, posso leggere la tua replica solo frettolosamente, quindi se appare chiaro da questa mia risposta che ho tralasciato qualcosa ti chiedo scusa, ma davvero non posso rimanere attaccato al monitor per troppo tempo, sia per ragioni di tempo che di denaro.
Però posso biasimarti il fatto che un sultano dei tempi migliori, più che suggerirmi di spulciare i commenti del tuo post, mi avrebbe consigliato di rileggermi l’ultimo capitolo di “Al di là del bene e del male” dedicato, appunto a “Cos’è aristocratico”.
Continui a includermi tra questi benedetti “egalitari”, per me può anche andare bene, tanto non mi interessano le etichette che mi affibbiano. Mia hanno dato del “fascista”, del “comunista”, del “liberal”, dell’”anachico” e via cantando, ormai mi ritengo tutto e niente. Ma di certo non mi ritengo, né intenderei esserlo, un “aristocratico”, un “nobile” o un “superiore”. Tengo troppo a me stesso per sentirmi obbligato a misurarmi con gli altri. Né condivido tutta questa smania di “superiorità”.
Vedi, essendo io un plebeo, ho dei metri di giudizio piuttosto pratici. Per questo la tua definizione di “nobile” e “plebeo” non mi convince. La vedo come un concetto che definisce se stesso, una “causa sui” direbbe Friedrich: “Cos’è nobile? Tutto ciò che porta a cose nobili”. Mah, non mi convince. E chi è che vive “a sbafo”? Un muratore è nobile o plebeo? Chi fa le pulizie vivrebbe a sbafo? A me pare più che fosse il tuo Nietzsche a vivere a sbafo. E con questo non intendo biasimarlo, anzi, buon per lui. Si, avrà anche scritto cose carine, ma se non vi fosse stato chi avesse costruito le case dove lui alloggiava? E i tipografi che gli stampavano i libri e via discorrendo? Per quel che mi riguarda costruire cose materiali non è meno necessario e “nobile” che scrivere.
Le stesse argomentazioni sono avanzate dal femminismo (o meglio quello che io definisco figocentrismo che ne è l’attuale degenerazione) che pretenderebbe di definire ciò che è “femminile” e ciò che è “maschile” stabilendo che il “femminile” sarebbe superiore al “maschile”.
E cosa vuol dire “malriuscito”? Riuscito male? Ma male rispetto a che? Vuol dire che doveva “riuscire” in un modo e invece è “riuscito” in un altro? E come doveva riuscire invece? Se poi questa categoria costituisce la maggioranza degli uomini non sarebbe legittimo il sospetto che in realtà sono le eccezioni “nobili” ad essere i malriusciti? E cosa è “mediocre”? Vuol dire che c’è di peggio e di meglio? E che si colloca a metà strada tra il peggio e il meglio? E cos’è il “meglio”? Cosa il “peggio”? E in che senso è a “metà” strada? Conosciamo con esattezza l’ampiezza di questa strada per sapere che c’è una “metà” e dove questa si colloca? Ognuno potrebbe dare definizioni in base ai suoi gusti personali. E poi Aristotele affermava che il giusto sta nel mezzo… Gusti suoi ovviamente. Se poi aggiungiamo le velleità “aporistiche” dello stesso Nietzsche, possiamo giungere anche a concludere che il più brutto degli uomini sia un uomo superiore… In fondo il pensiero di Nietzsche è un pensiero che si auto contraddice costantemente, e proprio questa è una delle sue caratteristiche di base. Così gli uomini “superiori” sono anche i più “falliti”, i più “malriusciti”, i più sofferenti.
Ma, guarda caso, chi sostiene ordini “sublimi” come la schiavitù, si sente sempre di non appartenere alla classe degli schiavi, si sente sempre egli stesso un “superiore”… Secondo il suo personale metro di giudizio. Tu dici che esistono uomini che PER TE per natura e sentire, etc. etc. etc. Per te, appunto! E se per qualcun altro Nietzsche sarebbe lo schiavo per eccellenza? La tua parola contro la sua, e chi dice che la tua parola avrebbe un valore superiore di quella di un altro?
Affermi che qualcosa non piace per piacere ma perché si iscriverebbe in un fine superiore. Ma non era proprio contro questa voglia di legittimare se stessi includendosi in pretesi fini superiori ciò contro cui principalmente ha lottato Nietzsche? Per lui non era tutto riconducibile alla mera volontà di potenza (forse la sua intuizione migliore)?
Forse tu trascuri variabili come il contesto sociale, tecnico, economico e storico in cui sorse la schiavitù. Lasciando stare ora i clamori delle finzioni cinematografiche e propagandistiche in generale, è questa una forma di organizzazione sociale tipica delle società povere, che hanno mezzi di sostentamento primitivi, non certo in un contesto che include mezzi tecnici quali computer, internet, informatica, macchine automatiche per produrre e via cantando (quella tecnica che giustamente tu fai notare quanto possa essere, non a torto, temibile nell’attuale sistema). La mia perplessità riguardo un presunto ritorno della schiavitù antica non è di ordine morale, ma direi “tecnico”. Oggi siamo in piena sovrapproduzione. Ogni essere umano potrebbe avere molto per vivere lavorando poco e senza infastidire i suoi simili. Perché insistere con forme di dominio vecchie e mummificate? Quell’ordine cosmico di cui parli forse è solo un contesto caratterizzato dalla miseria. Magari un contesto con abbondanza di risorse potrebbe avere “ordini cosmici” diversi. E chi ha detto che esiste un solo ordine cosmico? La pretesa di un unico ordine cosmico non nasconde una concezione troppo rigida e statica dell’essere umano? Come se questo potesse esprimersi al meglio solo in un determinato contesto. Ma l’uomo non è forse molto più versatile, dinamico, multiforme di quanto non lo si pensi? E poi, per dirla con Zarathustra, che importa l’ordine cosmico?
Ma se riflettiamo bene una forma di società schiavista la proponevano (o la propongono?) anche i marxisti. Voler istituire una nuova classe aristocratica, i funzionari del Partito, sulla base di un’ideologia che pretenderebbe vedere in tale sistema la “liberazione” dell’uomo non è forse una forma di schiavismo? E che dire dei milioni di esseri umani (anzi forse miliardi ormai) che oggi vivono in condizioni precarie e sono costretti a sfacchinare per campare? Non sono già queste forme di schiavitù? Come hai tu stesso affermato, per quel che mi riguarda già oggi viviamo (e abbiamo sempre vissuto) in una società schiavista, nella “nietzschiana” società “superiore”, o “olimpica”, appunto. E il fatto che a te (e a Nietzsche) non piaccia non lo trovo un argomento contrario a tale asserzione. Certo, le argomentazioni non andrebbero dimostrate, dimostrare sarebbe un “pregiudizio illuministico”. Sarebbe a dire che ciò che io dico è vero e “giusto” solo perché lo dico io e a me piace. E sarebbero questi i “saldi principi” su cui si fonderebbe una società “superiore”? Diciamo che l’attuale società “olimpica” e schiavista non ti piace e ne vorresti una che ti piace. Forse il problema è molto più semplice (e personale) di quanto tu sia portato a crederlo. E del resto come biasimarti per questo?
Il mondo di oggi non è certo il miglior mondo possibile, è un mondo che tra dogmi antichi e nuovi e con costrizioni materiali per lo più fondate sul bisogno, vuole continuare a imporre agli uomini come essere e cosa volere, l’imperativo del “tu devi”, insomma, quello che tu stesso citi. Oggi viviamo in una società schiavista, perché non c’è una differenza sostanziale tra la schiavitù degli antichi e quella di oggi. Lavorare per necessità è una forma di schiavitù. Il lavoro è un ricatto. E non c’è poi una grande differenza sostanziale tra le classi dirigenti dell’antichità e le attuali cricche di potere a parte certe sfumature come il tipo di cultura, i gusti, lo stile di vita e così via. Ora per te queste “nuances” potranno sembrare degli elementi fondamentali, per me invece non sono neanche superficie, come direbbe la buonanima di un nostro amico.
Ma proprio perché gli uomini sono diversi ritengo soluzione migliore lasciare che ognuno possa decidere, senza costrizioni né di bisogni né di altro tipo, riguardo i propri desideri, le proprie inclinazioni e che nessun essere umano o cricca di potere decida per gli altri. E poi chi dovrebbe essere all’altezza di decidere per gli altri? Stando alla tua definizione di “nobile” ognuno potrebbe credersi tale. Che sia il libero gioco delle volontà a far nascere cose che potranno essere considerate belle e “sublimi” da chi ne è portato. Perché non sostituire ogni “tu devi” con un “io voglio” di tutti, collettivo e globale. Perché no? Questo non mi scandalizza affatto.
Se un uomo è tanto “superiore” non credo che abbia bisogno di altri uomini (gli schiavi) su cui appoggiarsi per esprimere la propria creatività. Con la tecnica produttiva odierna il tuo uomo “superiore” potrebbe benissimo “creare” ciò che vuole senza rompere le scatole a noi volgari plebei. Che lo faccia, non sono certo io a volerglielo impedire.
Infine ti faccio notare che non sono io a tenere viva la distinzione tra natura e cultura, anzi io la contesto. Puoi leggere questo mio post: http://giubizza.blogspot.com/2007/08/il-dilemma-tra-natura-e-cultura.html dove troverai le fesserie che ho scritto al riguardo.
Ti lascio con una domanda: a lungo andare la pretesa di voler contestare tutto non porta forse ad accettare tutto? Sarebbe a dire a non contestare niente? Ma perché poi contestare a ogni costo?
Dal canto mio posso affermare solo una cosa: non è tornando indietro che si risolvono i problemi, ma andando avanti.
Ciao

 
At Çarşamba, Eylül 03, 2008 10:34:00 ÖÖ, Anonymous Adsız said...

""Io non stavo parlando affatto di un CONTRASTO fra pochi e molti in nome di qualcosa, o fra uomini e donne, ma della mancanza di un ordine che ponga i pochi eccellenti e forti sopra i molti deboli e mediocri e il principio virile e solare (quindi il nietzscheano autosuperamento, come ho tentato di spiegare nel post e nella risposta a Giubizza) sopra quello femminile e lunare (e quindi la conservazione, l’egalitarismo, l’eudemonologia, secondo i modi più volte discussi). ""

tradizione vuole apollineo e dionisiaco disposti come yin e yang. Qualunque altra configurazione è arbitraria, assoggettare questi principi ad un qualsivoglia criterio gerarchico fa parte della politica, non della filosofia. Una annotazione: il principio di conservazione non è lunare bensì solare, tradizionalmente apollineo. La sovversione del debole contro il forte avviene di notte.

""Si possono benissimo ignorare o evitare i contrasti fra tutto e tutti, si può sopportare qualsiasi cosa, ma non si possono affatto ignorare le conseguenze della dissoluzione dell’ordine cosmico. Non è questa la sede per discutere se tale fase sia un necessario Kali Yuga come vogliono gli evoliani e i tradizionalisti in genere o una evitabilissima decadenza come voleva Nietzsche, e quindi quale azione si debba svolgere.""

Nietzsche voleva una "evitabilissima" decadenza? Vorrei che il sultano chiarisse questo concetto che pare, in questa succinta enunciazione, totalmente inconciliabile col pensiero del Filosofo.

""Ritengo che Mr Mandelbrot attribuisca alla tecnica tutte le colpe e le responsabilità di quel particolare tipo umano che oggi la applica alla politica, alla società, al mondo. Anche l’uomo del neolitico aveva la sua tecnica, ma ciò non lo rendeva succube di un apparato ed egalitariamente appiattito su esso, perché la sua visione del mondo era in grado di dare un senso superiore a quella tecnica. Il problema attuale non è che ci sia “troppa tecnica” o che vi siano “troppi ingegneri”, ma che l’uomo, per come ha scelto ormai da duemila anni di evolversi (o involgersi), non possiede più una visione del mondo adeguata a padroneggiare la tecnica più evoluta, la complessità dei problemi da essa generati e a dare un significato, un valore, una bellezza superiori al tutto. E chi non domina è necessariamente dominato. Tertium non datur.""

Il sultano ha trascurato la maggior parte di quello che è stato detto da Mr.M., non stupisce quindi che abbia frainteso quel poco che resta. Non ci sono colpe da attribuire nè uomini colpevoli di alcunchè. La parola 'Necessità', enfatizzata con apici e maiuscolo, dovrebbe risuonare come una campana in chiunque abbia anche solo una lieve infarinatura di filosofia. Incidentalmente Mr M. è egli stesso un ingegnere, e non lamenta affatto le conseguenze che il dominio del mondo e dell'uomo attraverso la tecnica produce, ma le rileva con occhio impavido e lungimirante.

""Non è l’Apparato ad essere acefalo, insensato, massificante, annichilente in sè perché è tecnico, ma è l’ultimo uomo di oggi, con la sua mancanza di mente, di significati, di eccellenze, di valori, a rendere acefalo il sistema. Il resto è solo una conseguenza, non una causa.""

Nessun Apparato -nell'accezione severiniana- è acefalo -nell'accezione sultaniana-. Nessuno qui ha mai sostenuto questo.

""Quali mirabilie sarebbero possibili con le stesse tecniche oggi impiegate per limitare, rassicurare, eguagliare, controllare gli uomini? Nessuna nuova scoperta sostanziale sarebbe necessaria per realizzare “cose che voi umani non potreste mai immaginare”. Basterebbe saper impiegare costruttivamente ed “eroicamente” quanto già è stato scoperto. I futuristi furono i primi e forse gli unici a capire, reinterpretare e cantare tutto ciò (infatti sono negletti dall’attuale cultura, quando non apertamente messi in ridicolo fin dai banchi di scuola). Sono le pretese di sicurezza, di pacificazione, di limitazione, di appiattimento ad impedire applicazioni “anagogiche” della tecnologia. Sono la preoccupazione di volersi assicurare un verde e tranquillo pascolo e il patetico sentimentalismo del dare sempre ragioni e diritti a chi meno vuol rischiare, meno è abile, ardito, aggressivo e dinamico e più vuol conservarsi, contro chi più sa rischiare e superarsi, più mostra abilità e coraggio e meno vuole risparmiarsi, a generare l’attuale stato di cose. Il gregge di pecore genera gli stati democratici e i controlli sociali tecnologici, non vengono questi imposti dal cielo. E’ il potere senza volto del gregge ad avere creato “l’Apparato”, immagine dei propri occhi smarriti.""


Qui parla l'adolescenza del sultano. Il Filosofo comprende questo linguaggio ma lo osserva da una certa distanza.


""Un sistema di valori in fondo nichilista, come quello egalitario che, nelle sue varie laicizzazioni, discende diretto dal cristianesimo, non poteva che avere quale immagine politica, sociale ed economica un gigantesco “Apparato” vuoto di ogni senso, controllore e tiranno come la morale biblica del tu devi e terribile all’individuo come il giudizio finale.
Non è certo respingendo gli strumenti tecnologici dell’apparato che si può mutare la situazione (a meno di non voler agire come quegli stolti che chiedono urlanti il bando delle armi credendo con ciò di risolvere i conflitti). E’ la visione del mondo che lo sostiene a dover essere ribaltata.""


Il Nichilismo E' lo Spirito dei Tempi ed il sapere scientifico è conseguentemente la gnoseologia dominante.
Il sultano forse non comprende che Nietzsche e Leopardi (incredibilmente vicini nel pensiero) sono precursori dell'era attuale, alfieri della scienza contemporanea. Il sultano dovrebbe meditare che al di la delle forme accidentali e le sovrastrutture ideologiche che assume di volta in volta la storia (democrazia, capitalismo, comunismo etc.), tutte oggi sottendono lo stesso identico paradigma ontologico leopardiano: la cieca fede nel Nulla e nel Divenire. Qui comincia il dominio della tecnica, qui comincia la ragione di necessità. Attribuire colpe al popolino, alla mollezza delle donne, o alla meschinità degli albionesi è tributare a queste creature una eccessiva importanza, oppure è roba da buffoni del ventennio, utile per far marciare dritto il gregge, utile per impastoiare un po' di sedicenti intellettuali (perchè nessun vero intelletto ha mai amato quel ventennio, esso è stato amato solo da pance), ma certo non utile per avvicinarsi all'Episteme.
Cosa totalmente diversa è mantenere una saggia distanza dal gregge umano, dai concetti di libertà, eguaglianza, etc conculcati come Assolute Verità. Questa è disciplina della mente, questa è la via dello Spirito, che brucia ciò che tocca e si solleva verso lontananze in azzurro e solitudine, ove la sua fiamma non si estingue.

""Le stesse tecnologie impiegate per “tutorare” (termine significativo di come si sia voluto trasformare l’automobilista da animale da preda teso alla sfida, alla difficoltà, alla velocità e all’autosuperamento, in un animale da gregge necessario di pastori, recinti e guardiani) la velocità dei veicoli potrebbero essere impiegate per aumentare la velocità EFFETTIVA degli stessi a livelli consoni al XXI secolo (per cui qualche tempo orsono si immaginava il teletrasporto) garantendo la medesima sicurezza. Invece qui, come in ogni campo, anziché anziche’ cercare nella massa di migliorare i mezzi meccanici (con assetti sportive, freni da corsa, motori potenziati) e le abilita’ umane (con corsi di guida in pista, studio della dinamica del veicolo, interiorizzazione delle mosse necessarie in condizioni limite, affinamento della sensibilita’al comportamento della vettura in ogni circostanza e soprattutto in velocita’) per rendere quante piu’ vetture e quanti piu’ piloti in grado, a parita’ di condizioni, di essere sia piu’ veloci sia piu’ sicuri, si preferisce negare la possibilita’ di essere al contempo veloci e sicuri e si danna e si condanna chi, per eccellenza di mezzi meccanici e di abilita’ personale, per conoscenza, studio, impegno e doti naturali ed acquisite, potrebbe viaggiare piu’ veloce a pari sicurezza!
E questo, a prescindere dal mio amore incommensurabile per la divina rapidità, è una immagine simbolo dell’attuale regresso umano, dovuto all’egalitarismo, dunque alla sopravvalutazione dell’individuo indifferenziato, all’impossibilità di sacrificarlo, alla dannazione del tipo aggressivo capace di accettare morte, dolore, fatica per il suo stesso superamento, a tutto quanto insomma Nietzsche ha ben per tempo imputato alla visione del mondo portata dal cristianesimo delle origini. Se non lo volete chiamare superuomo, chiamatelo terzo uomo, ma l’avvento di un essere che superi questo ultimo uomo è necessario, come fu necessario l’uomo storico per superare l’uomo naturale incapace di creare con gli strumenti un nuovo senso per la vita.""

L'uomo dipende sempre più dai suoi oggetti, e questa è una alienazione. La tecnologia aumenta il potere controllato dall'uomo senza aumentare il potere dell'uomo. Il potere della tecnologia sussiste anche senza l'uomo: la vettura resta veloce e potente anche senza che il sultano la comandi con la sua abilità, e solo un individuo senza competenze tecniche può ritenere che un controllo automatico non possa superare, in un futuro possibile, l'abilità di qualunque uomo. Il lesto piede di achille sarà sempre più rapido di quello di un qualunque uomo, ma quando achille e quell'uomo salgono su una vettura, ecco che le differenze si annullano. La tecnologia rende eguali. Quando la tecnologia avrà raggiunto il potere cui tende (il paradiso della tecnica), essa sarà capace di rendere egualmente belli sia il brutto che il bello, egualmente sani sia il malato che il forte e così via, e la possibilità di mettere in atto un simile potere dipenderà non più dall'uomo, ma dalle necessità dell'apparato stesso. Gli uomini che saranno più utili all'apparato forse crederanno di "avere" potere, ma in realtà essi non saranno che strumenti sostituibili, dal momento che il potere non dipende da loro, ma dalla loro posizione.
- Spero che il sultano perdoni la risposta incompleta, ma l'apparato tecnico produttivo che tutti ci nutre reclama chi scrive, e la macchina che egli progetta reclama la sua attenzione, perciò non potrà rispondere ai successivi corposi temi introdotti dal sultano -

PS. La tecnologia perfetta eliminerà l'automobile (orribile parafernalia, pesante, goffo, sporco) e darà all'uomo mezzi per trasferirsi rapidamente senza la necessità di portarsi dietro tanto inutile metallo e sporcizia.

 
At Çarşamba, Eylül 03, 2008 11:37:00 ÖÖ, Blogger Beyazid II Ottomano - Sultano di Costantinopoli said...

Gentile Messere (o Madonna) senza nome, è piacevole rispondervi

“tradizione vuole apollineo e dionisiaco disposti come yin e yang. Qualunque altra configurazione è arbitraria, assoggettare questi principi ad un qualsivoglia criterio gerarchico fa parte della politica, non della filosofia. Una annotazione: il principio di conservazione non è lunare bensì solare, tradizionalmente apollineo. La sovversione del debole contro il forte avviene di notte.”

Creare gerarchie fa parte dell’apollineo, e l’ingresso dell’uomo nella storia è avvenuto proprio quando l’apollineo si è fatto politica. Il resto significa restare ad una ripetizione senza senso di forme sempre uguali degna delle formiche. Perdonate se ho usato il termine “conservazione” per identificare non la persistenza di una forma chiara e solare, ma la concezione della vita quale “conservarsi senza altro scopo da un benessere da bestiame bovino”, per contrapporla a quella di autosuperamento (in cui possono rientrare tanto l’antimetafisica nietzscheana dell’oltreuomo quanto le vie tradizionali dell’ascesi verso il mondo dell’essere).


”Nietzsche voleva una "evitabilissima" decadenza? Vorrei che il sultano chiarisse questo concetto che pare, in questa succinta enunciazione, totalmente inconciliabile col pensiero del Filosofo.”

Il termine “voleva” è inteso come “sosteneva”: Nietzsche sosteneva che la decadenza fosse evitabile tramite una decisione storica dell’uomo in favore dell’oltreuomo. Non la pensava come parte di un ciclo inevitabile su cui l’uomo non può nulla.


“Il sultano ha trascurato la maggior parte di quello che è stato detto da Mr.M., non stupisce quindi che abbia frainteso quel poco che resta. Non ci sono colpe da attribuire nè uomini colpevoli di alcunchè. La parola 'Necessità', enfatizzata con apici e maiuscolo, dovrebbe risuonare come una campana in chiunque abbia anche solo una lieve infarinatura di filosofia. Incidentalmente Mr M. è egli stesso un ingegnere, e non lamenta affatto le conseguenze che il dominio del mondo e dell'uomo attraverso la tecnica produce, ma le rileva con occhio impavido e lungimirante.”

L’Etica fondata sulla Necessità anziché sulla morale è il nocciolo della visione nietzscheana e suona ben più armoniosa di una campana. Il bene in lui è quanto discende dalla “necessità” del compiere la propria opera di grandezza divenendo ciò che si è. Ma ciò che l’uomo storico è non è disgiunto dalla tecnica, e solo volgendo la tecnica verso un superamento dell’umano si potrà superare la decadenza o la fase oscura. Di qui la mia diffidenza per il considerare scontato che “la tecnica domini l’uomo e il mondo”. E’ quanto sta avvenendo ora, ma non è quanto è necessario avvenga in eterno. Dipenda dalla scelta dell’uomo.


”Nessun Apparato -nell'accezione severiniana- è acefalo -nell'accezione sultaniana-. Nessuno qui ha mai sostenuto questo.”

E allora donde viene il sacro terrore della tecnica?


”Qui parla l'adolescenza del sultano. Il Filosofo comprende questo linguaggio ma lo osserva da una certa distanza.”
Ma crescere non significa ritrovare da grandi la serietà che si metteva nel gioco da fanciulli? L’ultima delle metamorfosi dello spirito è quella del Leone in Fanciullo. Solo in tale stato di innocenza si può creare oltre.


“Il Nichilismo E' lo Spirito dei Tempi ed il sapere scientifico è conseguentemente la gnoseologia dominante.
Il sultano forse non comprende che Nietzsche e Leopardi (incredibilmente vicini nel pensiero) sono precursori dell'era attuale, alfieri della scienza contemporanea. Il sultano dovrebbe meditare che al di la delle forme accidentali e le sovrastrutture ideologiche che assume di volta in volta la storia (democrazia, capitalismo, comunismo etc.), tutte oggi sottendono lo stesso identico paradigma ontologico leopardiano: la cieca fede nel Nulla e nel Divenire. Qui comincia il dominio della tecnica, qui comincia la ragione di necessità. Attribuire colpe al popolino, alla mollezza delle donne, o alla meschinità degli albionesi è tributare a queste creature una eccessiva importanza, oppure è roba da buffoni del ventennio, utile per far marciare dritto il gregge, utile per impastoiare un po' di sedicenti intellettuali (perchè nessun vero intelletto ha mai amato quel ventennio, esso è stato amato solo da pance), ma certo non utile per avvicinarsi all'Episteme.
Cosa totalmente diversa è mantenere una saggia distanza dal gregge umano, dai concetti di libertà, eguaglianza, etc conculcati come Assolute Verità. Questa è disciplina della mente, questa è la via dello Spirito, che brucia ciò che tocca e si solleva verso lontananze in azzurro e solitudine, ove la sua fiamma non si estingue.”

Che Leopardi sia precursore di Nietzsche è da me stato sostenuto in precedenza. Che però la modernità sia espressione di entrambi denota un rovesciamento perfetto delle loro opere. Leopardi con una lucidità assai rara nei poeti (i quali, come Foscolo, amano spesso abbandonarsi alla vaghezza del sogno) mostra dove porti l’individualismo eudemonico (brevemente: dall’individuo come centro di ogni valore deriva che il mondo è finitezza circondata da due nulla infiniti e dalla felicità come bene deriva la non esistenza di alcun fine positivo, dato che la vita è sofferenza) e Niezsche, a partire da questa premessa, insegna ad andare oltre. Come aveva acutamente notato il De Sanctis, Leopardi fa desiderare l’opposto di quanto razionalmente sostiene (a proposito del sentire più importante del pensare….) e Nietzsche condanna senza mezzi termini l’ultimo uomo che saltella sulla terra divenuta piccola credendo di aver inventato la felicità (e tale ultimo uomo infesta la terra, non l’oltreuomo o l’ingegnere).

Quanto al ventennio, le sue colpe risiedono nell’aver ricondotto un movimento autenticamente innovatore come il Futurismo all’interno di un conservatorismo italico borghese e clericale, e nell’aver proposto un tipo spirituale e guerriero soltanto a parole e non a fatti. Del fallimento del fascismo si servono però tutti i sostenitori del fronte egalitario per dipingere quale male assoluto qualsiasi tentativo passato, presente e futuro di tradurre in atto una visione del mondo sovrumanista.
Non stupisce che tutti gli intellettuali siano antifascisti: gli intellettuali moderni appartengono per sentire e per interesse al campo egalitario. Difatti Nietzsche, Evola, Locchi sono da me chiamati “maestri”, non intellettuali.
Atteggiarmi però a discepolo staccato dal mondo e solo per questo sedicente aristocratico non è però nella mia natura. Pazienza se il mondo anziché “iniziato dello Spirito” mi chiama “sporco fascista”. Mi basta essere consapevole di come il “fascismo storico” sia ridicolmente poco, davvero opera di buffoni, ma nel senso inverso del giudizio democratico.
Che il mercato gridi pura contro Zarathustra. Egli mi insegna che fallire in un’impresa non è affatto segno di un errore nel volere l'opera, ma della grandezza di essa, indissolubilmente legata alla difficoltà e alla necessità di fallire tante volte prima del "colpo fortunato".


”L'uomo dipende sempre più dai suoi oggetti, e questa è una alienazione. La tecnologia aumenta il potere controllato dall'uomo senza aumentare il potere dell'uomo. Il potere della tecnologia sussiste anche senza l'uomo: la vettura resta veloce e potente anche senza che il sultano la comandi con la sua abilità, e solo un individuo senza competenze tecniche può ritenere che un controllo automatico non possa superare, in un futuro possibile, l'abilità di qualunque uomo. Il lesto piede di achille sarà sempre più rapido di quello di un qualunque uomo, ma quando achille e quell'uomo salgono su una vettura, ecco che le differenze si annullano. La tecnologia rende eguali. Quando la tecnologia avrà raggiunto il potere cui tende (il paradiso della tecnica), essa sarà capace di rendere egualmente belli sia il brutto che il bello, egualmente sani sia il malato che il forte e così via, e la possibilità di mettere in atto un simile potere dipenderà non più dall'uomo, ma dalle necessità dell'apparato stesso. Gli uomini che saranno più utili all'apparato forse crederanno di "avere" potere, ma in realtà essi non saranno che strumenti sostituibili, dal momento che il potere non dipende da loro, ma dalla loro posizione.”
Tutto questo è platealmente vero oggi e da voi molto ben descritto, ma non è affatto “necessario”. E’ frutto della scelta dell’uomo di restare ancorato a paradigmi non adeguati a gestire le sfide tecnologiche attuali. Permettetemi di suggerirvi un testo in proposito, per quando avrete tempo: “Biopolitica, il nuovo paradigma” di StefanoVaj (c’è anche la versione online, se ciò non sconvolge troppo il vostro paradigma di fruizione letteraria: http://www.biopolitica.it/biop-testo.html)
Non c’è solo Severino a parlare della Tecnica.


“La tecnologia perfetta eliminerà l'automobile (orribile parafernalia, pesante, goffo, sporco) e darà all'uomo mezzi per trasferirsi rapidamente senza la necessità di portarsi dietro tanto inutile metallo e sporcizia.”

L’automobile è una forma d’arte tecnologica (e del resto tecnica e arte non sono sinonimi per i Greci?). E’ la modernità che l’ha ridotta ad elettrodomestico fatto di inutile metallo e sporcizia. Gli unici che l’avevano vista come Arte erano i vituperati Futuristi.
La visione opposta da voi accettata discende da quel “passatismo” che tende ad identificare ogni bellezza, ogni valore ed ogni significato con le forme “cristallizzate” da un certo periodo storico e ritiene ormai impossibile generare oltre.
E’ solo la proiezione in campo estetico di quella “paura per la sfida faustiana” che domina l’umanità attuale, del tutto simile a quelle società primitive che sono uscite dalla storia per paura delle sfide e dei mezzi introdotti dall’uomo storico (e che al contatto con questo si estinguono).

SALUTI E BUON LAVORO DALLA SUBLIME PORTA

 
At Çarşamba, Eylül 03, 2008 12:01:00 ÖS, Blogger Beyazid II Ottomano - Sultano di Costantinopoli said...

Caro Messer Giubizza,

Chiara non è la mia firma, è l'etichetta dei post che scrivo da quando sono tornato (anche io ero mancato per molto tempo da internet) con il preciso intento di sostenerla dagli attacchi infami del popolaccio.

Non ho consigliato la rilettura del capitoletto nietzscheano perchè so che Nietzsche per amore dell'aristocrazia (ossia per non essere capito se non da chi ha il suo sentire o un sentire affine) si esprime in forma oracolare, tanto da necessitare di "parafrasi" per essere "divulgato" (cosa che certo non vorrebbe). Mi sono dunque furtivamente introdotto fra lui e voi per spiegarne il "sugo della storia".

Aggiungo solo a quanto già detto e da voi sommariamente letto che qualsiasi tentativo di far passare la definizione di nobiltà sovrumanista quale "personalismo" è frutto di un abbaglio caratteristico dei tempi ultimi. Non si può capire davvero Nietzsche (autore modernissimo) se non si è capito dalla Baghavad Gita (testo antichissimo) che "l'io è un'illusione". Quanto davvero per Nietzsche dà senso superiore alla vita è il Sè, l'eterno Sè già conosciuto da ogni civiltà tradizionale, non l'illuministico "io". Dell'io non importa e per questo Nietzsche rifiuta ogni "ricerca della felicità". E per questo ho chiamanto l'egoismo del superuomo "il grande egoismo che dona". Il fine non è prendere, tiranneggiare e sfruttare per ingigantire a dismisure l'io, come certi lettori frettolosi di Nietzsche pensano, ma superarlo per donare alla vita e al mondo valori, bellezze e significati superiori.
Se siete convinto che questi non esitano non insisto, ma per piacere non continuate con la solita musichetta "ah, definisce nobile quello che gli fa comodo". Sarà vero questo forse per i plebei di oggi, non certo per Nietzsche, la cui intera vita (al contrario di quella di tipini come Engels o Marx) è il contrario di una "ricerca della felicità".

Tutte le domande di cui mi sommergete sono tipiche di chi assume che nulla esista (di valore) e che qualsiasi cosa, qualsiasi valore, qualsiasi significato, qualsiasi bellezza, qualsiasi differenza, qualsiasi giudizio si voglia affermare debba prima essere dimostrata. Ma questa è precisamente la visione del nichilista (detta in breve). Chi invece (in maniera altrettanto logicamente sensata, almeno a priori), assume l'esistenza di qualcosa (perchè magari la vede, la sente come esistente) dimostra il resto a partire da quella. Nessuno dei due è in fallo logico, sebbene dicano cose diametralmente opposto. Sostenere l'esistenza di un valore superiore a partire dal fatto di sentirlo sta alla pari di sostenere la non esistenza di valori superiori a partire dal fatto di non sentirli. Siete voi a fare del vostro "sentire che non" un dato di fatto oggettivo e del nietzscheano "sentire che sì" un arbitrio. Non esiste alcun argomento razionale che impedisca a me di dire che è vero il contrario.
E' solo il maggior numeri dei "sentire che non" a fare apparire "più razionale" il vostro discorso. Ecco: questo io ho chiamato "sovversione egalitaria".

Forse voi vi scandalizzate perchè ho detto che "ogni dimostrazione è utopia?"
Non intendevo negare la validità delle dimostrazioni in sè, ma la presunta "scientificità" di chi fa passare per vero quanto è perfettamente dimostrato, ma solo a partire da premesse la cui verità non è a sua volta dimostrabile, ma solo mostrabile a chi vive secondo un determinato sentire. E' precisamente il caso della presunta "razionalità" dell'egalitarismo, i cui sostenitori si scandalizzano quando qualcuno osa rilevare come dietro la loro parvenza "dimostrativa" si celino premesse tutt'altro che scontate (come vi ho fatto più volte rilevare). Non sono dunque a favore del “non dimostrare mai nulla”, ma del “non fidarsi di una dimostrazione formalmente corretta ma partente da ipotesi la cui verità è tacitamente assunta valida per tutti gli uomini”. Ecco cosa intendo per “pregiudizio illuminista”.
Laddove si può ricavare qualcosa tramite dimostrazione logica sono il primo a sostenere tale via, ma laddove ciò non è possibile, ritengo più onesto ammettere che "bisogna prima vivere i principi".
Non dico che le dimostrazioni siano da eliminare (anzi, in matematica mi piacciono moltissimo): dico piuttosto che sono da prendere per ciò che sono. Portano ad un risultato valido solo se si assumono valide le premesse. Ma nel caso di ogni discorso sulla vita e sul suo significato tali premesse non sono affatto ricavabili da altre dimostrazioni. Vanno dunque semplicemente ammesse in base a ciò che si vive. E la differenza fra chi premette una cosa e chi ne premette un'altra, essendo non frutto di un'idea ma di qualcosa di innato o comunque di legato alla persona, è l'origine della differenza qualitativa fra individui.
Non mi sembra così oscuro e irrazionale.

Se il principio del valore debba essere in quanto accumuna gli uomini nel bassamente umano del conservarsi senza altro scopo da un tranquilli benessere materiale e morale da bovino (cui sono contorno e giustificazione gli ideali di pace, uguaglianza e fratellanza universali) ovvero in quanto invece differenzia gli uomini nel più che umano di quella dimensione in grado di giustificare idealmente l’esistenza alla luce del sacro e dell’eterno o, se vogliamo parlare in termini antimetafisici, di quella disposizione a spendersi più che a conservarsi, a concepire la vita quale continuo superamento, a sacrificare persino il miglior sé pur di realizzare il proprio destino di potenza, a generare per la vita e il mondo bellezza, valori e significati superiori alla ricerca della illusoria felicità individuale e della patetica fuga dal dolore, a compiere ad ogni costo, sentendole come necessarie, opere capaci di grandezza, potenza, durata, non può essere dimostrato razionalmente: la ragione può solo sviluppare un discorso logico a partire da un assunto mitico la cui verità risiede nella natura degli uomini, non nella loro mente

Forse il giorno in cui un nichilista vi dimostrerà (razionalmente, certo) che voi non state vivendo preferirete capirmi piuttosto che smettere di voler vivere per dargli ragione.

Quanto agli schiavi e al resto, credo di aver già parlato a sufficienza di cosa sono e come vanno giudicate le civiltà antiche. Voi usate i criteri dell'utile e del tempo laddove andrebbero adoperati quelli del sacro e dell'eterno. Siete come chi voglia valutare Ferrari e Porsche in base al consumo, o la Venere di Milo in base alla quantità di marmo necessario. E' inutile proseguire oltre sul tema. Aggiungo solo: misurare il livello di una civiltà in base a quanta erba c'è nel pascolo è proprio delle capre.

E' importante certo costruire case, coltivare terreni, preparare pasti eccetera, ma si tratta sempre dei mezzi della vita, delle premesse necessarie per una vita superiore, non sono i fini.
E la società dovrebbe essere guidata da chi conosce i fini, non da chi fornisce i mezzi. Chi fornisce i mezzi deve essere guidato. La preponderanza di un tipo umano che ha come orizzonte i mezzi della vita (in particolare, ora, il tipo mercantile) e l'estinzione del tipo umano capace di conoscere e porre dei fini (le caste sapienziali e guerriere) ha generato un mondo senza senso, come diversamente non poteva essere.
Attualmente viviamo nella sopravvalutazione dell'economia e del tipo umano cui spetta tale funzione, a discapito degli altri tipi umani (ormai cancellati) e della altre funzioni di un organismo sociale sano (quella protettiva o guerriera e quella sacrale, entrambe ormai totalmente subordinate e stravolte in funzione del "business"). Permettetemi di dire che l'attuale società occidentale è come un bruto in balia del godimento bassamente materiale e dimentico di ogni sentimento come d'ogni idea.

Non ha nulla di olimpico la presunta “aristocrazia” fondata sul denaro e nient’altro, proprio perché fonda il proprio potere sulla negazione di ogni valore superiore, di ogni bellezza, di ogni significato ascendente e di ogni differenza qualitativa fra uomini, e su questo nulla lascia dominare il caso, la brutalità, l’utile e l’adattamento (esattamente come nella concezione darwiniana che ne è la proiezione sulla natura). Non c’entra qui il mio “gusto personale”: sfido a dimostrare falso che, mentre almeno in origine gli “aristoi” erano tali per determinate doti personali ed ereditarie, per precise identità di sangue e di spirito (poi via via certo decadute sino ad arrivare agli invertebrati di fine settecento), oggi i rappresentanti della classi “elevate” non sono distinti da nulla se non dal possesso di ricchezze totalmente scorrelate dal loro valore di uomini (non credo neppure più alla “meritocrazia” nel capitalismo). Questo vi dovrebbe far riflettere sulla differenza fra “casta” e “classe”.

L'accostamento fra marxismo e "nuova aristocrazia" ricalca le argomentazione di Bakunin cui rispose lo stesso Marx. Non mi introduco in liti nel campo avverso che non mi riguardano. Dico solo che in ciò denotate l'ennesimo disconoscimento di cosa un uomo non-moderno intenda per aristocratico. Ma voi leggete Evola solo quando parla di donne o anche quando parla di tradizione? Magari, se vi capita in mano qualche capitoletto di "Rivolta contro il mondo moderno" e di "Gli uomini e le rovine" dateci un'occhiata: pur non condividendolo, scoprirete che esiste un altro modo di vedere il mondo, in cui tutto quanto vi pare assurdo e arbitrario può avere un senso (magari da voi il senso più aborrito).

Voi dite di non avere obiezioni morali, ma che la schiavitù oggi non sarebbe “utile” e “pratico”, ma non vi accorgete di come in ciò vi sia già un giudizio di valore, quindi un giudizio morale. L’utile infatti non è nulla di definito oggettivamente in sé. Rispetto a cosa infatti definite l’utilità e la praticità? A cosa mira il vostro utile? Dal vostro discorso: all’ottenimento di un tranquillo e diffuso benessere materiale per l’umanità intera, quindi rispetto a quanto caratterizza il volere del tipo umano da me chiamato “da gregge”. Ecco perché evidenziavo come dietro pretese “dimostrazioni oggettive” vi siano i giudizi di valore del campo egalitario e dietro un preteso “bene comune” il bene di un solo tipo di uomo.

E qui emerge parimenti la vostra visione storica “marxista” (la quale ridiede evidentemente nel vostro sentire più che nel vostro pensaro, dato che persiste anche dopo il vostro rinnegamento del marxismo). Per voi una certa struttura produttiva (infatti il vostro discrimine fra mondo antico e moderno è “sottoproduzione-sovraproduzione”) determina differenze sociali fra uomini in partenza assunti come uguali (o, comunque equivalenti, dato che per voi nessuno ha diritto ad “imporre i propri valori” e il “dominio dell’uomo sull’uomo” appare con un male da evitare appena possibile, anziché come un modo distorto di pronunciare la sacra parola “gerarchia”). Ma la verità di questo riposta sul precetto biblico o sulla parola di Marx, o sul sentimento egalitario, non certo su un “dato oggettivo”.
Per me è il contrario: il dominio dell’uno o dell’altro tipo umano genera l’una o l’altra società, rende fonte di valore in essa l’uno o l’altro criterio. E’ assolutamente vero che nel mondo moderno “l’uomo è ciò che mangia”, la struttura sociale è determinata dai rapporti di produzione e che la storia moderna spiegata dai marxisti risulta molto più credibile di quella raccontata dai vari “idealisti”, ma ciò è conseguenza del fatto che a dominare dopo la sovversione siano tipi umani provenienti dalle caste infere dei mercanti e dei servi, i cui criteri di valore sono appunto l’utile e il tempo. Nel mondo della tradizione dominavano invece le caste supere dei guerrieri e dei sapienti (in senso platonico, non in senso modernamente “intellettuale”) i cui valori del sacro e dell’eterno davano forma a diverse struttura sociali, a diverse visioni del mondo, a diversi modi di concepire il bene e il male, il bello e il brutto, il giusto e l’ingiusto.
E sono state queste aristocrazie, vi piaccia o no, a fare entrare l’uomo nella storia, a trasformare l’uomo naturale in secondo uomo, proprio perché ad una concezione puramente naturalistico-conservativa-egalitaria hanno saputo contrapporre un nuovo e superiore sentimento del mondo. Ecco perché ad un mondo aristocratico pensavo in vista del necessario e futuro passaggio dall’uomo storico al terzo uomo.
Come vedete, concordo con voi sul fatto che "i problemi si risolvono andando avanti e non indietro", ma, nella concezione sferica del tempo che Nietzsche mi ha mostrato, ciò non si oppone ma si unisce all'avere come meta e modello un passato che muta continuamente in funzione della decisione da prendere nel qui ed ora.

Quando dico "vivere a sbafo" non mi riferisco ad un vivere a carico di altri esseri umani (il che spesso è materialmente necessario per chi voglia occuparsi di cose più elevate rispetto a "quel che si mangia"), ma di un vivere a sbafo della vita stessa, senza ripagarla del nostro vivere con il tendere continuamente verso l'alto.
Vivere a sbafo significa vivere ragionando come voi "se poteva farsi mantenere ha fatto bene", quasi come se il fine umano fosse quello di conservarsi senza altro scopo e di godere del più tranquillo e piacevole dei benesseri materiali. Il fine di chi non vive a sbafo della vita (ve l'ho detto in mille modi e lo ripeto per l'ultima) è invece spendere le proprie doti per superarsi continuamente, per celebrare la vita andare oltre sè (quindi nulla a che vedere con felicità, piacere o vita comoda), al di là sì del bene e del male, ma anche di tutto quanto è individualismo ed eudemonia.

Ripeto: non vi e’ in Nietzsche tutto quel relativismo che volete vedere voi assieme agli altri che vogliono depotenziare il suo messaggio. L'ordine cosmico in lui importa eccome, solo che non lo cita perchè parla la lingua di Dioniso, non quella di Apollo. Il nichilismo e’ attivo, ossia agisce nella pars destruhens per mostrare l’infondatezza (nonche’ il nichilismo passive celato dietro le facciate di pace perpetua, progresso e altro mondo) di tutto quanto si basa sul mito cristiano-egalitario (dalle cui successive ideologizzazioni laiche derivano poi democrazia, socialismo, liberalismo, religione dei diritti umani eccetera), ma lascia aperta la strada ad una pars costruhens assolutamente poetica (in quanto iniziando una visione del mondo deve parlare prima con il linguaggio del mito) e fondata sui valori (indimostrabili ma proprio per questo evidenti) della vita ascendente.
E’ qui il discrimine, fra tutto quanto e’ conforme ad un movimento “verso l’alto” della vita, ad un arricchimento dei suoi valori e dei suoi significati, ad una sua nobilitazione tramite nuove forze e nuove opere di grandezza, splendore e durata, ad una affermazione della volonta’ creatrice di bellezze, gioie, lotte e magnificenze anche attraverso il dolore e la colpa, ad una generazione di forme superiori (e nulla nasce senza dolore)
E quanto invece segna il movimento della decadenza, l’appiattimento verso valori di pace e uguaglianza, la morte di ogni lotta e di ogni significati superiore del vivere, il nichilismo passivo di chi non vede gioia, bellezza e senso nel competere, nell’accrescersi e nel superare se stesso a costo anche della propria fine e del proprio male,

Quanto alla contraddittorietà di Nietzsche, essa esiste solo per chi è ancora prigioniero del vecchio linguaggio.
Perchè Nietzsche è o detestato e incompreso o amato e idolatrato? Perchè è contraddittorio? No, perchè è portatore di un nuovo discorso, di un nuovo logos, totalmente altro dal precedente.
Ogni visione del mondo nasce da un discorso mitico, in cui gli opposti ancora coincidono e le contraddizioni non sono sentite come tali (tante meravigliose contraddizioni rendono bello e vivo il mito). Per questo, nel momento stesso in cui si propone, una visione del mondo appare illogica, irrazionale e infondata agli occhi di chi ha un sentire improntato alla precedente ed opposta visione, di cui la nascente è costretta, per così dire, a "parassitare il linguaggio" (usando ovviamente le parole e i significati in modo nuovo e per questi apparentemente "contraddittorio e paradossale"). Non potrebbe essere diversamente, dato che è la visione del mondo a fondare il linguaggio, il senso ed il valore di ogni idea, di ogni vita e di ogni idea di vita, e non viceversa. E finchè il nuovo logos è costretto, per dirsi, ad utilizzare il linguaggio generato dal precedente e opposto logos (i cui poli dialettici vengono nel nuovo discorso a non essere più tali, perchè sostituiti dai nuovi) si hanno contraddizioni e paradossi in termini (per chi resta ai significati del vecchio discorso). Solo quando il nuovo logos termina la trasformazione del vecchio linguaggio in un linguaggio nuovo e adatto a sè le contraddizioni cessano. Ma questa è già la fase dialettica, non più quella mitica.
E Nietzsche è il creatore, assieme a Wagner, del nuovo mito.

Anche la visione egalitaria ha avuto la sua fase mitica, con il cristianesimo, per poi razionalizzarsi in una dialettica che ha portato alle varie ideologie (dapprima riforma e controriforma, poi liberalismo, democrazia, marxismo, femminismo, eccetera), tutte in antagonismo e diverse fra loro, ma aventi il medesimo fondamento nel sentire dell'uguaglianza, della pace perpetua e della fine della storia (in quel sentire proprio di chi, permettetemi la cattiveria, come la plebe e le mucche, non vuole altro che un tranquilli benessere in cui conservarsi indefinitamente senza altro scopo).
Ora, se in Nietzsche vive la visione aristocratica del cosmo, potrebbe egli essere compreso da chi ha del mondo una visione egalitaria? Vi possono solo essere incomprensioni, poichè si stanno usando le stesse parole per valori diversi, lo stesso linguaggio intendendo diversi poli dialettici.

Nietzsche ha combattuto contro ogni visione che ponga il senso superiore nell'altro mondo anzichè in questo. Il suo contrasto con la metafisica tradizionale è precisamente qui. Egli lamenta che l'aver "separato" il cielo dalla terra, il mondo vero da quello apparente, ha permesso ad una visione sovversiva (per lui il cristianesimo) di negare la terra in nome di un al di là nascondente il nulla, il sabato dei sabati, cancellando ogni valore terrestre e celeste, umano e divino. Ecco da dove deriva la sua polemica "antimetafisica".
Egli certo è nemico di ogni "fine superiore", ma proprio perchè amante del senso superiore, che vede nella vita stessa (la quale non dovrebbe avere bisogno di "dimostrazione"). Ecco perchè non valgono per lui i vostri discorsi relativisti (o, se volete, non valgono se si segue davvero il suo pensiero).
Del resto litiga con Platone, ma ne sposa in pieno la visione politica (l'ammirazione per la società castale è la medesima).
L'unica critica che gli si può muovere, a voler essere pedanti (come a volte lo è Evola) è quella di aver voluto inserire nella vita il senso di una più che vita in tutto e per tutto uguale alla "trascendenza" in senso tradizionale. Ma questo è coerente in chi sa che la vita non si dimostra, ma si vive.

SALUTI DALLA SUBLIME PORTA

P.S.
Chi dice "Nietzsche e gli uomini superiori prototipi dei malriusciti" finisce alla pari di chi paragoni Dante ai prototipi degli scribacchini. I giudizi letterari dicono sempre qualcosa: se sono giusti definiscono l'autore, se sono capovolti definiscono il commentatore.

P.P.S.
Se volete continuare a scrivere qui non dovete più permettervi di trattare madonna Chiara come una attricetta. Potrei disconoscere tutto quanto dice e pensa, ma non posso tollerare si disconosca il suo valore come personaggio e come tipo umano dal nobile sentire.
A proposito dei molti mediocri che fanno fare ai pochi eccellenti la parte dei malriusciti: non è una contraddizione di Nietzsche, è un fatto che il "caso Chiara" dimostra.

 
At Çarşamba, Eylül 03, 2008 12:59:00 ÖS, Anonymous Adsız said...

Anche chi scrive gradisce molto confrontare le proprie opinioni con quelle del sultano, anche se soffre alquanto sotto il vile imperio dei tempi orizzontali.

""Creare gerarchie fa parte dell’apollineo""

e sovvertirle del dionisiaco, ma ciò non significa che i due principi debbano sottostare essi stessi ad una gerarchia prodotta da uno di essi.

""ma la concezione della vita quale “conservarsi senza altro scopo da un benessere da bestiame bovino" per contrapporla a quella di autosuperamento""

entrambe le concezioni appartengono al dominio della ragione e di apollo, entrambe ordiscono mezzi e metodi per conseguire uno scopo, tipica funzione della ragione solare. Dioniso se ne sbatte la ciolla degli scopi di apollo: egli piuttosto genera nuovi universi e li distrugge. Il sultano forse si identifica troppo con apollo per comprendere il dioniso che è in lui, e non forse non distingue bene il bianco nel nero e il nero nel bianco dello yin.

""Il termine “voleva” è inteso come “sosteneva”: Nietzsche sosteneva che la decadenza fosse evitabile tramite una decisione storica dell’uomo in favore dell’oltreuomo. Non la pensava come parte di un ciclo inevitabile su cui l’uomo non può nulla.""

Qui mi incorre l'obbligo di dissentire: l'oltreuomo non è una scelta, non è una opzione lasciata all'uomo. Il significato di decadenza poi andrebbe ben inquadrato nell'ottica niciana, dal momento che Nietzsche non ha mai avuto molta pazienza per le prolusioni e molte delle sue affermazioni si prestano ai fraintendimenti. La decadenza è un concetto morale e come tale va considerato.

""L’Etica fondata sulla Necessità anziché sulla morale è il nocciolo della visione nietzscheana e suona ben più armoniosa di una campana. Il bene in lui è quanto discende dalla “necessità” del compiere la propria opera di grandezza divenendo ciò che si è. Ma ciò che l’uomo storico è non è disgiunto dalla tecnica, e solo volgendo la tecnica verso un superamento dell’umano si potrà superare la decadenza o la fase oscura. Di qui la mia diffidenza per il considerare scontato che “la tecnica domini l’uomo e il mondo”. E’ quanto sta avvenendo ora, ma non è quanto è necessario avvenga in eterno. Dipenda dalla scelta dell’uomo.""

E qui il sultano dimostra di non aver apprezzato il citato di Mr.M. Egli non riguardava la filosofia morale, bensì l'ontologia e l'epistemologia.

""""”Nessun Apparato -nell'accezione severiniana- è acefalo -nell'accezione sultaniana-. Nessuno qui ha mai sostenuto questo.”
E allora donde viene il sacro terrore della tecnica?""

Nessun terrore, infatti. La scienza offre la prospettiva di un paradiso prossimo e molto più concreto di qualunque altro paradiso mai promesso, cosa che è ben nota a chi, come Stefano Vaj (ringraziamenti per l'interessante link), ha il coraggio e la competenza per guardare appena un poco oltre.

""Ma crescere non significa ritrovare da grandi la serietà che si metteva nel gioco da fanciulli? L’ultima delle metamorfosi dello spirito è quella del Leone in Fanciullo. Solo in tale stato di innocenza si può creare oltre.""

Ben detto, ma chi crea non deve osservare, chi osserva non deve creare. Chi scrive, quando scrive qui, è un individuo che osserva, riflette e non crea. La vita poi accade altrove.

""Che Leopardi sia precursore di Nietzsche è da me stato sostenuto in precedenza. Che però la modernità sia espressione di entrambi denota un rovesciamento perfetto delle loro opere.""

Nessuno dei due ha voluto questa contemporaneità, il loro odio per essa talmente profondo da trasformarsi nell'occhio più acuto e spietato. Entrambi hanno però visto l'inevitabilità del sentiero che porta al Nulla ontologico. La scienza di oggi prosegue su questo sentiero. E' un fatto.

""Leopardi con una lucidità assai rara nei poeti (i quali, come Foscolo, amano spesso abbandonarsi alla vaghezza del sogno) mostra dove porti l’individualismo eudemonico (brevemente: dall’individuo come centro di ogni valore deriva che il mondo è finitezza circondata da due nulla infiniti e dalla felicità come bene deriva la non esistenza di alcun fine positivo, dato che la vita è sofferenza) e Niezsche, a partire da questa premessa, insegna ad andare oltre. Come aveva acutamente notato il De Sanctis, Leopardi fa desiderare l’opposto di quanto razionalmente sostiene (a proposito del sentire più importante del pensare….) e Nietzsche condanna senza mezzi termini l’ultimo uomo che saltella sulla terra divenuta piccola credendo di aver inventato la felicità (e tale ultimo uomo infesta la terra, non l’oltreuomo o l’ingegnere).""

La filosofia morale è indubbiamente prossima agli interessi del sultano, ma amor di Verità vuole un procedere più ordinato, ovvero che cominci dalla teoresi e proceda nella morale. La commistione di diversi piani analitici crea in chi scrive un certo capogiro.

Ancora scuse per la necessaria sintesi.

 
At Çarşamba, Eylül 03, 2008 4:15:00 ÖS, Blogger Beyazid II Ottomano - Sultano di Costantinopoli said...

“sovvertirle del dionisiaco, ma ciò non significa che i due principi debbano sottostare essi stessi ad una gerarchia prodotta da uno di essi.”

Questo sì è nietzscheano (già dalla Nascita della Tragedia), ma non è quanto mi trasmettono gli insegnamenti degli Avi (siano essi dorici, latini, persiani o indogermani), i quali (al contrario di altri popoli e dei moderni) celebrano piuttosto l’ordinamento del Chaos in Kosmos. Non è un segreto che non tutto il pensare di Nietzsche sia da me perfettamente condiviso (né diversamente potrei essendo da lui disprezzato il discepolo che non si allontana), soprattutto laddove rischia, se preso come antitesi all’ordine tradizionale (vedi Vattimo), di apparire un’incitazione alla sovversione.

Forse sono stato segnato fin da piccino dal concetto di entropia. Per me lo stato con massima energia potenziale (e minima entropia) e quindi più ordinato, più “significativo”, più adatto a presentare valori e differenze, non è “ontologicamente” uguale agli stati con minima energia potenziale e massima entropia, poiché questi sono chiaramente la degenerazione, gli stati ultimi verso cui decade un sistema abbandonato a se stesso. Per ripristinare lo stato “ordinato” serve energia dall’esterno, serve un intervento attivo, serve compiere un lavoro. Proprio il fatto che, “lasciando che le cose vadano”, si decada da uno stato all’altro, dimostra che lo stato precedente era “superiore”.
Quando ho incontrato concetti simili nella Dottrina delle Quattro Età, nella visione della storia come caduta da uno stato all’altro fino al Kali Yuga e all’intervento non umano che farà re-iniziare il ciclo, ho percepito qualcosa di molto più vicino a quanto ho sempre visto dimostrato rispetto alla favola del “progresso” (la quale sarebbe a rigor di logica palesemente in contrasto con il destino di un universo in continuo aumento di entropia).
E qui si inserisce Nietzsche: la sua Volontà di Potenza (intesa proprio nel senso più vitalistico) è quanto mancherebbe al mondo per far conciliare (almeno da un punto di vista macroscopico) la biologia, l’evoluzione, la vita con la con quel poco che di davvero valido e universale (parlo dei principi della Termodinamica) ha potuto dimostrare la Fisica. Ecco perché a me Nietzsche pare tutt’altro che “irrazionale”.

Come più volte detto, sento però su questo punto di non possedere conoscenze tanto elevate da decidere in maniera definitiva. Forse avete ragione voi e dovrei superare i poli dialettici del vecchio logos.


“entrambe le concezioni appartengono al dominio della ragione e di apollo, entrambe ordiscono mezzi e metodi per conseguire uno scopo, tipica funzione della ragione solare. Dioniso se ne sbatte la ciolla degli scopi di apollo: egli piuttosto genera nuovi universi e li distrugge. Il sultano forse si identifica troppo con apollo per comprendere il dioniso che è in lui, e non forse non distingue bene il bianco nel nero e il nero nel bianco dello yin.”

Questo è precisamente quanto pensavo un tempo leggendo Nietzsche.
Il Dionisiaco, riflettevo, proprio perché espressione della “vita primigenia cupida di sé antecedente la frammentazione in individui”, non contempla ancora le distinzioni (proprie dell’Apollineo quale “principium individuationis”) fra uomo e uomo, fra uomo e donna, fra animale e uomo, fra animale e pianta, ma fa tutto danzare al ritmo del dio dell’ebbrezza (“con il lupo accanto all’agnello”, perché ogni ordine razionale è rotto).
Non avrebbe dunque senso in tale prospettiva, come hanno fatto taluni lasciandosi guidare dalle Baccanti e dallo studio dei popoli pre-ellenici, identificare lo spirito dionisiaco con un che di femmineo, con le società pelasgiche, con il tutto indistinto di un matriarcato primordiale e comunistico, e lo spirito apollineo con i popoli eroici, virili, creatori di civiltà, di bellezza di ordine cosmico e di aristocrazia guerriera, giacchè le stesse distinzioni fra maschile e femminile, fra popolo e popolo, e il medesimo concetto di ordine e di civiltà sono presenti soltanto nell’apollineo (come frutto della sua proprietà di “distinguere”), e giammai nel dionisiaco (che invece, come voi dite “genera e distrugge”): pretendere dunque attribuzioni “apollinee” e “dionisiache” all’uno o all’altro ordine, all’uno o all’altro popolo, all’uno o all’altro sesso sarebbe dunque una contraddizione in termini (in tale concezione ogni ordine in quanto tale è apollineo, a prescindere dal tipo di ordine, e ogni sua dissoluzione dionisiaca).

Sondando anche altre fonti, all’interno dello stesso “radicalismo aristocratico” (l’espressione di Brandes, attualmente ripresa da Losurdo, era stata benedetta da Nietzsche stesso),
mi si sono però presentate alla mente diverse domanda. E se anziché principi “metafisici” (come sono ancora in effetti nella “Nascita della Tragedia” in cui si parla di “miracoloso atto metafisico della volontà ellenica”) l’apollineo e il dionisiaco divenissero, nello sviluppo dell’opera di Nietzsche, dei mitemi?
Ossia immagine del proprio passato che diversi popoli, diversi uomini, diversi tipi umani si danno in funzione dell’avvenire?
Posso davvero ignorare che storicamente il dionisismo, il tutto indifferenziato del mondo sociale, la negazione di ogni valore superiore a ciò che è destinato a ritornare alla Terra Madre dopo un’esistenza effimera sono state espressioni caratteristiche di certi popoli e di certi tipi umani, mentre l’Apollo dio Iperboreo, con lo splendore delle sue divinità celesti (è da lui, nota Nietzsche, che si genera il Pantheon), con la perfezione del suo mondo che brilla di forza propria eternamente uguale a sé, dando luce e gloria ai mortali che eroicamente vi ascendono divenendo immortali, con le sue gerarchie di valori superiori su cui ogni società si fonda per essere davvero aristocratica, è stato parimenti l’espressione suprema di altri popoli e di altri tipi umani?
E non avrebbe potuto essere il principio della follia lo scoprire da parte del Nietzsche-Dioniso come il tipo umano da lui voluto (coraggioso,duro, guerriero, creatore di civiltà e di mondi) sia, almeno storicamente, più apollineo che dionisiaco?
O forse mi sto lasciando ingannare dalle parole, dai paralogismi, dall’usare il termine caos secondo accezioni diverse, e magari il caos nietzscheanamente dionisiaco è paragonabile ad un “brodo primordiale” da cui l’apollineo, ordinando, può creare ordini, valori e bellezze, mentre il caos quale mi si presenta oggi è piuttosto simile ad una fredda “morte della materia” in cui né Apollo né Dioniso possono creare alcunché?

Le mie non sono domande retoriche, sono le questioni che non ho ancora risolto nemmeno in me stesso.


”Qui mi incorre l'obbligo di dissentire: l'oltreuomo non è una scelta, non è una opzione lasciata all'uomo. Il significato di decadenza poi andrebbe ben inquadrato nell'ottica niciana, dal momento che Nietzsche non ha mai avuto molta pazienza per le prolusioni e molte delle sue affermazioni si prestano ai fraintendimenti. La decadenza è un concetto morale e come tale va considerato.”

La questione è legata al punto fondamentale di come si intende la concezione del tempo in Nietzsche. Se il tempo fosse in lui circolare esattamente come nelle religioni pre-cristiane, avreste perfettamente ragione: nell’unidimensionalità non vi sarebbe per l’uomo alcuna scelta, esattamente come non ve ne è nella concezione lineare biblica. Come per la Bibbia, per Marx, per i progressisti, esiste un inizio, una storia dotata di direzione e senso, e una fine, rispetto a cui l’uomo non può scegliere nulla di diverso (“non si può far girare al contrario la ruota della storia”), così nella concezione “strettamente tradizionale” esistono le quattro età che ritornano continuamente senza che l’uomo possa decidere di far andare le cose diversamente da come la Necessità vuole nell’età in cui è nato. La grandezza di Nietzsche risiede però, a mio avviso (ma non sono né il solo, né il primo a dirlo) nell’aver proposto, assieme al nuovo mito (sovrumanista), una nuova concezione del tempo: la concezione sferica. Avendo una dimensione in più rispetto al cerchio, in essa l’uomo, in ogni punto del presente, può sempre decidere del proprio destino, darsi la propria legge, cambiare il proprio futuro come il proprio passato (ecco la “redenzione dallo spirito di vendetta” il “ma così volli che fosse, così voglio che sia, così vorrò che sarà”). Il passato non è dunque né passato per sempre né immutabile, ma può sempre fungere da meta e modello per il futuro, se l’uomo sceglie da esso i “miti” con cui vuole ricostruirsi storicamente. Ecco perché ho parlato di scelta: una scelta epocale che è anche certamente scelta “morale”, nel senso che per Nietzsche tale scelta implica un giudizio di valore fra le due vie.
Da un lato vi è la decadenza all’ultimo uomo, la rinuncia a decidere su di sé (come vorrebbe la Bibbia, che bolla questo come peccato originale e fa coincidere la caduta dal paradiso con l’ingresso nella storia), l’uscita dalla storia (il pascolo delle greggi di cui dice “schifo, schifo, schifo”), dall’altro la frattura nel tempo della storia, la rigenerazione della storia, il superuomo (o oltreuomo, ma ormai il significato è chiaro). La decadenza avrà anche un significato morale, ma resta sempre legata alla libertà storica dell’uomo (e fra le opzioni vi è anche l’uscita dalla storia: per questo Nietzsche è molto attivo, fin quasi all’ossessione, nella sua opera nel cercare di scongiurarla).


“E qui il sultano dimostra di non aver apprezzato il citato di Mr.M. Egli non riguardava la filosofia morale, bensì l'ontologia e l'epistemologia.”

Forse non ho usato i termini giusti per dire proprio che, in Nietzsche come negli altri veri filosofi, e a differenza dei critici “moralisti”, prima vi è una visione del mondo, una concezione dell’essere fondata su quanto si vede evidente e si sente per vero a prescindere, e poi una morale da essa derivata quale strumento pratico per conformarsi a tale visione, e non già prima la morale e poi la visione del mondo, come vorrebbe chi (e purtroppo tutti i prof di storia della filosofia che ho avuto erano fra questi) è avvezzo a giudicare una filosofia e una visione del mondo dalla morale che produce.
Citare la Necessità in ontologia ed epistemologia mi avrebbe ricordato molto più il da Nietzsche tanto bistrattato Parmenide, piuttosto che il meno lontano Eraclito.
La Necessità in Nietzsche mi pare presente nel concetto di “Amor Fati”, che essendo una “formula per raggiungere la grandezza” ricade appunto nella filosofia morale.


“Nessun terrore, infatti. La scienza offre la prospettiva di un paradiso prossimo e molto più concreto di qualunque altro paradiso mai promesso, cosa che è ben nota a chi, come Stefano Vaj (ringraziamenti per l'interessante link), ha il coraggio e la competenza per guardare appena un poco oltre.”

Fa piacere incontrare ogni tanto qualcuno che non si spaventa se si esce dai soliti paradigmi.


“Ben detto, ma chi crea non deve osservare, chi osserva non deve creare. Chi scrive, quando scrive qui, è un individuo che osserva, riflette e non crea. La vita poi accade altrove.”

Questo però è ben poco nietzscheano. Non è forse la filosofia di ogni autore una autobiografia? Ed è proprio da qui che mi sorgevano i dubbi di prima a proposito dei popoli e delle visioni del mondo che creano.

“Nessuno dei due ha voluto questa contemporaneità, il loro odio per essa talmente profondo da trasformarsi nell'occhio più acuto e spietato. Entrambi hanno però visto l'inevitabilità del sentiero che porta al Nulla ontologico. La scienza di oggi prosegue su questo sentiero. E' un fatto.”

Concordo. Entrambi hanno anche fornito però mappe per capire di essere su questo sentiero e strumenti per uscirne.


“La filosofia morale è indubbiamente prossima agli interessi del sultano, ma amor di Verità vuole un procedere più ordinato, ovvero che cominci dalla teoresi e proceda nella morale. La commistione di diversi piani analitici crea in chi scrive un certo capogiro.”

Questo è un alto insegnamento. Io stesso qualche tempo addietro inveivo contro uno scribacchino che criticava la metafisica di Guenon perché, a suo dire “mancava la morale”, ed ora io stesso mi lascio andare a mescolare (involontariamente, però, nel mio caso) il piano che viene prima, con quello che viene dopo. Perdonate voi.

SALUTI DALLA SUBLIME PORTA

 
At Çarşamba, Eylül 03, 2008 7:59:00 ÖS, Anonymous Adsız said...

""Forse sono stato segnato fin da piccino dal concetto di entropia. Per me lo stato con massima energia potenziale (e minima entropia) e quindi più ordinato, più “significativo”, più adatto a presentare valori e differenze, non è “ontologicamente” uguale agli stati con minima energia potenziale e massima entropia, poiché questi sono chiaramente la degenerazione, gli stati ultimi verso cui decade un sistema abbandonato a se stesso. Per ripristinare lo stato “ordinato” serve energia dall’esterno, serve un intervento attivo, serve compiere un lavoro. Proprio il fatto che, “lasciando che le cose vadano”, si decada da uno stato all’altro, dimostra che lo stato precedente era “superiore”.""

Non si dimentichi che il concetto di entropia è un prodotto quintessenziale del pensiero scientifico, quasi una sua escatologia. L'entropia non è episteme, non è qualità ontologica ma quantità fisica, che ha senso in una determinata epistemologica, ovvero laddove i simboli dT/dQ hanno senso. Ma il sapere scientifico si regge su una determinata teoria dell'Essere, ovvero la fede nel Divenire e nel Non Essere. Come diceva Mr.M. le cose escono dal nulla e rientrano in esso. Quindi il Nulla è origine di tutte le cose, nonchè loro destinazione. Questa solidissima (oggi) fede produce molte cose che rallegrano i futuristi (il potere della tecnica) ma anche cose che al sultano e a molti altri non piacciono, ma che nel rigore dialettico essi stessi devono accettare, non ultima la necessità dell'egualitarismo nella attuale fase storica, non ultima la necessità della democrazia quale l'attuale configurazione tecnica operativa del potere (che queste forme siano scaturigine del pensiero scientifico sarà piacevole fornire delucidazione). Poi sia chiaro che accogliere un fatto col proprio intelletto non significa amarlo nè desiderarlo.

""Quando ho incontrato concetti simili nella Dottrina delle Quattro Età, nella visione della storia come caduta da uno stato all’altro fino al Kali Yuga e all’intervento non umano che farà re-iniziare il ciclo, ho percepito qualcosa di molto più vicino a quanto ho sempre visto dimostrato rispetto alla favola del “progresso” (la quale sarebbe a rigor di logica palesemente in contrasto con il destino di un universo in continuo aumento di entropia).
E qui si inserisce Nietzsche: la sua Volontà di Potenza (intesa proprio nel senso più vitalistico) è quanto mancherebbe al mondo per far conciliare (almeno da un punto di vista macroscopico) la biologia, l’evoluzione, la vita con la con quel poco che di davvero valido e universale (parlo dei principi della Termodinamica) ha potuto dimostrare la Fisica. Ecco perché a me Nietzsche pare tutt’altro che “irrazionale”.""

La razionalità di Nietzsche è invero terribile, più forte della follia dei suoi tempi. Ma la volontà di potenza di Nietzsche, per quanto egli fosse solito esprimersi con la poetica e la mitopoieutica del vitalismo, non ha niente di vitalistico, è anzi razionalità nella sua forma più autentica e raffinata: è la struttura matematica del divenire, il corrispondente metafisico del secondo principio della termodinamica. Può sembrare un paradosso, ma ragionando sull'effetto della volontà di potenza sia in ambito etico che storico, sia individuale che universale, si vedrà che essa somiglia alquanto, nella formulazione niciana, al rapporto tra potenza (dQ) e volontà (dT).

""Come più volte detto, sento però su questo punto di non possedere conoscenze tanto elevate da decidere in maniera definitiva. Forse avete ragione voi e dovrei superare i poli dialettici del vecchio logos.""

Come utile riferimento per uno studio analitico e comparato, suggerisco la lettura del De ente et essentia dell'aquinate Tommaso. E' la potentissima metafisica cristiana medievale, alternativa storica all'idea della volontà di potenza. Per secoli essa ha condotto l'uomo su sentieri tortuosi e diversi, ove la virtù dello spirito prevalevano su quelle della carne e dell'intelletto, che trasformava l'eudemonologia in un nonsenso fisico. Codesti sentieri oramai sono stati abbandonati, sono disabitati ed irti di erbacce e mai più saranno percorribili, ma Nietzsche e Leopardi hanno espresso più volte la loro struggente nostalgia per essi, li comprendevano e li rimpiangevano, velatamente Nietzsche, esplicitamente Leopardi.

""“Questo è precisamente quanto pensavo [...]: pretendere dunque attribuzioni “apollinee” e “dionisiache” all’uno o all’altro ordine, all’uno o all’altro popolo, all’uno o all’altro sesso sarebbe dunque una contraddizione in termini (in tale concezione ogni ordine in quanto tale è apollineo, a prescindere dal tipo di ordine, e ogni sua dissoluzione dionisiaca).""

E' satto. Esatto.

""Sondando anche altre fonti, all’interno dello stesso “radicalismo aristocratico” (l’espressione di Brandes, attualmente ripresa da Losurdo, era stata benedetta da Nietzsche stesso),
mi si sono però presentate alla mente diverse domanda. E se anziché principi “metafisici” (come sono ancora in effetti nella “Nascita della Tragedia” in cui si parla di “miracoloso atto metafisico della volontà ellenica”) l’apollineo e il dionisiaco divenissero, nello sviluppo dell’opera di Nietzsche, dei mitemi?""

Assolutamente sì. Sono dei mitemi complementari, non a caso la nostra comparazione con yin e yang, aria e terra, fuoco e acqua. Si tratta proprio di questo e null'altro.

""Ossia immagine del proprio passato che diversi popoli, diversi uomini, diversi tipi umani si danno in funzione dell’avvenire?
Posso davvero ignorare che storicamente il dionisismo, il tutto indifferenziato del mondo sociale, la negazione di ogni valore superiore a ciò che è destinato a ritornare alla Terra Madre dopo un’esistenza effimera sono state espressioni caratteristiche di certi popoli e di certi tipi umani, mentre l’Apollo dio Iperboreo, con lo splendore delle sue divinità celesti (è da lui, nota Nietzsche, che si genera il Pantheon), con la perfezione del suo mondo che brilla di forza propria eternamente uguale a sé, dando luce e gloria ai mortali che eroicamente vi ascendono divenendo immortali, con le sue gerarchie di valori superiori su cui ogni società si fonda per essere davvero aristocratica, è stato parimenti l’espressione suprema di altri popoli e di altri tipi umani?""

Chi scrive ritiene che codeste suddivisioni e attribuzioni di apolli e dionisi lungo la storia siano assolutamente arbitrarie. Esempio: il comunismo è eminentemente apollineo (in principio era il Logos - idealismo), mentre ogni urfascismo è prevalentemente dionisiaco (in principio era l'azione - vitalismo). Ammettiamo che alla luce delle rispettive convinzioni si può sostenere tutto ed il suo contrario?

""E non avrebbe potuto essere il principio della follia lo scoprire da parte del Nietzsche-Dioniso come il tipo umano da lui voluto (coraggioso,duro, guerriero, creatore di civiltà e di mondi) sia, almeno storicamente, più apollineo che dionisiaco?""

Au contraire. Nietzsche è apollineo, rigoroso, spietato nella sua logica, coi suoi e con se stesso e fatalmente sedotto da tutto ciò che è dioniso (si leggano gli idillii di messina), che è il vero motore della civilità e creatore di mondi. Egli amava la danza e le donne ma non poteva danzare e non poteva amare le donne. Fulminante in proposito l'episodio in cui egli (giovane ma non giovanissimo) fu condotto a forza in un bordello: la sua fuga di folle terrore dinanzi alle prostitute è il segno chiaro del suo essere apollineo, uomo etico, uomo che soffriva una irrisolta dialettica interiore.

""O forse mi sto lasciando ingannare dalle parole, dai paralogismi, dall’usare il termine caos secondo accezioni diverse, e magari il caos nietzscheanamente dionisiaco è paragonabile ad un “brodo primordiale” da cui l’apollineo, ordinando, può creare ordini, valori e bellezze, mentre il caos quale mi si presenta oggi è piuttosto simile ad una fredda “morte della materia” in cui né Apollo né Dioniso possono creare alcunché?""

Questo ultimo concetto è pienamente condivisibile. Resta inteso che questo caos (minuscolo) di oggi è tale solo agli occhi di chi non lo vuol intendere come Necessità.

""Le mie non sono domande retoriche, sono le questioni che non ho ancora risolto nemmeno in me stesso.""

Chi scrive augura al sultano ogni fortuna per la sua cerca della Verità.

""La questione è legata al punto fondamentale di come si intende la concezione del tempo in Nietzsche. Se il tempo fosse in lui circolare esattamente come nelle religioni pre-cristiane, avreste perfettamente ragione: nell’unidimensionalità non vi sarebbe per l’uomo alcuna scelta, esattamente come non ve ne è nella concezione lineare biblica. Come per la Bibbia, per Marx, per i progressisti, esiste un inizio, una storia dotata di direzione e senso, e una fine, rispetto a cui l’uomo non può scegliere nulla di diverso (“non si può far girare al contrario la ruota della storia”), così nella concezione “strettamente tradizionale” esistono le quattro età che ritornano continuamente senza che l’uomo possa decidere di far andare le cose diversamente da come la Necessità vuole nell’età in cui è nato. La grandezza di Nietzsche risiede però, a mio avviso (ma non sono né il solo, né il primo a dirlo) nell’aver proposto, assieme al nuovo mito (sovrumanista), una nuova concezione del tempo: la concezione sferica. Avendo una dimensione in più rispetto al cerchio, in essa l’uomo, in ogni punto del presente, può sempre decidere del proprio destino, darsi la propria legge, cambiare il proprio futuro come il proprio passato (ecco la “redenzione dallo spirito di vendetta” il “ma così volli che fosse, così voglio che sia, così vorrò che sarà”). Il passato non è dunque né passato per sempre né immutabile, ma può sempre fungere da meta e modello per il futuro, se l’uomo sceglie da esso i “miti” con cui vuole ricostruirsi storicamente. Ecco perché ho parlato di scelta: una scelta epocale che è anche certamente scelta “morale”, nel senso che per Nietzsche tale scelta implica un giudizio di valore fra le due vie.""

Con tutto quello che il sultano ha esposto concorderebbe pienamente anche la buonanima di Mr.M.
Molto apprezzabile l'aver escluso dalla lista delle concezioni lineari (biblica, marxista, progressista etc) quella cristiana. Invero il cristianesmo cattolico fornisce ad oggi l'unica fondazione metafisica e ontologica pienamente coerente di libertà dell'uomo. Per contro la libertà di cui parla il Filosofo è un mito, senza il quale l'Apollo che era in lui sarebbe morto.

""Da un lato vi è la decadenza all’ultimo uomo, la rinuncia a decidere su di sé (come vorrebbe la Bibbia, che bolla questo come peccato originale e fa coincidere la caduta dal paradiso con l’ingresso nella storia), l’uscita dalla storia (il pascolo delle greggi di cui dice “schifo, schifo, schifo”), dall’altro la frattura nel tempo della storia, la rigenerazione della storia, il superuomo (o oltreuomo, ma ormai il significato è chiaro). La decadenza avrà anche un significato morale, ma resta sempre legata alla libertà storica dell’uomo (e fra le opzioni vi è anche l’uscita dalla storia: per questo Nietzsche è molto attivo, fin quasi all’ossessione, nella sua opera nel cercare di scongiurarla).""

L'ossessione di Nietzsche riguardava ben altri nemici, per lo più suoi conterranei... Si tende sovente a sovrastimare il carattere anticristiano del pensiero di Nietzsche. L'anticristianesimo è una superstizione che richiede la possibilità di un anticristo e sottende una dialettica simile a quella di dioniso contro apollo. In molti, troppi, hanno accostato Cristo ad Apollo, ma il pensiero che sta oltre il bene ed il male non accetta, anzi nega le basi stesse di questo tipo di dialettica.


""Forse non ho usato i termini giusti per dire proprio che, in Nietzsche come negli altri veri filosofi, e a differenza dei critici “moralisti”, prima vi è una visione del mondo, una concezione dell’essere fondata su quanto si vede evidente e si sente per vero a prescindere, e poi una morale da essa derivata quale strumento pratico per conformarsi a tale visione, e non già prima la morale e poi la visione del mondo, come vorrebbe chi (e purtroppo tutti i prof di storia della filosofia che ho avuto erano fra questi) è avvezzo a giudicare una filosofia e una visione del mondo dalla morale che produce.
Citare la Necessità in ontologia ed epistemologia mi avrebbe ricordato molto più il da Nietzsche tanto bistrattato Parmenide, piuttosto che il meno lontano Eraclito.""

Abbastanza esatto. Parmenide è il fondamento, ma ancor prima di lui Talete, amato e ammirato da Nietzsche: "Quando Talete dice "tutto è acqua", con un sussulto l'uomo si solleva cessando il brancicare e il tortuoso strisciare, a mò dei vermi, proprio delle scienze particolari, presagisce la soluzione ultima delle cose e con questo divinamento supera la volgare angustia dei gradi inferiori di conoscenza"

""“Ben detto, ma chi crea non deve osservare, chi osserva non deve creare. Chi scrive, quando scrive qui, è un individuo che osserva, riflette e non crea. La vita poi accade altrove.”

Questo però è ben poco nietzscheano. Non è forse la filosofia di ogni autore una autobiografia? Ed è proprio da qui che mi sorgevano i dubbi di prima a proposito dei popoli e delle visioni del mondo che creano.""

Nietzsche era particolarmente bravo a unire pensiero e biografia. Ma egli rifugge con ogni sforzo da questa trappola che è la vita. Egli vive in assoluta solitudine i suoi momenti di filosofia, egli cerca con ogni sforzo di sottrarsi alla pressione della propria natura apollinea. Una natura meno autodiretta e rigorosa avrebbe potuto prosperare felicemente in compagnia di Salomè, donna di grande Spirito e disciplina. E' noto come siano andate le cose e non è ammissibile giudicare i pensieri di questo Grande alla luce della miseria di questi particolari biografici.


""“Nessuno dei due ha voluto questa contemporaneità, il loro odio per essa talmente profondo da trasformarsi nell'occhio più acuto e spietato. Entrambi hanno però visto l'inevitabilità del sentiero che porta al Nulla ontologico. La scienza di oggi prosegue su questo sentiero. E' un fatto.”

Concordo. Entrambi hanno anche fornito però mappe per capire di essere su questo sentiero e strumenti per uscirne.""

...Leopardi non offriva vie d'uscita, al più suggeriva viatici (l'arte o la menzogna per i poveri di spirito), mentre per Nietzsche, la via era quella dell'oltreuomo, una via quindi inaccessibile all'umanità.

Ancora ringraziamenti

 
At Perşembe, Eylül 04, 2008 12:23:00 ÖÖ, Blogger Beyazid II Ottomano - Sultano di Costantinopoli said...

"Non si dimentichi che il concetto di entropia è un prodotto quintessenziale del pensiero scientifico, quasi una sua escatologia. L'entropia non è episteme, non è qualità ontologica ma quantità fisica, che ha senso in una determinata epistemologica, ovvero laddove i simboli dT/dQ hanno senso."

Questo mi era perfettamente chiaro, ma mi chiedevo se non potesse esistere una corrispondenza simbolica fra tali concetti fisici comprensibili per l'uomo e concetti superiori di ordine metafisico altrimenti inattingibili, come spesso capita nelle civiltà tradizionali a proposito degli elementi naturali.
Spesso grandi religioni tacciate di "paganesimo" non attribuscono affatto "un'anima" ai fenomeni della natura, ma una possibilità di interpretare significati superiori attraverso il linguaggio dei simboli (del resto ciò accadeva in parte anche con il cattolicesimo dei tempi di Dante).


"Ma il sapere scientifico si regge su una determinata teoria dell'Essere, ovvero la fede nel Divenire e nel Non Essere. Come diceva Mr.M. le cose escono dal nulla e rientrano in esso. Quindi il Nulla è origine di tutte le cose, nonchè loro destinazione."
Questo è il pensiero di cui Leopardi ha (volente o nolente) mostrato il tragico limite e che Nietzsche si propone di superare unendo essere e divenire.

"Questa solidissima (oggi) fede produce molte cose che rallegrano i futuristi (il potere della tecnica)"

I futuristi non si rallegravano affatto del potere della tecnica, bensì del potere dell'uomo attraverso la tecnica. Il loro superuomo era colui in grado di dominare la macchina, non l'uomo moderno dalla macchina dominato. In questo il futurismo è essenzialmente ancorchè paradossalmente, "antimoderno". Il mito futurista concepisce una macchina che permette all'uomo di superare i propri limiti, di provare il proprio coraggio, la propria abilità, il proprio valore e di accrescere le differenze qualitative, non una tecnica utile solo a rendere la vita più comoda, ad eliminare ogni necessità di coraggio, abilità e valore, e a cancellare ogni distinzione qualitativa fra individui (come si discuteva prima). Gli uomini divengono uguali se salgono su una Smart in un'epoca di limiti di velocità, ma se salgono su una Porsche 997 GT3 RS (che comunque della Smart è ancora coeva), col cambio manuale, il motore a sbalzo, l'assenza di controlli elettronici e tanti cavalli, sull'anello nord del Nurburgring, le differenze ci sono eccome. Quello che era Achille rispetto agli altri uomini a piedi può essere benissimo trasposto in quanto è l'eroe "futurista" rispetto agli altri uomini al volante (del resto nemmeno nell'Iliade si era in una situazione "di natura": spade, scudi e lance non appartengono certo alle "doti naturali" dell'uomo, ma rappresentano proprio la tecnologia di una data epoca). E chi decide se ci si trova inscatolati su una Smart o eroicamente arruolati su una Porsche? Oggi certamente "l'Apparato", e non mi faccio illusioni sull'oggi, ma il mito ha proprio la funzione di distruggere i valori da cui l'apparato trae consenso per sostituirli con altri su cui fondare un nuovo mondo. Ecco la "rivoluzione futurista" (o sovrumanista). Non è affatto la tecnologia a determinare un apparato, ma, come notato, la visione del mondo di chi la interpreta. Anche all'epoca di Achille si poteva utilizzare la tecnologia di allora per una società limitante, pacifica ed egalitaria (e certi popoli lo facevano): quello che ha creato il mondo di Omero è stata la capacità comune ai popoli indoeuropei di generare con il mito una visione eroica del mondo (e con essa dare un senso superiore anche alla contemporanea tecnologia).
Lo stesso si poteva fare ancora a inizio Novecento e si può fare in futuro.


"ma anche cose che al sultano e a molti altri non piacciono, ma che nel rigore dialettico essi stessi devono accettare, non ultima la necessità dell'egualitarismo nella attuale fase storica, non ultima la necessità della democrazia quale l'attuale configurazione tecnica operativa del potere (che queste forme siano scaturigine del pensiero scientifico sarà piacevole fornire delucidazione). Poi sia chiaro che accogliere un fatto col proprio intelletto non significa amarlo nè desiderarlo."

Il rigore dialettico fa seguire come necessarie certe conclusioni da certe premesse, ma non può creare le premesse e i loro valori di verità. Quindi se prima Leopardi anticipa le vostre conclusioni con rigore, poi Nietzsche, proprio per evitare quelle conclusioni, cerca di mutare le premesse. E poichè ogni discorso, all'inizio, è un discorso mitico, Nietzsche crea "il nuovo mito", da cui poi ogni rigore dialettico farà discendere le varie ideologie, le varie politiche, i vari apparati. Per ora non siamo però, su questo versante, alla fase dialettica, ma ancora a quella mitica, durante la quale le contraddizioni non sono sentite come tali (e non lo sono in effetti nel nuovo logos, ma solo secondo il vecchio di cui il nuovo è costretto, almeno all'inizio, a, per così dire, "parassitare" il linguaggio per "potersi dire").


"La razionalità di Nietzsche è invero terribile, più forte della follia dei suoi tempi. Ma la volontà di potenza di Nietzsche, per quanto egli fosse solito esprimersi con la poetica e la mitopoieutica del vitalismo, non ha niente di vitalistico, è anzi razionalità nella sua forma più autentica e raffinata: è la struttura matematica del divenire, il corrispondente metafisico del secondo principio della termodinamica. Può sembrare un paradosso, ma ragionando sull'effetto della volontà di potenza sia in ambito etico che storico, sia individuale che universale, si vedrà che essa somiglia alquanto, nella formulazione niciana, al rapporto tra potenza (dQ) e volontà (dT)."
E' precisamente quanto intendevo. Checchè ne dicano i critici, l'irrazionalità è tale solo per chi è avvezzo a considerare ragione solo quanto è utile a "dimostrare" la visione ottimista e razionalista dell'illuminismo. Ma quella è fede, non ragione.


"Come utile riferimento per uno studio analitico e comparato, suggerisco la lettura del De ente et essentia dell'aquinate Tommaso. E' la potentissima metafisica cristiana medievale, alternativa storica all'idea della volontà di potenza. Per secoli essa ha condotto l'uomo su sentieri tortuosi e diversi, ove la virtù dello spirito prevalevano su quelle della carne e dell'intelletto, che trasformava l'eudemonologia in un nonsenso fisico. Codesti sentieri oramai sono stati abbandonati, sono disabitati ed irti di erbacce e mai più saranno percorribili, ma Nietzsche e Leopardi hanno espresso più volte la loro struggente nostalgia per essi, li comprendevano e li rimpiangevano, velatamente Nietzsche, esplicitamente Leopardi."

Vi ringrazio del consiglio, giacchè, pur avendo apprezzato "l'Anticristo", avevo già riconosciuto dei limiti alla prospettiva di "condanna totale" del cristianesimo, pur necessaria all'interno della veste polemica voluta da Nietzsche per il suo libello. Un'analisi più pacata e completa deve almeno riconoscere una distinzione di fondo fra il cristianesimo originario di un Sant'Agostino per cui il mondo classico dei fondatori di città (già maledetti dalla Bibbia) è "la civiltà di Caino" e il cattolicesimo medievale in cui un San Tommaso vede nei valori della persona, della gerarchia, della differenza, nella libertà come compimento perfetto della propria natura, nel significato sacro di ogni ordine statuale tendente verso l'alto, lo splendore e la bellezza dell'ordine cosmico "voluto da Dio". Spesso cose diverse si trovano sotto lo stesso nome e sotto nomi di versi si cela la medesima cosa.
Una visione superiore e tradizionale non può non distinguere quanto nasconde la negazione del mondo e la sovversione egalitaria da una forma di religione comunque (almeno per quanto riguarda la metafisica) ancora cosmica.
Un piccolo anneddoto personale. Quando all'iscrizione alla loro anagrafe, per lavoro, i Tedeschi mi hanno chiesto di che religione ero, piuttosto che rispondere "ateo" o "agnostico" arruolandomi così di fatto nella religione moderna del laicismo, dell'egalitarismo, dell'antitradizione e del "diritto alla felicità", ho risposto "cattolico" anche se stavo proprio leggendo l'Anticristo e non ho mai fatto mistero della mia avversione all'attuale Chiesa (almeno quella scaturita dall'ultimo concilio, intendo).
Se vivessi ai tempi del basso impero in cui, secondo Nietzsche, il cristianesimo era la "punta" della sovversione non mi sarei mai dichiarato cristiano, ma poichè oggi l'avanguardia dell'egalitarismo è rappresentata non già dai preti e dai monaci, ma dai petulanti "sostenitori del diritto a questo e a quello" in nome del sentimentalismo eudemonico e spesso in polemico e gratuito contrasto con la chiesa cattolica (e il Papa tedesco in maniera particolare) ritengo più nietzscheanamente e paradossalmente "anticristiano" definirmi, se non cristiano, almeno cattolico (proprio pensando magari alla metafisica medievale, comunque parte integrante della Tradizione).
Tornando a noi, davvero non ritenete più percorribili le vie della Tradizione?


"Chi scrive ritiene che codeste suddivisioni e attribuzioni di apolli e dionisi lungo la storia siano assolutamente arbitrarie. Esempio: il comunismo è eminentemente apollineo (in principio era il Logos - idealismo), mentre ogni urfascismo è prevalentemente dionisiaco (in principio era l'azione - vitalismo). Ammettiamo che alla luce delle rispettive convinzioni si può sostenere tutto ed il suo contrario?"

Questo può essere vero, ma potrebbe dipendere dal fatto che gli opposti dialettici all'interno di un logos non siano tali anche all'interno di un altro e nuovo logos, ove magari la stessa cosa può essere tanto apollinea quanto dionisiaca senza che ciò provochi contraddizione. Problemi di linguaggio, più che di valore.


"Au contraire. Nietzsche è apollineo, rigoroso, spietato nella sua logica, coi suoi e con se stesso e fatalmente sedotto da tutto ciò che è dioniso (si leggano gli idillii di messina), che è il vero motore della civilità e creatore di mondi. Egli amava la danza e le donne ma non poteva danzare e non poteva amare le donne. Fulminante in proposito l'episodio in cui egli (giovane ma non giovanissimo) fu condotto a forza in un bordello: la sua fuga di folle terrore dinanzi alle prostitute è il segno chiaro del suo essere apollineo, uomo etico, uomo che soffriva una irrisolta dialettica interiore."

Le prostitute come sacerdotesse di un "eros dionisiaco" erano il tema di uno dei miei primi post su un altro forum. Io non fuggo folle di terrore, però qualche resistenza all'abbandono e all'ebbrezza propri del dionisiaco è stata da me vissuta. Suggestioni nietzscheane?


""Con tutto quello che il sultano ha esposto concorderebbe pienamente anche la buonanima di Mr.M. Molto apprezzabile l'aver escluso dalla lista delle concezioni lineari (biblica, marxista, progressista etc) quella cristiana. Invero il cristianesmo cattolico fornisce ad oggi l'unica fondazione metafisica e ontologica pienamente coerente di libertà dell'uomo. Per contro la libertà di cui parla il Filosofo è un mito, senza il quale l'Apollo che era in lui sarebbe morto."
La precisazione "cattolico" (accanto a cristiano) evita la polemica, vedi sopra. Comunque il senso in cui, seguendo Giorgio Locchi, uso il termine "mito" non è "falsa credenza", ma "inizio mitico di un discorso" e quindi nascita del suo dirsi come verità. Certo questo salta se ammettiamo l'esistenza di un vero metafisicamente fondato a priori. E qui è la differenza di pensare fra la visione sovrumanista e quella tradizionale (di cui certamente il cristianesimo cattolico è parte integrante, anche se non certamente l'unica). Come dicevo, pur propendendo per ora dalla parte di Nietzsche, è questo un punto fondamentale su cui il mio intelletto non ha affatto deciso. Se oltre al sentire mi fosse chiaro anche il pensare tenterei di scrivere un trattato, non un post in cui appunto parlo di "sentimento del mondo" (non ancora propriamente di filosofia).


"L'ossessione di Nietzsche riguardava ben altri nemici, per lo più suoi conterranei... Si tende sovente a sovrastimare il carattere anticristiano del pensiero di Nietzsche. L'anticristianesimo è una superstizione che richiede la possibilità di un anticristo e sottende una dialettica simile a quella di dioniso contro apollo. In molti, troppi, hanno accostato Cristo ad Apollo, ma il pensiero che sta oltre il bene ed il male non accetta, anzi nega le basi stesse di questo tipo di dialettica."

Verissimo. Il colmo dei colmi è che i moderni "guardiani" della sovversione egalitaria (oggi laicista) mettono in rete, completa, una sola opera di Nietzsche: l'Anticristo (non è nemmeno da rilevare la bassezza del tentativo di usare temi filosofici e incompresi dai più per polemiche politico-ideologiche di ben più ristretta portata e di scarso valore). Non si accorgono essi che il "cristianesimo" contro cui parla Nietzsche non è tanto quello religioso, quanto quello usato politicamente per giustificare la sovversione egalitaria. Praticamente se Nietzsche scrivesse oggi il libello sarebbe rivolto probabilmente contro i più feroci critici attuale della Chiesa e del Papa. Ma essi non se ne avvedono.


"Nietzsche era particolarmente bravo a unire pensiero e biografia. Ma egli rifugge con ogni sforzo da questa trappola che è la vita. Egli vive in assoluta solitudine i suoi momenti di filosofia, egli cerca con ogni sforzo di sottrarsi alla pressione della propria natura apollinea."
E anche questo modo di vivere non è forse segno della sua stessa filosofia, tanto solitaria, tanto inaccessibile e tanto sprofondata laddove i poli opposti possono convivere?

"Una natura meno autodiretta e rigorosa avrebbe potuto prosperare felicemente in compagnia di Salomè, donna di grande Spirito e disciplina. E' noto come siano andate le cose e non è ammissibile giudicare i pensieri di questo Grande alla luce della miseria di questi particolari biografici."

Bisognerebbe spiegarlo a chi, con metodi da Stasi, analizza Nietzsche sulla base della valutazione psicanalitica delle sue presunte tendenze "omofile".


"...Leopardi non offriva vie d'uscita, al più suggeriva viatici (l'arte o la menzogna per i poveri di spirito), mentre per Nietzsche, la via era quella dell'oltreuomo, una via quindi inaccessibile all'umanità."

La via d'uscita di Leopardi inizia con il suscitare nel lettore il sentimento della necessità di un'uscita. La via di Nietzsche non è ancora stata davvero esplorata. Non è affatto detto sia inaccessibile per l'umanità. Diciamo che forse l'umanità non vuole rischiare di intraprenderla per paura della fatica, del dolore e della colpa. Necessita infatti un'autosuperamento.


"Ancora ringraziamenti "
Ricambiati

SALUTI DALLA SUBLIME PORTA

 
At Perşembe, Eylül 04, 2008 12:58:00 ÖS, Anonymous Adsız said...

Oggi necessità contingenti costringono chi scrive a condensare il cimento dialettico ad una sintesi puntuta e quasi gaglioffa, per la quale mi scuso da ora, sapendo che il prezzo di una diversa attitudine sarebbe il silenzio; un silenzio che non vogliamo, sopratutto adesso che la base di una comune struttura teoretica pare concretamente fondata e che il sentiero s'e' fatto strada dritta atta alla velocità.
Ora i temi condivisi non saranno nemmeno sfiorati, limitando il discorso alla radice delle idee:

- "Il rigore dialettico fa seguire come necessarie certe conclusioni da certe premesse, ma non può creare le premesse e i loro valori di verità."

Questo è un punto cruciale. L'unico rigore dialettico che conosciamo consiste solo nel linguaggio matematico-scientifico, di volta in volta prestato ad altri ambiti, ad esempio la filosofia (questo è il punto da cui il sentiero di Severino diverge dal nostro). Nel sapere matematico-scientifico le premesse (gli assiomi) unitamente al modello formale di riferimento, contengono in nuce tutte le verità possibili, nonchè i limiti ontologici di ogni verità (come ebbe a dimostrare Goedel) esprimibile all'interno di codesto linguaggio formale. Il genio dell'uomo cerca di descrivere l'universo intero attraverso i suoi rigoroso linguaggi formali, e i successi del sapere scientifico sono davvero infiniti. Altrettanto non può dirsi di alcun altro linguaggio storico (simbolico-religioso, artistico-poetico etc.), per questo motivo questa struttura del sapere si attesta oggi sopra qualunque altra struttura di pensiero. Questa è l'opinione di chi scrive: il linguaggio matematico scientifico è il più potente mai usato dall'uomo. La struttura metafisica del sapere scientifico è proprio quella enunciata dal sultano nel testo virgolettato: le premesse non sono fissate a priori e la loro verità epistemica è una funzione dell'esperienza. Questa è proprio la fede nel Nulla ontologico che ha dato origine alla scienza ed alla sua lingua.
Chiariamo subito: da questa verità non si va oltre la scienza. Arrivati qui non si può nemmeno tornare indietro ad una verità prescientifica, a meno di non asportare chirurgicamente il proprio intelletto, operazione talvolta possibile (Giovanni Lindo stramaledetto Ferretti docet). Qui una possibilità intellettualmente onesta è quella di Leopardi, ovvero languire nella dolcezza dell'arte e della grazia estetica. E' anche possibile ricorrere all'uso di droghe, alcol o, per chi non è del tutto privo di grazia, l'orizzontale sentiero estetico del Don Giovanni kierkegaardiano. Tutte queste sono vie che rimangono ben radicate nella teoresi del Nulla ontologico, sono quindi le più comuni. Seguire simili sentieri è però possibile solo per chi non ha una netta prevalenza di fuoco e aria a discapito di terra e acqua, ovvero per chi non è apollineo come Nietzsche. Costui ha solo una via: superare la fede nel Nulla, superare il linguaggio scientifico o perire nel tentativo. Lo Spirito di Nietzsche non ha scelta, non gli rimane che questo sentiero misterioso al di fuori del Nulla, oltre il Nulla. Chi scrive ignora ove conduca questo sentiero, ignora persino quale sia la sua direzione, ma è certo di una cosa: tutti potranno facilmente riconoscere quando quel sentiero sarà imboccato: così come la fede attuale ha forgiato un linguaggio potente come il mondo (quello scientifico), il futuro sentiero porterà ad un linguaggio ancor più potente di quello scientifico, un linguaggio che attinga alla radice stessa dell'esistenza, un linguaggio inimmaginabile ma realmente Epistemico, un linguaggio che oggi noi non riusciremmo a definire in altro modo che con la parola magia... Immaginiamo cosa sarebbe, solo per onirico divertimento: non più volontà di potenza (il giogo crudele a cui tutti oggi siamo incatenati), ma una parola, un mantra che faccia coincidere volontà e potenza. Indubbiamente il sultano sa immaginare le conseguenze di una simile ipotesi sulle strutture secolari odierne.
Si tratta ovviamente di sogni e chi scrive non sa niente, nè vuole suggerire che un simile sogno potrà mai avverarsi: certamente egli non attribuisce alcun credito alle discipline esoteriche, essoteriche, pseudoreligiose.
Ritieniamo che la strada non sia così facile da esser visibile alle menti inferiori che oggi si appassionano alla magia e ai culti misterici, ma certamente non può negare la suggestione delle letture di Guenon e Gurdjeff.

2)"Tornando a noi, davvero non ritenete più percorribili le vie della Tradizione?"

A questa bellissima domanda è stato sopra quasi completamente risposto.
Per onestà qui resta da aggiungere solo un curioso ma significativo dettaglio sulle opinioni personali di chi scrive. Esse derivano da letture e pensieri molto simili a quelli qui espressi dal sultano, meditati e maturati dentro ad un corpo fisico ed uno spirito diverso (probabilmente per via di una certa carenza di acqua e fuoco e una netta prevalenza di aria e terra). E così le idee morali, le opinioni politiche e sociali di chi scrive, si riconducono quasi tutte all'alveo del socialismo scientifico e all'antimodernismo, in una parola: Pasolini. Il perchè di questa specificazione in risposta alla domanda del sultano dovrebbe ormai essere evidente: nessuna fede nell'oltreuomo; nessuna fede in quel sogno che abbiamo e in quel sentiero misterioso che conduce al Ritorno all'Eterno.
Chi scrive condivide di Nietzsche molti pensieri e convinzioni profondo, condivide il nome di battesimo, ma non il suo fragile spirito pugnace: egli era una Fenice (aquila -aria e serpente -fuoco-) il sottoscritto è uno Shedu (toro - terra e aquila -aria ).

 
At Perşembe, Eylül 04, 2008 4:52:00 ÖS, Blogger Beyazid II Ottomano - Sultano di Costantinopoli said...

“Questo è un punto cruciale. L'unico rigore dialettico che conosciamo consiste solo nel linguaggio matematico-scientifico, di volta in volta prestato ad altri ambiti, ad esempio la filosofia (questo è il punto da cui il sentiero di Severino diverge dal nostro). Nel sapere matematico-scientifico le premesse (gli assiomi) unitamente al modello formale di riferimento, contengono in nuce tutte le verità possibili, nonchè i limiti ontologici di ogni verità (come ebbe a dimostrare Goedel) esprimibile all'interno di codesto linguaggio formale. Il genio dell'uomo cerca di descrivere l'universo intero attraverso i suoi rigoroso linguaggi formali, e i successi del sapere scientifico sono davvero infiniti. Altrettanto non può dirsi di alcun altro linguaggio storico (simbolico-religioso, artistico-poetico etc.), per questo motivo questa struttura del sapere si attesta oggi sopra qualunque altra struttura di pensiero. Questa è l'opinione di chi scrive: il linguaggio matematico scientifico è il più potente mai usato dall'uomo.”

Potrei a questo punto asserire che il linguaggio matematico-scientifico non è che la fase dialettica del discorso nascente con il mito apollineo. Del resto Platone svolge proprio questo compito: il passaggio dal linguaggio mitico a quello razionale di un medesimo logos. La logica di Aristotele ne è una conseguenza e tutto quanto l’illuminismo ascrive a proprio merito è in realtà discendente dall’amore per la chiarezza proprio dei seguaci di Apollo. “Le radici della Scienza”, come qualche tempo fa sottolineava un breve ma interessante ciclo di “alle otto della sera” su radio due, smentendo molti luoghi comuni, affondano nell’Antichità. E in principio è sempre appunto un “Amore” che si esprime come mito “capacitante” e unificante. Del resto, per anticipare il vostro suggerimento, non diceva San Tommaso “Amor est magis cognitivus quam cognitio”?
Il dualismo ragione (in cui sarebbe la “conoscenza vera”) e sentimento (in cui sarebbero l’amore e i sogni quali pulsioni irrazionali e illusorie) è una mera invenzione borghese per compensare con “i sogni” la mancanza di senso del mondo ridotto a meccanicismo cartesiano. Prima che con Descartes e Kant il termine realtà venisse gravemente amputato dei suoi significati più profondi e più alti da una definizione assai ristretta di “ragione”, non vi era alcun romantico bisogno di fughe sentimentali della mente per dare alla vita e al mondo un superiore significato, una più compiuta bellezza, un più nobile valore. San Tommaso è uno degli esempi.

In quest’ottica il linguaggio mitico e quello razionale non sarebbero affatto due alternative contrapposte fra cui scegliere esclusivamente, ma le due fasi diverse e successive dello stesso discorso che si sviluppano l’una nell’altra.
E per cambiare discorso serve dunque sempre creare un “nuovo mito”, ovvero quanto ha tentato di fare Nietzsche e quasi nessuno è riuscito a continuare.


” La struttura metafisica del sapere scientifico è proprio quella enunciata dal sultano nel testo virgolettato: le premesse non sono fissate a priori e la loro verità epistemica è una funzione dell'esperienza. Questa è proprio la fede nel Nulla ontologico che ha dato origine alla scienza ed alla sua lingua. Chiariamo subito: da questa verità non si va oltre la scienza.”

Questo è vero, ma dipende dal fatto che le premesse di verità da cui viene ricavato tutto il sapere vengono ristrette al sensibile, e in particolare a quanto può essere esperito dall’individuo comune, indifferenziato e riprodotto in maniera asettica in laboratorio. Già così tutto quello che è “unico” viene di fatto escluso dalla “realtà”. Parimenti viene tacciato di “fumo metafisico” tutto quanto nel mondo della tradizione era sì universale, ma proprio per questo sperimentabile solo da determinati tipi umani, in determinate condizioni, dopo determinate prove e riferibile agli altri solo simbolicamente. Sfido che l’attuale sapere non possa andare oltre la scienza.
Sarebbe come limitare l’osservazione a quanto è possibile vedere dalle medie altezza di un pendio su cui tutti possono salire (senza neanche troppo sforzo) e non accettare nulla di quanto giunge a vedere chi ha le doti e la voglia per raggiungere la vetta e accetta il rischio e la fatica di entrare nel regno delle rocce e dei ghiacci inaccessibile per i più.
Ecco perché l’orizzonte è sempre più ristretto: si sono esclusi tutti i panorami che implicano il salire oltre quanto può essere fatto dal “camminatore medio”, perché ciò negherebbe il principio “democratico” secondo cui una verità è tale solo se “dimostrabile a tutti”.
Fino ai tempi di San Tommaso l’accettazione del pensiero razionale quale strumento conoscitivo non impediva affatto che forme superiori di conoscenza potessero derivare, ad esempio, da chi intraprendeva le vie dell’ascesi (sia quella dell’azione, sia quella della non-azione), da cui originariamente traevano valore e significato le caste superiori dei guerrieri e dei sapienti, i cui criteri di valutazione erano appunto il sacro e l’eterno, e i cui ultimi residui erano proprio nel medioevo cattolico gli ordini cavallereschi e gli ordini monastici.
Storicamente (e l’inizio di questo è ben precedente la Rivoluzione Francese, e può essere rintracciato nelle lotte dei comuni medievali contro l’Autorità dell’Imperatore, la quale, Dante docet, è derivata da Dio esattamente come quella del Papa) è da quando il pensiero razionale è divenuto strumento di sovversione da parte delle caste inferiori dei mercanti e dei servi (i cui criteri sono l’utile e il tempo) che l’orizzonte della realtà osservabile si è via via ristretto.
Da qui la necessità di riallargarlo con una “Gaia Scienza”.


“Arrivati qui non si può nemmeno tornare indietro ad una verità prescientifica, a meno di non asportare chirurgicamente il proprio intelletto, operazione talvolta possibile (Giovanni Lindo stramaledetto Ferretti docet).”

Trascurate dunque la possibilità che piani diversi di verità possano coesistere? Ovvero che, come sosteneva Nietzsche nella sua fase “illuminista”, esistano sempre almeno mille facce dello stesso problema, fra le quali quella scientifica è soltanto una delle possibili, e nemmeno la più “interessante”?

“Qui una possibilità intellettualmente onesta è quella di Leopardi, ovvero languire nella dolcezza dell'arte e della grazia estetica. E' anche possibile ricorrere all'uso di droghe, alcol o, per chi non è del tutto privo di grazia, l'orizzontale sentiero estetico del Don Giovanni kierkegaardiano. Tutte queste sono vie che rimangono ben radicate nella teoresi del Nulla ontologico, sono quindi le più comuni.”

Sono anche quelle che discendono dalla dissociazione (propria dei secoli della rivoluzione industriale) fra ragione e sentimento, fra pensare e sentire, fra ciò che si dovrebbe fare in conformità ad un ordine cosmico per raggiungere la libertà e ciò che si crede di voler fare per sentirsi liberi, nonché fra ciò che “l’Apparato” impone di fare e ciò che darebbe invece senso all’azione.


“Seguire simili sentieri è però possibile solo per chi non ha una netta prevalenza di fuoco e aria a discapito di terra e acqua, ovvero per chi non è apollineo come Nietzsche. Costui ha solo una via: superare la fede nel Nulla, superare il linguaggio scientifico o perire nel tentativo. Lo Spirito di Nietzsche non ha scelta, non gli rimane che questo sentiero misterioso al di fuori del Nulla, oltre il Nulla.”
Qui sta il tema del “sacrificare il miglior sé”.


“Chi scrive ignora ove conduca questo sentiero, ignora persino quale sia la sua direzione, ma è certo di una cosa: tutti potranno facilmente riconoscere quando quel sentiero sarà imboccato: così come la fede attuale ha forgiato un linguaggio potente come il mondo (quello scientifico), il futuro sentiero porterà ad un linguaggio ancor più potente di quello scientifico, un linguaggio che attinga alla radice stessa dell'esistenza, un linguaggio inimmaginabile ma realmente Epistemico, un linguaggio che oggi noi non riusciremmo a definire in altro modo che con la parola magia... “

Non potrebbe essere diversamente: chi racconta di “sapere dove finisce il sentiro” o di poter “descrivere precisamente il progetto oltreumano” evidentemente è un impostore. E in malafede è chi pretende di dimostrare l’assurdità del tentativo con la non scientificità (per ora) del concetto. Tutto quanto può essere (già ora) ricompresso in termini logico-razionali non può essere in alcun modo oltre-umano: sarebbe una contraddizione in termini. Quanto va oltre l’uomo attuale e il nulla oltre deve per sua natura oggi apparire appunto a noi come mito, e quindi parlare il linguaggi di una “magia”.
E’ esattamente quanto intendevo fin dalla mia prima risposta a Kefiso.

“Immaginiamo cosa sarebbe, solo per onirico divertimento: non più volontà di potenza (il giogo crudele a cui tutti oggi siamo incatenati), ma una parola, un mantra che faccia coincidere volontà e potenza. Indubbiamente il sultano sa immaginare le conseguenze di una simile ipotesi sulle strutture secolari odierne.”
Gaia Scienza e Idilli di Messina.
Una sapienza dal piede leggero, una scienza che sappia trattare non solo le macchine e i corpi, ma anche l’arte, la poesia, la religione, l’etica, una conoscenza che possa parlare della musica di Wagner in termini diversi dall’analisi spettrale dei suoni.

”Si tratta ovviamente di sogni e chi scrive non sa niente, nè vuole suggerire che un simile sogno potrà mai avverarsi: certamente egli non attribuisce alcun credito alle discipline esoteriche, essoteriche, pseudoreligiose.
Ritieniamo che la strada non sia così facile da esser visibile alle menti inferiori che oggi si appassionano alla magia e ai culti misterici, ma certamente non può negare la suggestione delle letture di Guenon e Gurdjeff.”

Il termine di magia (così come quelli di occultismo, esoterismo, spiritualità) è oggi assai frainteso (per non dire invertito), anche se taluni antropologi ci hanno insegnato a distinguere la magia effettivamente funzionale ad un popolo in una data epoca per la sua vita ed il suo sviluppo e la magia quale “illusionismo” dei tempi moderni.
Probabilmente più che affidarsi a culti misterici dalla genuinità più o meno dubitabile vi è più probabilità di approssimarsi almeno a capire cosa sia una via iniziatica percorrendo in solitudine monti e valli nella meditazione su testi tradizionali.

Vi ringrazio per l’attenzione e la stima.

SALUTI DALLA SUBLIME PORTA

 
At Pazar, Eylül 07, 2008 9:04:00 ÖS, Blogger Rocky Joe said...

Sultano, consentimi un consiglio amichevole: non cedere alla tentazione di chiamare “marxista” tutto ciò che non è concorde col tuo pensiero.

Passiamo alla tua risposta. Io non parlavo di “utile” e “pratico”, dicevo solo che la schiavitù esisteva quando bisognava lavorare molto per ottenere relativamente poco, mentre con la tecnica attuale basta lavorare relativamente poco per ottenere molto, quindi non avrebbe un grande senso. Tutto qui. Non intendo né sostenere né negare (o rinnegare) niente e nessuno, né mi sono scandalizzato per qualcosa. Io non contesto alcun pensiero, però ogni pensiero in un modo o nell’altro mi lascia perplesso come mi lascia perplesso ogni proposta di “riscatto” sociale. Per inciso io non ho rinnegato il marxismo, che è stato per lo più tra le principali miei letture giovanili, non mi ha convinto come non mi hanno convinti altri sistemi di pensiero. In fondo tutti i grandi pensieri hanno una struttura portante in comune. Se guardiamo i tre pensieri principali della storia più recente, cristianesimo, marxismo e “nietzschianesimo”, di cui il primo per certi versi sembrerebbe il frutto del “matrimonio” tra giudaismo e platonismo e gli altri due i “nipotini” contestatori ma molto simili, troviamo che tutti e tre questi pensieri hanno le seguenti caratteristiche:

1. la distinzione dagli altri pensieri, cioè io dico la verità e dico cose buone mentre tutti gli altri dicono fesserie;
2. la conseguente riconduzione di tutti gli altri pensieri in un’unica categoria (il campo "avverso"), la sapienza del mondo o di satana per il cristianesimo, il pensiero borghese per il marxismo e la “sovversione egalitaria” per il nietzschianesimo. Questo mentre il proprio pensiero si distingue da tutti gli altri e quindi il cristianesimo sarebbe la saggezza di dio, il marxismo il pensiero proletario e il nietzschianesimo il pensiero “aristocratico” (paradossalmente però pare che Nietzsche sia l’autore più popolare dell’occidente, lo leggono persino gli scaricatori di porto della dogana dove lavora un mio amico…). I no global lo chiamano “pensiero unico” che poi è meno unico del loro;
3. la catalogazione degli uomini in serie e categorie, uomini di serie A e uomini di serie B. I credenti e figlioli di dio contro gli uomini del mondo, i proletari “combattenti” contro i borghesi e i piccolo borghesi (che poi i funzionari e gli intellettuali del partito comunista fossero quasi tutti borghesi e piccolo borghesi poco importa), aristocratici e plebei.
4. la promessa di un rinnovamento dell’Umanità, il regno di dio, il socialismo, il superuomo. Tutte promesse di una nuova era, un mondo migliore.
5. la sete di vendetta verso l’uomo comune. Cos’altro è l’avvento del messia, la rivoluzione socialista e l’avvento del superuomo e di un’aristocrazia dominatrice se non l’espressione della volontà di distruggere, schiacciare, umiliare e dominare la gente comune? Se così non fosse queste dottrine prometterebbero ai loro sostenitori, come la Setta del Sole in Giappone, un pianetino tutto loro dove vivere a modo loro. Invece no, loro vogliono vedere la distruzione dell’uomo comune! Forse perché è il “plebeo” in definitiva il modello vincente? È forse il dominio “plebeo” quello vittorioso? Del resto perché mai questa “aristocrazia” così sublime, così forte di cui tu e Nietzsche parlate non ha conservato il potere? Come mai ha perso il suo dominio a favore della “plebe”?

Come vedi tutti e tre questi pensieri, pur contestandosi a vicenda, sono molto simili tra loro. Ma del resto è normale “litigare” più con chi ti somiglia che con chi è diverso. E tutti e tre questi pensieri sono riconducili ad archetipi della mente umana: voglia di distinzione, voglia di verità, voglia di speranza per un futuro migliore, voglia di competizione e di confronto e così via. Ma tutto questo non è mera “volontà di illusione”?

Io, nel mio piccolo (microscopico direi), sono troppo scettico per sottostare a queste illusioni, ma troppo ingenuo per non intervenire e non dire la mia, purtroppo. Tu dici di essere un bravo ingegnere. Io non lo metto in dubbio, ma lo dici tu. E chi può confermarti che in una società schiavista non saresti il primo schiavo? Ti piacerebbe? Il ritenerti appartenente a una categoria “superiore” (perché alla fine è questo che si nasconde nei tuoi scritti, come in quelli di Nietzsche) non sarà solo una tua (e sua) ingenua presunzione? Come non notare negli scritti di Nietzsche, il fatto che quando parla del suo superuomo si sente lui stesso in un certo modo tale, o almeno un anticipo di esso? Nietzsche stesso ha avuto una vita piuttosto miserabile sotto certi aspetti. Solo, emarginato, poche donne e pochi amici, malato e sofferente. Credo sia lecito pensare che da questo suo dolore sia nato il suo pensiero.
Tutta questa smania del “sublime”, dei “nobili ideali”… mi ritorna in mente ciò che scrissi a un mio amico marxista di Torino (che faceva i tuoi stessi ragionamenti sulla “gloria”, sul sacrificio, sull’eroismo e altre cose del genere): ma cosa hanno fatto questi nobili ideali per me? Cosa ho da spartire con loro? Sono troppo vile, troppo meschino, troppo plebeo e piccolo borghese per poterli prendere sul serio.
Io vivo “a sbafo” e ne vado fiero. I miei nobili ideali sono quattro:

1. mangiare;
2. bere;
3. dormire;
4. trombare.

Se poi aggiungiamo il defecare, l’urinare e respirare abbiamo un quadro più completo. Il resto per me sono seghe mentali che, per carità, sono piacevoli da fare e da ammirare, ma in tutta sincerità faccio molta fatica a prenderle davvero sul serio.
Tutto ciò che io faccio e che do è mia gentile concessione. Io non devo niente a nessuno, né alla vita, né alla società, né a chicchessia. Questo anche per il semplice motivo che non sono stato io a chiedere di venire al mondo.
Ciò che mi preoccupa del mondo moderno non è certo al mancanza di “eroismo” di cui posso benissimo fare a meno. Sono tutt’altri i problemi che vedo in giro: ottocento milioni di persone che soffrono la fame, un miliardo e mezzo di disoccupati, l’inquinamento, la depauperazione ambientale e così via. Tutti quei problemi “materiali” che impediscono di fare del mondo un “verde pascolo” per noi gente comune, insomma! Perché poi? Cosa c’è di male nei verdi pascoli? Non è forse un giudizio di valore (e quindi morale) darne una valutazione negativa?

Per ciò che concerne l’illusione dell’io e roba del genere dico solo che si tratta di roba troppo astratta, vasta e profonda per la mia limitatissima intelligenza di plebeo, per cui lascio che ve ne occupiate voi superuomini…

Per quanto riguarda invece la dimostrazione, non è che voglia farne un’apologia, figurati, però se noi ci togliamo la briga di dimostrare in maniera più o meno oggettiva, o perlomeno di argomentare ciò che affermiamo non è che rischiamo di sfociare nell’arbitrio personale sostenuto solo da gusti personali e quindi ognuno può dire la sua? Non è che poi tutti hanno ragione, la propria ragione intendo?

Detto questo concludo che per quel che mi riguarda il tuo superuomo può anche venire se non mi infastidisce, in caso contrario da parte del sottoscritto riceverà dei supercazzottoni, parola di plebeo!

Un salutone

Ps: com’è che la “Pallade-Artemide” che tanto adori e veneri non ti calcola proprio? Non ho letto un solo suo commento ai tuoi post! Ah, io non ho detto che costei sia un’attricetta, ma una… escort! Tutto qui. Non è forse vero? Ma poi perché ci tieni tanto a lei?

 
At Salı, Eylül 09, 2008 11:56:00 ÖÖ, Blogger Beyazid II Ottomano - Sultano di Costantinopoli said...

Illustrissimo messer Giubizza,

non ho affatto “ceduto alla tentazione di chiamare marxista quanto non concorda con il mio pensiero”. Ho freddamente rilevato invece che la vostra distinzione delle strutture sociali in base alla dicotomia sottoproduzione/sovrapproduzione è di chiara derivazione marxista, come voi puntualmente confermate parlando delle vostre letture giovanili. Sottolineo ancora una volta come nulla di male vi sia in questo (io stesso sono quel che sono anche grazie ad amici marxisti che da un lato mi hanno aperto gli occhi sulle menzogne liberali e dall’altro mi hanno reso chiara, per negazione, la differenza fra il loro sentire egalitario ed il mio sovrumanista), ma come un continuare a giudicare secondo criteri materiali e utilitaristici non permette di comprendere quanto invece afferisce un discorso sui valori etico-spirituali dell’aristocrazia.
Tutto quanto per voi definisce il possibile, il fattibile, il positivo e l’opportuno in relazione all’umanità ha sempre costituito per ogni sentire nobile soltanto il presupposto (necessario, magari, ma non sufficiente) per vivere, da cui iniziare l’ascesi verso tutto quanto costituisce la “più che vita” (secondo la tradizione è il mondo della trascendenza, secondo Nietzsche è la vita nel suo senso ascendente, tramite cui ritorna nell’immanenza della vita ogni caratteristica tradizionalmente propria della trascendenza, prime fra tutte la tensione verso l’alto, la concezione eroica e la necessità del superamento dell’umano).

Prendere come finalità l’inizio, come fine in sé quanto costituisce soltanto il mezzo per qualcosa di superiore è tipico proprio del tipo umano inferiore ed è caratteristico non già di voi in particolare (sebbene vi lamentiate del contrario, continuo a considerarvi, sulla base delle argomentazioni e degli argomenti non scontati presenti sul vostro blog, e se non altro per il fatto stesso di porvi questioni al di là dell’individualismo eudemonico caratteristico di quasi tutti i blogger, tutt’altro che un “tipo inferiore”, e se vi contrasto dialetticamente è solo perché scorgo in voi, dietro l’apparenza di un pensare figlio dei tempi e per molti versi simile a quanto io prima di veder chiaro su Nietzsche ero indotto ad elucubrare per conciliare la cultura egalitaria con le necessità dello spirito, un sentire non comune: in caso contrario cestinerei i vostri commenti come quelli di ogni “paladino della democrazia”), di una pseudociviltà come quella moderna capace di assolutizzare e idolatrare l’individuo (ossia proprio quanto è caduco e relativo) e uccidere la vita nel suo senso ascendente (ossia quanto sarebbe invece davvero assoluto, eterno ed eternante, se ben inteso).

Quanto alle vostre similitudini forzose fra cristianesimo, comunismo e nietzscheanesimo, ritengo siano figlie proprio della negazione di ogni differenza qualitativa e dell’uguaglianza dei diritti (formali) trasposte dagli individui ai discorsi filosofici.

1) Cercare di convincere di essere il discorso “più vero” è proprio di ogni pensiero voglia dire qualcosa e non può dunque costituire un criterio valido di catalogazione delle filosofie: vi rientrerebbero tutti i pensieri diversi dall’assoluto nichilismo. L’unica eccezione pare costituita dal “pensiero debole” di Gianni Vattimo il quale, scherzo del destino, è comunque figlio di Nietzsche (anche se il prof. di Basilea non lo riconoscerebbe).

2) La catalogazione del cristianesimo (almeno quello delle origini) e del comunismo nel “campo avverso” da parte del nietzscheanesimo non è affatto arbitraria, né segno di intolleranza di stampo monoteista (oggi divenuta “pensiero unico”), ma deriva precisamente dal modo “pagano” e “pluralista” di concepire ogni reale, ogni discorso ed ogni valore di verità. Nietzsche non crede affatto ad un verbo di tipo biblico in grado di “dirsi da sé” e quindi di costituire la verità assoluta ed incarnata, fissa ed immutabile, innanzi alla quale tutto il resto è menzogna, ma pensa (e questo, certo, non è detto chiaramente ma deve essere pazientemente ricavato dalle sue aristocratiche ed enigmatiche opere, come ha cercato di fare Giorgio Locchi) che ogni discorso, ogni logos, per dirsi, abbia bisogno di “prendere a prestito” il linguaggio proprio del precedente (ed opposto) logos, di presentarsi all’inizio sotto forma mitica (nella quale le contraddizioni, inevitabili per l’uso “falsato” di un linguaggio cui vengono cambiati via via gli opposti dialettici, non sono sentite come tali) e solo successivamente di svilupparsi in senso dialettico (una volta che il linguaggio è stato completamente adeguato ai nuovi significati) dando origine alle diverse ideologie (ovvero sistemi di idee, le quali però non derivano né dal nulla di invenzioni arbitrarie, né dall’escatologica certezza di un verbo rivelato, ma dal farsi pensiero razionale e dimostrativo di una “verità” sentita prima come “evidente” in forma di mito o mitema). In tale concezione è facile vedere il marxismo, il liberismo, la democrazia, il femminismo, la religione dei diritti umani, eccetera quali ideologie differenti e spesso in contrasto, ma aventi in comune l’origine mitica (quella a partire dalla quale “nascono” i valori di verità da cui discende ogni dimostrazione razionale) nel cristianesimo. Questo non implica affatto che tutto quanto non coincida con il pensare di Nietzsche sia da Nietzsche stesso bollato quale menzogna alla pari di quanto la Bibbia fa con i pensieri “pagani”. Accanto al discorso egalitario (di cui il cristianesimo delle origini e il marxismo sono rispettivamente fase mitica e fase dialettica), contro cui Nietzsche si leva nell’Anticristo, vi sono tanti altri discorsi non bollati quali “campo avverso” o “menzogna assoluta”: basti pensare all’Islam, al codice di Manu, allo stesso pensiero dei presocratici e a tutto quanto Nietzsche sempre nell’Anticristo non critica come “nemico supremo”, ma riconosce quale discorso diverso nascente da una “verità mitica” diversa e capace di generare nella fase razionale linguaggi, significati, bellezze e valori diversi (si ricordi che il termine di “sacra menzogna” non ha una valenza negativa nella “metafisica” nietzscheana).
Persino il cristianesimo cattolico del medioevo, capace di concepire un ordine cosmico, di vedere la bellezza del divino nel mondo e di conoscere un San Tommaso ed un Dante non rientra affatto (al di là di ogni verve polemica) nel “campo avverso” di Nietzsche (è stata una sua colpa forse non precisarlo nel libello, ma molti suoi scritti lo confermano). Il motivo per cui il cristianesimo delle origini e le sue varie ideologizzazioni quali protestantesimo, controriforma, liberalismo, democrazia, marxismo, femminismo eccetera sono bollati quali “avversi” e “capovolgenti la realtà” risiede proprio nel fatto che sorgano da un logos con pretese di “incarnarsi” e di “dirsi da sé” e quindi di eliminare qualsiasi altro mito e qualsiasi altro linguaggio. La differenza fra il mito cristico e gli altri miti che Nietzsche non accetta ma non avversa è proprio in questa sua pretesa assolutistica (propria del resto del monoteismo e di quanto, come appunto il pensiero unico, vi discende) e quindi fondamentalmente falsa. Ecco il senso del “Non è forse questa la verità? Che debbano esistere gli dèi e quindi non possa esistere un Dio?” Una verità pretesa come fissa e assoluta ucciderebbe quel “gioco” di verità nascenti dal mito e “dimostrate” nella fase dialettica dalle ideologie che vi nascono, simile per varietà al gioco della vita. E come nella vita la non esistenza di una specie assoluta non implica che tutte le speci siano uguali o ugualmente degne di vivere, perché esternamente ad esse vi sono le leggi della vita ascendente, così la non esistenza di una verità assoluta ed “autodicentesi” non implica tutte le altre verità siano eguali ed egualmente degne d’essere credute, giacchè vi è anche qui un confronto con “la Sapienza della Vita”. E dal confronto con essa tutte le verità discendenti dal mito cristico-egalitario risultano dannose, come Nietzsche cerca di mostrare comparando l’uomo della classicità e l’uomo del rinascimento con il malato uomo moderno frutto della sovversione egalitaria: ecco dunque la sua condanna, la quale nulla ha dell’assolutismo proprio del monoteismo biblico.
Non si cerchi dunque di vedere in noi nietzscheani quanto è proprio di coloro cui ci contrapponiamo con forza!
Io sono il primo a voler installare nel mio “pantheon dei logos” la statua al logos ignoto. Non crediate voglia fare di Nietzsche un santo! Egli non lo voleva!
Sto solo cercando di seguire Nietzsche nel suo tentativo di creare un nuovo discorso da cui far discendere una visione del mondo più adeguata di quella attuale alle sfide di un’era che sta al passato come l’era storica sta a quella preistorica (e su questo sarete d’accordo). Nietzsche (assieme a Wagner) ha generato tale discorso nella forma del nuovo mito: spetta ai contemporanei svilupparlo dialetticamente.
Il fatto stesso che Nietzsche sia “il più letto nel pensiero occidentale” e persino “gli scaricatori di porto della dogana del vostro amico” ne siano affascinati dimostra solo la potenza di tale creazione mitica. Del resto fin dall’inizio del Novecento gran parte di personaggi della cultura, della politica e della storia furono segnati da Nietzsche, da Sorel a Mussolini, da D’Annunzio a Lenin, anche laddove, come nel caso di quest’ultimo, l’ideologia professata avrebbe dovuto escluderne l’assimilazione. I contorni della politica e dell’ideologia non sono sempre quelli del sentire. Solo nel secondo dopoguerra il pensiero unico è riuscito nell’intento di escludere il discorso sovrumanista da ogni idea accettata dal campo “egalitario”. A questo contribuisce certo la scarsità di proposte filosofico-razionali da parte di chi, seguace di Nietzsche, dovrebbe sentire la necessità di tentare l’inizio di una fase dialettica dal suo mito. Ma questo è legato all’immobilismo dell’intera filosofia attuale. Piacevoli eccezioni sono state per me Giorgio Locchi e Stefano Vaj (per questo li cito spesso).
Mi premuro solo di aggiungere che, data la sovversione operante da diversi millenni, l’ordine sociale non risponde più alla qualità etico-spirituale delle persone, per cui può benissimo essere vero che il vostro scaricatore di porto nasconda, dietro una mancanza di cultura di cui la scuola egalitaria è colpevole ed una mancanza di status sociale di cui ha colpa il capitalismo, un sentire perfettamente aristocratico (il quale magari non diviene pensiero conseguente per la distanza tuttora esistente fra interessi culturale ed interessi vitali).

3) La catalogazione degli uomini in diverse categorie (e non certo le sole due lettere dell’alfabeto) è propria molto più di chi, come Nietzsche, riconosce e valorizza le differenze qualitative, che non di chi le nega “davanti a dio” (o “davanti all’uguaglianza naturale”). Questi ultimi semmai (tanto cristiani quanto marxisti) dividono l’umanità proprio in chi vuole l’uguaglianza e la sostiene e in chi vi si oppone. Anziché “catalogare” gli uomini sulla base di quanto eccellono nei valori superiori che giustificano idealmente l’esistenza alla luce del sacro e dell’eterno o comunque permettono anche anti-metafisicamente (come vorrebbe Nietzsche) il superamento dell’umano, chiamano “cattivi”, “seguaci di Satana”, “forze reazionarie” coloro i quali riconoscono e sostengono tali valori e tale differenze, e “buoni”, “figli di dio”, “forze progressiste” coloro i quali negano tali differenze e con esse i valori superiori su cui si queste fondano. Capite la radicale diversità? Da un lato abbiamo differenze qualitative fondate su valori superiori (che per voi non esistono ma che sono il fondamento di ogni etica aristocratica) , dall’altra la negazione di ogni differenza che diventa a sua volta un criterio discriminatorio fra “buoni e cattivi”: un criterio da me chiamato “sovversivo”.
Da un lato abbiamo il Kosmos e dall’altra il Chaos. Da un lato i valori, o almeno la possibilità di avere valori e dall’altra alla fine solo il nichilismo. D’altronde da chi crede nella creazione “ex-nihilo” (la Bibbia è il primo mostruoso esempio di ciò) non ci si poteva aspettare di più che la fine del mondo nel Nulla.

4) La vostra “equazione personale” trascura totalmente le differenze qualitative fra il mondo di Nietzsche e quello cristiano-marxista, resta ancorata ad un’analisi formale e soprattutto non si sofferma sulla domanda “migliore per chi?” Poi Nietzsche non promette affatto un “mondo migliore”, un benessere materiale e morale di cui pacificamente godere, la fine della storia in un verde pascolo in cui vivere tranquilli e felici, ma invita ad affrontare quanto è più difficile, più rischioso, più faticoso, più duro, più selettivo al fine di superarsi continuamente, e divenire qualcosa di superiore a prima come “l’uomo storico” lo è rispetto “all’uomo naturale” e in piena sintonia con le leggi della vita ascendente e con la stessa natura dell’uomo (che è l’animale più indifeso, meno istintivo e quindi più bisognoso di inventare continuamente se stesso per vivere). Nietzsche propone insomma il contrario della fine della storia: propone la sua rigenerazione, la quale può piacere solo a chi, più animale da preda che da gregge, si senta, contrariamente a quanto vorrebbe la Bibbia, disposto a “peccare”, disposto a uscire dall’Eden e a “fondare città”, disposto a spendersi più che a conservarsi, ad affrontare ogni colpa ed ogni dolore pur di compiere la propria opera di grandezza vista come necessaria, a sacrificare il miglior sé pur di generare oltre. Forse in termini spirituali vi manca di considerare la differenza fra negazione e superamento. Nel caso cristiano-marxista abbiamo la negazione della storia e del mondo per il “non mondo” del paradiso terrestre e della società senza classi (entrambi significativi “ritorni all’origine precedente “il peccato”), nell’altro il superamento del mondo umano per qualcosa che è comunque “in questo mondo” e a questo mondo dà significato (per qualcosa che, dal punto di vista della bibbia, prosegue ed esalta il peccato originale, cioè la sapienza della vita).

5) Qui state dicendo l’esatto contrario della verità. Non è colpa vostra. Siete ovviamente stato deviato nel vostro modo di intendere l’aristocrazia e i suoi rapporti con “la plebe” (che poi di per sé non esiste, ma si differenzia nei vari gradi del popolo) da certe stronzette prepotenti e vanagloriose (del tutto figlie dei tempi moderni e quindi anti-aristocratiche) le quali per il semplice fatto di ricevere sopravvalutazione estetico-filosofica da quel fior fiore della stupidità cristiano-germanica avente nome galanteria (ed ora anche dal pensiero unico femministicamente orientato) si credono nobili “in quanto donne” o (“in quanto donne superiori”). Dovreste capire, alla luce di quanto io stesso ho cercato di delineare per aristocratico, che esse sono l’esatto opposto del tipo nobile: sono il tipo plebeo e servile che gioca all’aristocratico, sono le servette che prendono diletto dal tiranneggiare i servi più sciocchi con il trucco del travestimento da “principesse”. Il fatto stesso che il loro potere, la loro bellezza e il loro supposto valore si fondino sulla forza del desiderio altrui, sull’illusione soggettiva e creatrice dell’uomo, sulla società abbandonata all’individualismo eudemonico, alla tirannia del sentimentale, alla debolezza dell’erotismo, dell’utilitarismo, del pacifismo e di tutto quanto è conservazione e consolazione dell’io in mancanza di luce radiante in sé, e mai su loro stesse come parte di un Sé eterno, dimostra trattarsi di potere, di bellezza e di valore completamente lunari, d natura riflessa e tutt’altro che originaria e, quindi plebea.
Quando le donne dicono “siamo più utili”, “siamo più brave, più adatte ai tempi” io rispondo: “perfetto, eccellete nelle doti che danno valore ai servi” (appunto quanto è infero si valuta e valuta secondo i criteri dell’utile e del tempo, non potendo accedere ad alcuna dimensione superiore in cui dominano il sacro e l’eterno, o, anche se si vuol essere antimetafisici, la necessità di tendere continuamente a quanto è oltre felicità, innocenza, piacere o utilità e, come il bello, il grande e l’eroico può essere semmai mostrato a chi ha occhi addestrati a vedere e giammai dimostrato).
Mai a chi è nobile verrebbe in mente di definire il proprio valore sulla base di quanto è utile ad altro da sé (fosse pure l’intera umanità): semmai sacrificherebbe sé e l’umanità tutta per quell’opera di grandezza, potenza e durata che il proprio sé sente come necessaria e fondamento di una visione del mondo. Il senso del bello, del nobile e dell’eroico che possono spiegare il mondo ma che non possono dal mondo essere spiegati è proprio questo. Non è nobile proprio ciò che al pari del potere, della bellezza e del “valore superiore” del femminile ha bisogno di altro non solo per affermarsi ma anche per definirsi: ha ovvero il principio del proprio valore e della propria forza fuori di sé (come la luna). Uno dei trucchi per smascherare la falsa nobiltà di chi si definisce “aristocratico” per vanità, capriccio o licenza di potersi permettere di tutto fuori da ogni ordine cosmico è mettere in evidenza proprio questo: quasi mai infatti il suo principio di nobiltà splende di luce propria. Coloro che hanno voluto dedicarvi un blog (o una mailing list?) per denigrarvi sono un esempio chiaro di ciò. “Padrone si nasce” dicono giustamente: peccato che appena si guarda al loro concetto di superiorità si notino modi di pensare, di agire, di sentire, giudizi di valore, e sentimenti del mondo caratteristici di chi è “nato per servire”: non l’azione ma la reazione, non l’affermazione ma la negazione, non lo splendore della forza in sé ma la lunarità di una forza riflessa, non la purezza di un’etica fondata sulla necessità ma la debolezza di una morale che chiama colpa la forza, crimine la grandezza, valore la debolezza, barbarie la creazione di civiltà. E quando le loro simili credono di comportarsi da principesse misurando la propria avvenenza e il proprio “valore” su quanto l’uomo è disposto a sopportare di fatica, dolore, irrisione (pubblica o privata), ferimenti intimi, inappagamento, tensione psicologica, sofferenza fisica e mentale, in loro nome, o addirittura dilettandosi a infliggere agli uomini patimenti, umiliazioni e crudeltà d’ogni genere, tirannie erotiche senza fine, sbranamenti economico-sentimentali, per capriccio perfido, sadico diletto o illusoria affermazione di una propria “superiorità” dimostrano solo e soltanto la natura assolutamente non nobile del femminile. Quanto è nobile conosce infatti come propria origine (Evola docet) la “purità che è forza e la forza che è purità” e giammai si sogna di definirsi o prendere valore in base a quanto l’inferiore dà, in base a quanto l’inferiore soffre o in base a quanto l’inferiore valuta in lui. Il nobile guarda in alto quando vuole vedere la sorgente del proprio valore, non guarda in basso. E guarda il sé, non guarda gli altri, né gli interessa di essere guardato o meno. Al massimo il superiore tiene l’inferiore in “non cale”, giammai infierisce. Chi guarda in basso per sentirsi in alto e chi infierisce dimostra chiaramente non avere un valore in sé (altrimenti non avrebbe bisogno di negare l’inferiore per affermarsi) e di non conoscere il senso di superiorità vero consistente nel voler superare la propria dimensione bassamente umana. Il comportamento di queste persone “pseudonobili” è dunque molto più simile alla reazione dei malriusciti, dei cristiani, dei socialisti, delle femministe contro quel tipo umano che davvero ha saputo affermare nel mondo quanto è aristocratico.
Se c’è qualcosa che queste donne moderne “in quanto donne” (salvo appunto le luminose eccezioni veramente nobili) non possono capire è proprio “ciò che è aristocratico”. Solo l’avvento di una donna futurista cantata da Valentine Saint Point potrebbe riscattarle da ciò.
Voi invece, avendo capito almeno “cosa non è nobile” (anche se lo attribuite erroneamente a qualsiasi concetto di “aristocratico”), siete su una strada migliore.
Mi resta solo da convincervi (se ancora non avete letto il mio scritto di un anno fa in proposito della Rivoluzione Francese) di come nel mondo tradizionale la casta superiore non sia formata da coloro i quali opprimono i sottoposti, li umiliano, li tiranneggiano, li privano di ciò di cui hanno bisogno, li sottopongono a sofferenze di ogni genere o al proprio capriccioso arbitrio, li fanno vivere nella frustrazione fisica e mentale e ne riducono la dignità o il grado di "compiutezza umana" e con essa la possibilità di realizzare la propria natura ed essere felici. Tutto questo è quanto invece avviene proprio nel mondo post-rivoluzionario, nel quale non esistono CASTE spirituali ma soltanto CLASSI economiche. Lì sì che le differenze, date dal semplice caso o dalla maggiore o minore prepotenza, nequizia, o spregiudicatezza nell'accumulare beni esclusivamente materiali, permettono a chi HA DI PIU' (attenzione: non a chi E' DI PIU') di sentirsi arbitrariamente in diritto di far pesare agli altri la propria condizione di privilegio. Un Luca di Montezemolo che può sfoggiare a tutti le proprie Ferrari e tacitamente considerare di serie B gli uomini che non sono stati in grado di raggiungere una posizione socio-economica tale da potersele permettere o una Paris Hilton che, con il chiaro messaggio "sono bella, ricca e stronza e mi posso permettere di tutto davanti a tutti", può mostrare con superbia studiatamente infantile e perfida vanagloria le proprie grazie corporali e le proprie ricchezze, nell'evidentissimo intento di far sentire
delle mere nullità tutti gli uomini che non godranno mai né delle une né delle altre e provocar loro in generale, sofferenza emotiva e frustrazione intima e disagio da sessuale ad esistenziale (nonché, credo, invidia a molte donne: a proposito, complimenti a Luciana Litizzetto) o ancora un Flavio Briatore che non perde occasione di dipingersi come l'uomo più intelligente e forte per il semplice fatto di essere riuscito (chissà in che modo e con che mezzi) ad arricchirsi senza essersi laureato né possedere preparazione specifica per nulla di assomigliante ad un lavoro utile all'umanità e per far sentire i tanti neolaureati studiosi e meno abbienti degli "sfigati", sono "prodotti tipici" della borghesia, non dell'aristocrazia.
La casta superiore, nel mondo spirituale, è fatta da chi, superiore prima di tutto ad ogni individualistica brama e ad ogni basso istinto di prepotenza, sopraffazione o umiliazione del prossimo, è chiamato, per le proprie doti di nascita e di educazione, a sacrificarsi più degli altri per il senso superiore del vivere cui tutto lo stato tende, a prendersi cura del regno come il padre di una famiglia, provvedendo innanzitutto al funzionamento ordinato e costruttivo dell'organismo sociale, cercando di dare ad ognuno in base ai suoi bisogni e di permettere a tutti di realizzare la propria natura e quindi di raggiungere la compiuta (e non solo apparente) “felicità”.
Se anche Nietzsche si discosta da tale visione “platonica” del’aristocrazia lo fa perché “i creatori sono duri” e non perché sia caratteristico del suo pensiero o del suo tipo aristocratico il prendere piacere dall’umiliazione e dalla sofferenza altrui. Egli critica a Platone la forma idealista più che la sostanza della sua concezione politica.
La necessità di diffondersi al mondo di tale concezione aristocratica non è affatto legata alla volontà di “distruggere” l’uomo comune, ma al garantire che il dominio totalizzante del tipo umano inferiore voluto dal cristianesimo e dai suoi seguaci laici non cancelli la possibilità per il tipo opposto di affermarsi. L’ipotesi (provocatoria) di crearsi un pianeta a sé ha senso qualora sia possibile almeno per qualcuno sfuggire dalla tirannia dell’egalitarismo, la quale sì è intollerante nel suo definire “nemico dell’umanità” ogni atto o pensiero volto contro di essa. Se si lascia andare ancora avanti la sovversione i diversi tipi umani saranno negati, mischiati e resi impotenti, per cui non vi sarà più nessuno da “mandare in orbita”. Ancora una volta si confondono i campi. E’ quello egalitario a concepire la missione universale: quello sovrumanista, per sua natura pluralista e “pagano” (come spiegato sopra) contempla l’esistenza contemporanea di diverse visioni del mondo. Solo se si lascia campo libero al compimento della “religione dei diritti umani” le diverse verità di cui si discuteva prima non saranno più possibili. E questo non è astratto: l’aristocratica Sparta non voleva espandersi all’infinito, mentre il “mondo libero” di oggi non lesina bombe per “esportare la democrazia” in ogni angolo della terra.
E l’unica corrente oggi non rientrante nella vostra categoria “anelante la distruzione dell’uomo comune” è il nichilismo, ma si tratta di un inganno: esso, con il lasciare che ognuno viva senza significato superiore fagocita ogni valore, ogni bellezza, ogni significato e distrugge la possibilità di qualsiasi discorso non riconducentesi al nulla.
E non può essere altrimenti: “perché un altare sia innalzato, un altare deve essere abbattuto, questa è la legge, e ditemi dove non abbia trovato la sua applicazione”. Gli altari innalzati oggi sono gli altari del nichilismo (di cui il cristianesimo negatore delle differenze e dei valori superiori è responsabile). E su tali altari picchia il martello iconoclasta di Nietzsche. L’uomo di oggi non è l’uomo naturale o ideale o normale: è l’uomo storicamente prodotto di tutto ciò. Per questo va non umiliato, distrutto, annichilito, ma semplicemente superato (così come l’uomo un tempo ha superato la scimmia, senza alcuna necessità di dichiarare essa una guerra sterminatrice o una crociata in stile Bush). Ancora una volte non vogliate vedere nel fronte sovrumanista quanto è proprio del fronte egalitario.
Dannazione eterna ed eterna vendetta è quanto invece viene promesso dagli “agitatori cristiani” a chi nega il loro dio e la loro uguaglianza, non dai “pagani”. Ed è nelle opere di Berthold Brecht che la rabbia dei diseredati manifesta in parole di futura vendetta e sterminio la parte "poetica" dell'ideologia comunista. In Nietzsche trovate solo la voglia di superare il bassamente umano per la creazione di un Olimpo, i cui abitanti non si curano per nulla, nè nel bene nè nel male di ciò che è sotto. Semmai è chi sta sotto a voler devastare l'Olimpo per imporre l'uguaglianza. Anche nella contrapposizione maschile/femminile, in cui il pensiero moderno egalitario è giunto a considerare come "polo positivo" il secondo si ha lo stesso schema, con il femminismo quale rabbiosa e vendicativa avversione di un sentire umano "conservativo" e "misero" alla grandezza ed alla nobiltà dei valori virili e guerrieri portati dai popoli indoeuropei fondatori delle civiltà superiori che hanno generato la storia dalla preistoria.
Dovete sempre distinguere azione (che è nobile e creatrice di valori) da reazione (che è plebea e sterile in quanto semplicemente nega e ribalta valori esistenti).
Il pensiero aristocratico è attivo, quello egalitario (sia cristiano, marxista o femminista non cambia) è reattivo. Vi prego di porre attenzione a come (e il modo "filologico" in cui Nietzsche tenta di mostrarlo è molto più di un semplice "vezzo letterario" e dovrebbe risultare un insegnamento anche per chi voglia contrapporsi al dilagante femminismo "culturale") sia il primo a possedere la capacità di "creare" significati, valori e bellezze, la quale discende proprio da quanto cristiani, comunisti e femministe, sminuendolo definiscono “pura forza fisica”, poiche’ e’ il naturale elevarsi allo spirito dell’azione affermativa, positiva, creatrice di chi possedendo la forza in se’ ama la vita, ne afferma i valori ascendenti, non conosce in essa ne’ paura, ne’ odio ne’ invidia, impare ad agire e sentire secondo il coraggio, la lealta’, l’etica guerriera e ad essere disposto a sacrificare persino il miglior se’, gli amici piu’ cari e tutto quanto richiesto dalla terribile Moira pur di compiere la propria opera di grandezza, al contrario di chi, mancando di forza, nega, reagisce, non crea valore ma lo sovverte, conosce l’invidia, l’odio abissale, la rabbia distruttiva, agisce e sente secondo l’inganno, il veleno il sentimentalismo, l’induzione di sensi di colpa e la menzogna sociale, sessuale e totale, ed ha come unico fine il conservarsi piu’ a lungo e nel maggior benessere materiale possibile, oltre a dannare e condannare nel frattempo chi sa volare piu’ in alto, chiamando ingiustizia le sue gesta volta all’eterno e all’eroico.


Se il mondo non è più ordinato in modo normale ciò non significa che la norma fosse sbagliata o che il modo plebeo e disordinato sia più forte o migliore di quello aristocratico: significa solo che le forze creatrici si sono esaurite e che quelle sostenitrici non sono state ad un dato punto sufficienti ad evitare il libero corso di quelle disgregatrici sempre presenti in ogni costruzione umana e storica.
Il fatto che il destino di ogni palazzo sia quello di divenire presto o tardi macerie non significa che la configurazione delle macerie sia superiore a quella del palazzo costruito.
Questo è un punto fondamentale di ogni concezione cosmica.
Tutto quanto si eleva dal piattume dell’indifferenziato, tutto quanto ha un valore, una bellezza, un significato superiore al tutto indistinto, rappresenta uno stato di maggior ordine, di maggior significato, di maggior “delicatezza” (quanto in fisica sarebbe di maggior energia potenziale e minore entropia), ha necessità di una violenza formatrice che lo generi e di forze sostenitrici che si oppongano al naturale decadere verso gli stati meno significativi, più caotici, più vicino alla “morte della materia” e quindi anche più “stabili” e per questo “meno significativi” (infatti una volta degenerati ad essi non si può più tornare agli stati superiori, salvo intervento esterno).
Il fatto dunque che il mondo aristocratico sia decaduto in quello plebeo e non viceversa dimostra e non smentisce il superiore valore del primo rispetto al secondo, la degenerazione dal primo al secondo essendo del tutto naturale (si degenera dal superiore all’inferiore, non dall’inferiore al superiore) e la creazione del primo essendo avvenuta non “lasciando andare le cose”, ma tramite quel salto di livello, quella violenza formatrice, quello sforzo cosmico che fu la rivoluzione neolitica e di cui Nietzsche, una volta constatata la decadenza, cerca di riprendere il mito con l’intento di riprenderne la forza creatrice.
La provocatoria ma giusta domanda “se era così forte e bello il mondo nobile perché è caduto?” assume alle orecchie di ogni conoscitore dell’ordine cosmico il suono beffardo di un vandalo che distruggendo il David chieda “perché se Michelangelo era tanto forte e tanto capace di bellezza ha creato una statua che io, martellando, tramuto in un cumulo di macerie anziché in una continuazione dell’aristocratica forma?”
Perché se non esistono i Guardiani le forze della sovversione anticipano il decadere naturale e distruggono quanto le forze creatrici hanno generato!
Sarà diletto di voi che vi interesserete di storia scoprire come, quando e perchè (e per via di quali traviamenti e infiltrazioni) la casta dei guardiani è decaduta a tal punto da non difendere più l'ordine cosmico e anzi da accelerarne la caduta.


Se per società schiavistica intendiamo una società nella quale, in base ad un criterio qualunque, si possa essere schiavi (dunque, se consideriamo il criterio economico, dobbiamo includere in tale categoria anche la società moderna) allora è chiaro che sia Nietzsche, sia io, sia voi, sia madonna Chiara potremmo, a prescindere dal nostro valore, essere i primi fra gli schiavi. Se invece intendiamo una società in cui le caste sono definite dalle qualità innate che differenziano gli individui e permettono all'educazione e all'ambienti di agire assecondando l'inclinazione naturale e individuando, perfezionando ed esaltando i diversi tipi umani, allora il discorso cambia necessariamente.

Che Nietzsche appartenga alla casta brahamana è reso indubbio dalla sua capacità di cogliere, anche al di là della metafisica, il senso superiore della vita (e quindi di definire il valore in sintonia sia con quanto ha permesso la formazione delle civiltà superiori sia con quanto potrà portare l'umanità a superare ancora sè stessa), dalla sua lucidità nell'analizzare la storia sotterranea del nichilismo da Parmenide al Cristianesimo, passando per "quel cristiano scaltro di Kant", fino al socialismo, alla democrazia e alla religione dei diritti, dalla sua perspicacia nel capire quanto anche sedicenti "verità oggettive" quali la scienza o la biologia darwiniana riposino le loro certezze su fedi o illusioni, dalla sua possibilità di intuire in maniera immediata argomenti (quali l'etica aristocratica, la trascendenza, il nichilismo, la sociologia, l'evoluzionismo, la psicologia, la politica e la metapolitica, la storia e la metastoria) richiedenti per altri anni di faticose e laboriose letture e analisi e al contempo di esprimere in immagini illuminanti o in sentenze alte e profonde quanto in chiunque sarebbe disteso in diversi volumi e forse senza la medesima profondità e lo stesso esatto originale acume. Non riesco ad immaginarmi diverso un vero sapiente dell'India brahamitica. Molto diverso invece il discorso per me. Io potrei in effetti (almeno dal vostro punto di vista) non "sentire" in maniera innata e profonda nulla di tutto ciò ma semplicemente riportare concetti orecchiati, senza che dunque essi mi possano distinguere da qualsiasi tipo umano inferiore in quanto non specifici nè rivelanti della mia natura. Considerando come tanti lettori di Nietzsche circolino per le vie della cultura usando a capriccio i libri del professore di Basilea per giustificare il loro individualismo e il loro non-senso, per definirsi a capriccio nobili negando al contempo ogni valore superiore su cui l'autentica nobiltà si fonda, e come sia pieno il mondo (o almeno il mondo della destra radicale) di lettori di Evola convinti di appartenere alla casta degli Khsatriya o dei Brahamana, il vostro dubbio su di me è assai fondato. Vi aggiungo pure che se io pretendessi, per il solo fatto di aver dedicato il mio misero intelletto ad autori come Nietzsche ed Evola, di essere un sapiente o un guerriero, non solo sarei un presuntuoso, ma risultarei pure un negatore di ogni pensiero aristocratico, per il quale prima è l'autenticità del sentire, poi lo sviluppo più o meno intellettualistico. Ho dunque per primo l'ardire di affermare che preferirei di gran lunga essere servo della gleba in un mondo in ordine, in cui governano i principi guerrieri e i sapienti nel senso nietzscheano, e lo splendore delle ricchezze riflette fedelmente l'altezza dei valori etico-spirituali di cui si è portatori e rappresentanti, piuttosto che piccolo-borghese nel mondo attuale. Il motivo è presto detto. I piccoli privilegi datori di piccole felicità, piccoli problemi e piccole morali, di cui godono appunto gli odierni borghesucci (o prossimi proletari) pongono un animo riflessivo nel dover contemplare da un lato l'ingiustizia di essere posto al di sotto di individui assolutamente banali, mediocri nel sentimento, infimi nel bene come nel male e socialmente dominanti solo per il fatto di produrre o far produrre ricchezza materiale (magari con la loro stupidità telegenica) e dall'altro l'ingiustizia di essere posto sopra una certo numero di persone (quelli i più monetariamente sfortunati) fra i quali potrebbe benissimo albergare uno spirito nobile e degno del comando di uno stato eroico o della guida di una civiltà di sapienti. Di nessuna delle due ingiustizie si può rallegrare e l'una non bilancia l'altra. Se invece si è servi in uno stato di cose ordinato, i migliori sono al loro posto, i peggiori sono pari (o inferiori) a noi e nessuna ingiustizia è sentita, giacchè chi ha di più coincide con chi è di più, per qualità evidenti e mostrate in quei modi squisiti propri al mondo aristocratico storicamente esistito (la sparizione del quale in favore del mondo mercantile fa sorgere nell'animo delle classi inferiori la domanda: "e se con la rivoluzione si tirassero i dadi? potrei essere io al posto di quel borghese!"). Ecco perchè non vi erano nel mondo tradizionale (ad onta dei minori poteri coercitivi degli stati) le continue rivolte proprie dell'era moderna. L'ordine sociale era percepito come qualcosa di naturale e sacro al pari di quello della natura e rivoltarsi sarebbe stato come, per noi, rivoltarsi alla legge di gravità o al ciclo di nascita e morte. Questo poteva essere perché le persone si sentivano appagate e, per quanto umanamente possibile, felici: non erano sottoposte, come ora, a frustrazioni continue di desideri, mode, voglie create ad arte, brame infinite di cose terrene, nè avevano la pretesa di poter diventare di tutto. Erano contente del proprio essere. Vivevano dunque coerenti con la propria natura e non si sentivano sradicate e irrequiete. Ciò era vero sia da un punto di vista materiale sia da un punto di vista spirituale.

Quanto alla vostra ennesima provocazione sul Nietzsche "debole e malriuscito" perchè privo di amici, di donne e di posizione sociale preminente, posso rispondere che tutte queste condizioni sono nell'epoca moderna necessarie (anche se ovviamente non sufficienti) a dimostrare una natura superiore e benriuscita.
Tutte le speci (almeno quelle giunte ad un certo grado di complessita’) si qualificano e si evolvono l’una nell’altra grazie agli individui piu’ forti ed eccezionalmente benriusciti e al loro dominio sulla normalita’ debole (inteso ovviamente non in senso banalmente “politico”, ma in senso natuarale e totalizzante quale “affermazione dei propri valori”). La democrazia e prima di essa il cristianesimo rappresentano l’esatto contrario, ossia il risentimento dei deboli e dei malriusciti, coadiuvati dalla massa mediocre, contro tutto quanto e’ pieno di forza, bellezza, grandezza, potenza (del corpo come dello spirito) e palpitante di vita, la rivolta dei “diseredati dalla vita” contro chi della vita, per abbondanza di doti e forza creatrice, e’ la massima espressione (nella politica come nell’arte, se si pensa alla Grecia Omerica e alla Roma Repubblicana).
Una cultura fondata su tale rovescaimento dei valori, sulla negazione del bene come espressione di potenza vitale e della felicita quale senso di accrescimento di tale potenza, e’ ovvio produca non solo mediocrita’ e impossibilita’ alla grandezza, ma negli individui indubbiamente dotati e non mediocri, almeno pessimismo cosmico, nichilismo e negativita’ verso la vita, quali furono appunto i casi di Leopardi o di Schopenhauer, individui chiaramente superiori per intelletto, forza creatrice di idée, profondita’ di spirito e capacita’ e lucidita’ di analisi, indubbiamente grandi per statura letteraria e senso poetico e filosofico, ma ridotti peggio dei peggiori deboli e malriusciti al disprezzo o al disconoscimento della vita per colpa di una societa’ dai valori sovvertiti e dominata da “cinque sesti di imbecilli e da “mangiamerda hegeliani” per dirla brutalmente alla Schopenhauer e da “gente zotica e vil” (per dirla piu’ finemente alle Leopardi).
Nietzsche va anche in questo oltre il nichilismo: mostra come la follia sia oggi l'unico modo sano di vivere in un mondo che ha sovvertito ogni valore.
Quello di Nietzsche è dunque un pensiero generato proprio da una vita sana e benriuscita, e costretta semmai a vivere male dall'incompatibilità fra la propria grandezza e la miseria del mondo moderno formato e gestito da malriusciti dello spirito, checchè ne diciate.
Continuo a denunciare la sovversione, ma voi continuate a discorrere come se essa non vi fosse. Se volete parlare con me dovete assumere che per me tale sovversione esiste, quindi certe provocazioni sono inutili.

Mi dispiace non vi rendiate conto di come ogni vostro discorso presupponga l’uguaglianza sostanziale fra esseri umani (con tutt’al più qualche differenza di capriccio e di dettaglio) rispetto a cui ogni differenza qualitativa dovrebbe essere “rigorosamente dimostrata” (magari in relazione a quanto è utile in un determinato tempo per un certo tranquillo benessere materiale della maggioranza degli ovini, pardon, degli uomini) e in caso di violazione di tale “uguaglianza naturale” (la quale per voi evidentemente è un dato di fatto da non necessitare d’esser né dimostrato né mostrato) tirate in ballo presunte “frustrazioni materiali e morali” o “turbe psicologiche”, “problemi con le donne”, o “voglie di riscatto e di reazione rispetto ad una vita sfortunata”. Ebbi già a dire che questo è il sentire nichilista (travestito da “elogio della democrazia”).
Per chi ha un sentire diverso dal vostro e capace di vedere invece come evidenti le differenze qualitative fra individui e di percepire come necessario tutto quanto dà alla vita e al mondo un significato superiore alla persistente ricerca del benessere da bestiame bovino è invece assolutamente normale ordinare gli uomini sulla base del loro diverso valore in relazione a tale dimensione superiore (sia essa esistente a priori nel trascendente e raggiungibile dall’uomo tramite gli atti puri dell’ascesi guerriera o contemplativa, da cui derivano le caste superiori dei guerrieri e dei sapienti, come vorrebbero i tradizionalisti, o sia essa da creare tramite la volontà di potenza di uomini superiori cui sono dati “otium et bellum”, come vorrebbero i nietzscheani più “vitalisti”, non ha qui rilevanza) e non vi è bisogno di vedere il piccolo egoismo, la piccola vanità, la piccola voglia di “apparire più di quanto non si sia” nel richiedere la subordinazione di quanto è inferiore a quanto è superiore. Si vedono invece “voglia di rivalsa”, “desiderio del nulla”, “rabbia da malriusciti”, “odio dell’impotenza”, “negazione di ogni valore superiore” nella pretesa della “maggioranza” (ammesso sia tale) di considerare come normale e “naturale” la condizione di uguaglianza qualitativa.

Non posso cambiare il vostro sentire egalitario, ma posso inserirvi due dubbi. In ambito umano è in genere chi “è meno” ad avere interesse ad affermare “l’uguaglianza” e a porre le condizioni (così come nello sport è chi è in svantaggio a desiderare il pareggio)
E in natura gli animali non assumono affatto un’uguaglianza fra essi, tanto che l’evoluzione (e quindi la possibilità della Vita stessa di continuare a mantenersi ed accrescersi) esiste proprio perché le differenze qualitative fra individui fondano (senza bisogno di dimostrare, ma solo di mostrare) le scelte da parte della “Sapienza della Vita” per l’uno o per l’altro. Ora, sono perfettamente disposto ad ammetter che in ambito umano le differenze qualitative sono molto più ricche e complesse di quanto non sia presso animali e piante, che sia assolutamente meno immediato ed istintivo riconoscerle e che dunque uno stupido “darwinismo sociale” su base magari bassamente biologica sarebbe del tutto insufficiente (se non del tutto erroneo) a selezionare un ordine degno dell’uomo, ma questo dovrebbe indurre un uomo saggio ad affinare la sensibilità, l’intuito, l’istinto e l’intelletto per riconoscere le giuste differenze, non a negarle a priori in nome di una presunta e pretestuosa “uguaglianza naturale”.
A tale affinamento servivano gli ordinamenti millenari delle civiltà, la divisione castale, la sapienza tradizionale: non può essere certo un uomo in un giorno a decidere “cosa sia il meglio” (e neanche Nietzsche, al di là dei suoi interpreti individualisti, ha tale pretesa: egli crea sì un nuovo mito, ma non cessa mai di cercare di estrapolare dai momenti più alti delle civiltà quei “metavalori”, quei sistemi di “generazione, selezione e ordinamento dei valori” che potrebbero permettere nei futuri millenni di ricostruire un’aristocrazia, ovviamente su valori nuovi oggi magari neppure immaginabili; Nietzsche è solo un inizio e sbaglia chi vuole vedere in lui definizioni concluse, comandamenti definitivi o esempi da seguire in senso “evangelico”). Come al tempo della rivoluzione neolitica la definizione della casta nobile ha necessitato un lungo ed elaborato travaglio, così nell’oltreumanità la generazione della nuova aristocrazia dovrà necessariamente passare attraverso lotte, dolori, colpe, affinamenti, selezioni, prove terribili e grandiose (solo così si evita il pericolo da voi giustamente rimarcato che il primo esaltato o la prima vanitosa si autodefiniscano nobili definendo aristocratico quanto è proprio del plebeo) e nessuno fra i seguaci di Nietzsche, tantomeno questo umile sultano, può a priori considerarsi appartenente ad una aristocrazia non ancora nata né definita. Posso solo auspicarne la nascita, e questo già di fatto mi distingue (anche se preferirei non distinguermi affatto, ma essere circondato da una “polis” capace di sentire le stesse necessità).

Quando voi sostenete di conoscere problemi "più gravi" per l'umanità della mancanza di eroismo dimostate di non aver appunto capito il concetto di eroismo. In caso contrario sentireste con me di sacrificare l'intera umanita pur di lasciare in vita la possibilità per la stessa di superarsi continuamente. Anche volendo lasciar perdere ogni significato trascendente, anche volendo sorvolare sul non-senso di una esistenza nata per caso (a voi stesso è scappato un "non l'ho chiesto io di vivere"), abbandonata a se stessa, alla sua debolezza e alla sua vacuità e attendente fra una consolazione, una felicità una penitenza o un senso di colpa il suo ritorno nel nulla (chè a questo si riconduce ogni vita svuotata del senso superiore del vivere da voi negato), esiste un problema "pratico" assai più importante della fame, della sete, dell'ingiustizia sociale. L'umanità deve continuare a vivere e se perde la sua capacità di "mutare continuamente pelle" (tanto per usare un'immagine nietzscheana), di superarsi continuamente, di decidere del proprio destino, conquistata con il suo ingresso nella storia (grazie ancora una volta alla visione del mondo eroica e aristocratica), per cristallizzarsi in una "società fredda" globale capace solo di riprodurre forme sempre uguali ed esaltare uguaglianze e diritti naturali, come vuole chi sogna la "fine della storia" (perchè "ingiustizia, violenza, sfruttamento, dominio ecc."), allora "l'animale più indifeso" non avrà più armi per superare le sfide epocali che gli si presenteranno (come gli si sono già presentate ai tempi del neolitico). Se non saranno le catastrofi ambientali o le guerre atomiche, potrebbe benissimo essere un asteroide a scrivere la parola fine. Si capisce allora la necessità di accelerare la storia (a costo di "sopportare" il dolore e la colpa dei "conflitti") per accelerare le capacità umane di "costruire il proprio destino" (oggi evidentemente in calo sia come innovazione tecnologica sostanziale, sia come visione del mondo).
Il mio richiamo all'eroico (che poi significa in fondo "sacrificio di sè per generazione di qualcosa di superiore", ossia quanto ogni essere vivente ben nato conosce anche solo a livello dell'istinto) può sembrare soltanto letterario o arbitrario, ma diviene del tutto concreto e universale se immaginiamo il prolungarsi indefinito dell'individualismo eudemonico lungo le possibilità della scienza. Un giorno che questa infatti avrà eliminato ogni malattia e ridotto ogni conflitto, abolito l'invecchiamento e praticamente annullato i rischi del vivere, chi sarà disposto a morire per lasciare spazio alle nuove vite? Si dovrà indurre qualcuno al suicidio? E con che diritto se siamo tutti uguali? Si finirà per non far nascere più bambini? Si vorrà davvero trasformare la terra in un cimitero vivente di vecchi travestiti da giovani che deambulano riflettendo su come accrescere la propria felicità e la propria innocenza, le proprie illusioni di benessere e di senso e il proprio patetico sentimentalismo? Ecco il triste spettacolo cui porta la negazione del principio vitale eroico. E non è affatto uno scenario implicante grandi "cambi di paradigma" nell'attuale scienza: è proprio quanto mi sembra più probabile avvenga se nulla cambierà.

Un'ultima parola è dovuta ancora alle dimostrazioni. Fate bene a non fidarvi di quanto appare arbitrario e indimostrabile (e in effetti al giorno d'oggi viene presentata in tal modo ogni legge in politica, ogni notizia sui giornali, ogni teoria nella "cultura" ed ogni stupidaggine nella pubblicità). Il vostro metodo è corretto e non intendo criticarlo (è anche il mio). Mi limito solo a rilevare che più pericolose ancora delle dimostrazioni mancanti sono le dimostrazioni false, dove per false non si intendono solo quelle dimostrazioni che si rivelano sillogismo (tipo le stupidaggini del femminismo o la pseudoscienza di certi articoli), ma anche quelle perfette da un punto di vista squisitamente formale, ma fondate in realtà su presupposti il cui valore di verità non risiede in qualcosa a sua volta di dimostrato, ma in qualcosa che può solo essere "sentito" per vero. E' questo il caso di ogni discorso sul significato dell'esistenza. A partire da presupposti fissati si possono dimostrare rigorosamente molti tipi di ideologie, tutte ugualmente razionali e vere in relazione ai rispettivi punti di partenza (il marxismo, ad esempio, è praticamente perfetto in relazione ai propri assunti di partenza). Sulla verità dei presupposti, però, può decidere solo il sentire delle diverse persone ed è stato mio ardire sottolineare come proprio l'attribuire valore di verità ad un principio o all'altro definisce la qualità di un'anima. Ecco perchè "non si devono chiedere dimostrazioni sul significato superiore dell'esistenza": non perchè sia sbagliato dimostrare, ma perchè dimostrare in questi frangenti significa BARARE (in particolare, far passare per vero universale quanto è vero solo per un tipo umano: che poi la verità di certi tipi umani si riveli "superiore" in relazione alla vita ascendente, alla storia, alla sapienza della vita, è argomento che non riguarda più il pensare ma, appunto, il vivere e quindi, ancora una volta, non può essere dimostato ma solo mostrato).

(FORSE QUESTA ULTIMA PARTE VI INTERESSA, O ALMENO E' IN TEMA COL VOSTRO BLOG)
Non pensiate che tutto questo, assieme al discorso sul Sè e sull'io, e a quello svolto prima sul mito e sul linguaggio, sia astratto e fumoso. Vi pongo subito un esempio concreto e di vostro immediato (credo) interesse.
Le donne non solo sono diverse biologicamente, ma, in conseguenza di ciò, vedono, sentono e valutano la vita e il mondo in maniera totalmente differente. Le assunzioni di partenza, i miti, i valori di verità sentiti come veri e dai quali deriva ogni loro discorso, ogni loro logos (inteso nel senso profondo), ogni loro sentimento del mondo ed ogni loro espressione razionale, sono necessariamente e radicalmente diversi dai nostri. Ne consegue che, anche quando il linguaggio usato per convenzione è il medesimo, i poli dialettici devono essere in loro diversi: lo stesso linguaggio è in esse "falsificato".
Questo spinge i più sciocchi fra gli illuministi a dichiarare che le donne sono "irrazionali" o che "usano il linguaggio al contrario". In realtà si tratta semplicemente di uno sviluppo dialettico perfettamente rigoroso quanto il nostro ma partente da assunzioni diverse, segno di un diverso sentire, di un diverso "mito originario". Pretendendo di usare il medesimo linguaggio in maniera differente sorgono le incomprensioni. Fino a qui sembrerebbe un invito al solito "cercare di capire le donne", ad "ammettere la diversità nell'uguaglianza", a "non fare nulla per discriminare". Non è così.
Perchè, infatti, si usa il linguaggio nostro? Perchè la completa diversità del sentire femminile da quello virile, se non è una dimostrazione della presunta e non vera minore razionalità delle donne, non è neppure dimostrazione di una equivalenza qualitativa. Se i popoli fondatori di città e generatori di civiltà erano mossi da un sentire virile, da cui sono discesi ogni valore, ogni bellezza ed ogni significato del loro mondo ed ogni possibilità di trascendenza, mentre i popoli incapaci di uscire dal tutto indifferenziato e di entrare davvero nella storia erano quelli matriarcali, è chiaro segno che le verità sorgenti dai mitemi apollinei siano più afferenti alle forze del Kosmos, mentre quelle derivanti da mitemi lunari, amazzonici o demetrici più afferenti alle forze del Chaos (e infatti non a caso il femminile riemerge in ogni civiltà nei periodi di decadenza). Ovvio che la costruzione della civiltà e della storia abbia avuto il segno di Apollo (anche se oggi lo si vuole meschinamente disconoscere).
Chiunque voglia dunque avere nel mondo un senso del vivere superiore alla conservazione senza altro scopo da un benessere materiale da bestiame bovino e un ordine delle cose in cui siano possibili il nobile, il grande, l'eroico, e su di essi le differenze qualitative fra individui, deve tenere, sia egli o ella uomo o donna, un sentire virile.
Chi invece ama il disordine, l'indifferenza, la distruzione di ogni significato superiore del vivere e l'appiattimento al comunismo primordiale più o meno tecnologizzato può accomodarsi sul sentire femmineo. Di questo si è già discusso nel post originale, e non è problema di immediata soluzione ricostruire l'ordine cosmico. Quanto invece riguarda l'oggi è l'illusione, da parte del mondo demoliberale, di aver sostituito tanto il sentire femminile quanto il sentire maschile di partenza con un universalissimi principi di uguaglianza, razionalità, fratellanza. Ciò è appunto un'illusione, giacchè la sola ragione non può fondare valori di verità, i quali devono essere sentiti per veri prima di essere ammessi come tali. E qui sta l'inghippo. L'uomo, abituato dalla disciplina apollinea della matematica ad assumere per veri principi in maniera astratta, prescindendo dalla propria natura, arriva ad ammettere come fonte di verità i principi egalitari. La donna no: o perchè meno abituata al gioco astratto o perchè semplicemente più furba. E qui risiede la difficoltà di tutti quanti, convinti dalle balle egalitarie di liberalismo e femminismo, credono sia possibile, su base razionale, una convivenza ed una comprensione con le donne. Voi, Giubizza, siete il più rigoroso e il più ingenuo di tutti (dopo di me fino a qualche mese fa, s'intende).
Voi potrete dimostrare razionalmente

• che quanto si chiama disparità di redditi è frutto non della discriminazione contro le donne, ma dello sforzo disperato e vitale dell'uomo di compensare con la fatica, lo studio, il lavoro, il merito personale un privilegio posseduto dalle "dame" per natura e cultura,
• che ci sono più uomini che donne in certe posizioni solo perchè l'uomo è obbligato ad avere una più alta posizione socioeconomica per godere della stessa accettazione sociale e desiderabilità delle donne, che se le donne hanno la bellezza per avere ammirazione, desiderabilità e potere, gli uomini debbono avere corrispondentemente altro se si ammette come anch'essi abbiano lo stesso diritto ad essere felici,
• che tutti i numeri sulla cosiddetta "violenza di genere" siano in realtà o gonfiati o fondati su accuse false, inventate per capriccio, ricatto o sfoggio di preminenza, o addirittura definite dall'arbitrio soggettivo della presunta vittima senza necessità di conferma oggettiva e senza possibilità di replica, e che se poi si facesse valere lo stesso metodo anche con gli uomini, ossia si permettesse loro di denunciare in tal modo tutte le volte in cui si sono sentiti (intimamente, al di là del fatto fisico) violentati o molestati nella sfera erotico-sentimentale (e sottoposti a disagio emotivo, tormento psicologico, umiliazione pubblica e privata, dolore fisico e mentale, perfidia sessuale, inappagamento da sessuale ad esistenziale fino all'ossessione, o sbranamento economico-sentimentale dalle donne) si otterrebbero forse risultati ancora maggiori,
• che non è possibile lasciare le donne continuino a considerare i figli una proprietà esclusiva e a ritenere normale un uomo accetti a capriccio della donna (protetta dalla legge a senso unico) ogni sbranamento economico e sentimentale sorridendo e ringraziando, si lasci portare via “casa, famiglia, roba” senza reagire, e si riduca a fare la vita dell’esule ottocentesco senza tentare un’estrema vendetta,
• che non è ammissibile quanto urta la particolare sensibilità femminile (atti, detti, sguardi o toccate) debba essere considerato offensivo, punito dalla legge e giustificante la vendetta più ampia, crudele, dolorosa e soggettiva da parte della donna e quanto invece ferisce l'altrettanto particolare (e non già inesistente) sensibilità maschile (ad esempio il comportamento intriso di stronzaggine, divenuto regola nelle femmine moderne, anche quando non usano le mani, e spesso motivato da prepotenza, vanagloria, necessità di autostima o sadismo o comunque volontà di provocare sofferenza emotiva) sia trascurabile, non penalmente rilevante, appartenente alla normalità, alla tollerabilità o comunque al "diritto della donna" e non provocante in sé offesa o umiliazione (anche se è quanto l'uomo prova, di fronte a sé o agli altri, quanto sente come intima ferita nella sessualità e può provocargli traumi, blocchi psicologico e metterlo a disagio emotivo, momentaneo e poi esistenziale),
• che non è sopportabile in tema di libertà sessuale salti per le donne il dovere di riconoscere un limite alla libertà nei danni prodotti al prossimo, e quando esse con il loro comportamento provocano frustrazione, dolore psicologico, inappagamento fisico e mentale, disagio da sessuale ad esistenziale e financo ossessione, chiamino ciò "diritto e libertà della donna" (e non limitate loro stesse, ma pretendono di fare di tutto a presceindere dalle conseguenze per il prossimo), mentre quando noi con il nostro non dico produciamo danni fisici e mentali con lo stupro, ma anche solo agiamo in maniera a loro non gradita (senza magari alcuna intenzione malvagia o diversa dal manifestare disio per le belle forme ed interesse erotico-sentimentale) ed arbitrariamente definita violenza o molestia senza che oggettivamente vi sia riscontro alcuno di atto violento o molesto si tratta per loro di "crimine" (e pretendono che l'altro si limiti perchè non vi piace anche nulla di male compie),
• che non è immaginabile nella sfera sessuale alla loro libertà di esprimere la propria natura (esser disiate) non corrisponda la libertà di esprimere la nostra (disiare) ma il dovere di reprimere il disio, al loro diritto di vestirsi, svestirsi, mostrarsi (e, implicitamente o esplicitamente, farsi guardare) come vogliono non corrisponda il nostro diritto di guardare quanto è mostrato ma il dovere di non mirare, e alla loro pretesa di poter provocare di tutto non corrisponda la normalità del provarci ma la subordinazione o a una costrizione asessuata o al capriccio imprevedibile e soggettivo di chi a posteriori denuncia come violento o molesto quanto ha la sola colpa di rappresentare un tentativo di approccio alla beltà dei sensi senza risultare apprezzato dalla meta di tale disio (prima di tentare non si può sapere, poiché quanto all’una è gradito all’altra è sgradito, quanto per l’una è splendida conquista per l’altra è odiosa prepotenza),
• che non è accettabile che quando si parla di crimini sulle donne salti ogni principio del diritto, ogni presunzione di innocenza, ogni necessità di provare fattualmente le colpe, ogni necessità di definire oggettivamente e a priori il lecito e l'illecito (e non lasciarli alla sensibilità della donne assunta quale unica fonte di verità umana),
• che la prostituzione, quando scelta, non è affatto oppressione dell'uomo sulla donna, ma al contrario sfruttamento del desiderio maschile da parte della donna mossa da interesse razionale e quindi più libera e forte di lui in quel frangente, eccetera, eccetera, eccetera.

Non avrete mai ragione anche se, data la verità del principio egalitario di partenza, la vostra dimostrazione è perfetta.
Sapete perchè?
Perchè col cavolo che le donne partano da quel principio! Esse partono dal loro mito, il quale, neanche in maniera tanto velata, è il mito matriarcale, in cui davanti alla terra madre cui ogni individuo deriva e a cui ogni individuo ritorna dopo un'esistenza effimera, scompaiono non solo le differenze e i valori, ma anche tutte le possibilità di definire oggettivamente bene e male, bello e brutto, giusto e ingiusto, lecito e illecito, a parte l'arbitrio assoluto e onnipotente della donna "in quanto madre".
Forse voi non avete compreso la potenza di tutto ciò, la potenza del mito. Ecco perché vi invitavo a riflettere sul tema secondo cui ogni discorso nasce da un mito e solo successivamente si “ideologizza” nella sua fase dialettica, “dimostrando” razionalmente verità il cui valore risiede nell’originario e mitico “sentire per vere”. Era vero per il mito egalitario (ormai giunto al capolinea con la morte di Dio), è vero ora per il mito della “Grande madre”.
E quando non riescono con tale mito le femmine moderne riprendono quello delle "Amazzoni" (le quali sono guerriere solo all'apparenza, ma in realtà simboleggiano la rabbia delle civiltà matriarcali, comunistiche ed esternamente pacifiche verso i popoli virili, conquistatori, e capaci di valori guerrieri e aristocratici adatti a vincere le sfide della storia). E non bastano le vostre dimostrazioni razionali a smontarlo, dato che dietro vi è la potenza suggestiva dei mezzi visivi, mediatici, televisivi.
Anche io un tempo ero come voi, e credevo potesse esistere realmente una giustizia equilibrata fondata sui principi demo-liberali, sullo stato di diritto, sulla ricerca della felicità per tutti. Ancora prima delle illuminazioni filosofiche, la vita stessa mi ha mostrato che stavo inseguendo un’illusione.
Ogni giorno vi sono sentenze, opinioni culturali, leggi sempre più irrazionali e irrispettose in senso antimaschile dei tanto sbandierati principi egalitari.

E voi volete combattere tutto questo con dimostrazioni che per essere comprese necessitano di un cervello in fase razionale e di una assunzione aprioristica dei principi egalitari come veri?
Credete che per una donna il principio egalitario sia più affascinante del mito amazzonico o demetrico?
Povero illuso!

Se volete sconfiggere il mito della grande madre dovete usare il mito di Apollo iperboreo e far discendere da lui, con il violento rigore della dialettica tutta la luminosa e necessaria serie di conseguenze (più sono aborrite dalle femministe, meglio è per gli uomini). Dovete imporre le verità di Apollo, le verità della civiltà solare, fatta per rifulgere di luce propria, idealmente giustificante la vita e chiarificante gerarchie, valori e differenze, per ascendere a dimensioni superiori all’umano, per conoscere quanto ha del divino la proprietà di splendere per forza propria eternamente uguale a Sé, come il Sol Invictus, al di là ed al di sopra di ogni caduco divenire e di ogni annullamento (che lasciamo alla spiritualità lunare e femminea) e di propagarsi senza sottostare al ciclo di nascita e morte proprio delle nature inferiori.

Non è “irrazionalismo”, ma “realismo”. E’ illusione che esista una equilibrio oggettivo, fra sessi come fra qualsiasi altro elemento della vita. Perfettamente razionali sono le dimostrazione e le argomentazioni delle femministe, ma vere solo in relazione ai loro principi la cui verità risiede nel loro mito fondativi (la “Grande Madre”). Il principio egalitario non è in grado di sostituirsi a tale mito nel sentire delle donne. Ed è un guaio che in noi si sia inserito apparentemente al posto del mito apollineo. Essendo solo un principio razionale incapace di autofondarsi e generare un discorso, il principio egalitario non fa altro che allontanarci da quanto è il nostro sé per sostituirvi il sentire femminile e renderci incapaci di sviluppare il nostro discorso: è per quello che, contro ogni ragione e ogni interesse (se si parte dai principi egalitari e si assume fondato che l’uomo libero non voglia abbandonarsi alla tirannia delle donne) molti uomini accettano per veri gli argomenti e il sentire femministi. Ed è per questo che le donne (molte donne) non percepiscano contraddizione fra la loro prepotente, perfida, crudele, vanagloria e la loro totalizzante pretesa di tirannia e il “diritto di tutti a vivere liberi e felici”. Esse fanno (magari razionalmente) discendere ogni diritto dalle verità nascenti dal loro mito. Del resto, non illudiamoci lo stato di diritto possa salvarci: il diritto stesso (non “un” diritto, ma “il diritto”, quello razionale, chiaro, preciso nell’identificare a priori e oggettivamente il cosa è lecito e cosa è illecito, al di là di sentimenti e interpretazioni personali o di sfumature di ogni “sentire”) è figlio di Apollo. Fosse per la Grande Madre, non esisterebbero né stati, né diritti, ma ovunque regnerebbero il caos orgiastico e il capriccio onnipotente della femmina e del suo sesso (ma non è vero il contrario: sebbene la menzogna demagogica del femminismo parli di “fallocrazia”, lo stato apollineo ha sempre limitato le espressioni brutali e falliche di una virilità o solo ferocemente guerriera.o orgiasticametne dionisiaca, proprie invero delle società matrilineari, in favore di quella virilità incorporea della luce base delle civiltà patrilineari e totalmente altra dalla brutalità fallica comunque al potere femminile ancora legata).
Il diritto ha avuto bisogno della forza per imporsi e permettere un ordinato esplicarsi di verità, bellezze e significati: la forza di Apollo. Questo le donne (certe donne) comprendono bene: per questo usano tutta la violenza in loro potere e a loro utile, psicologica, morale, legale, economica, sessuale (se si pensa alla loro crudele volontà di infliggere dolore e umiliazione nei rapporti ed anche solo negli incroci di sguardi e nei tentativi di approccio) e a volte pure fisica (spinte dallo “stile pubblicitario”), per distruggere quanto resta di un kosmos. E questo invece dobbiamo sapere noi: la loro violenza è quella di Kali, chaos e distruzione, mentre la nostra è e sempre sarà, se ne saremo degni, generazione e fondamento di Civiltà (in quanto appunto tendente al contrario della loro ad ordinare il chaos in kosmos). Di questo dobbiamo essere consapevoli guardando al mito come meta e modello per il futuro (ecco la visione sferica del tempo!).
Per sconfiggere le Amazzoni non bastano pezzi di carta con dimostrazioni e dichiarazioni. Serve il cavallo alato Pegasus, su cui salire per sterminarle. Solo dal cielo uranico si può trarre quella purità che è forza e quella forza che è purità con cui già un tempo Bellerofonte ebbe la vittoria. Bisogna mostrare alle Amazzoni la loro natura soltanto lunare e incapace, al contrario di Noi, di luce propria, proprio come ho cercato di fare in questi post.

Solo un mito può sconfiggere un mito, e in maniera molto più duratura di quanto possa fare una dimostrazione con una dimostrazione.
E il nostro mito è più capacitante del loro: lo dimostra la storia, lo dimostrerà la rigenerazione della storia.
Il femminismo si fa forza del fatto che gli uomini moderni siano passivi, pacifici, distratti, disposti a tollerare praticamente di tutto e a farsi pigliare per il sedere con i principi egalitari dietro cui si cela il mito femmineo primordiale. Si fa forza del poter contrapporre un mito (il matriarcato) a un astratto principio (l’uguaglianza). Bisogna contrapporre alle “ultras femministe” ormai convinte di potersi permettere di tutto e di avere sempre dalla loro parte la “cultura” un Fanatismo determinato e coltissimo. La maggior disposizione ad accettare la mischia, al di là di ogni sentimento umanitario, per, ultimativamente, uccidere o essere uccisi è sempre stato ciò che ha deciso delle vittorie fra uomini, fra popoli e fra dèi. Trasformiamo in forza quanto nelle demagogia attuale è colpa (appunto la disposizione guerriera). Vincere, o morire nel tentativo. Questo lo sa persino uno spermatozoo.

SALUTI DALLA SUBLIME PORTA

P.S.
La questione non è “quanto tenga a madonna Chiara”, ma quanto io sia debitore nei suoi confronti del fatto di essere uscito dall’illusione incapacitante dell’individualismo pacifico, nichilista, eudemonico ed, in fondo, autolimitatore ed autodistruttivo proprio delle mie fasi leopardiane e schopenhaueriane.
Sono convinto che al di là del suo pensare (pesantemente segnato dall’esser circondata di bruti o di pisquani) ella possieda un sentire eroico ed assai più virile di quello di tanti uomini e comunque, anche se non fosse, mai ardirei violare il rispetto dovuto a chi mi ha fatto oggetto di dono sì grande.

Il fatto che madonna Chiara non parli dei miei post discende dalla sua esemplare correttezza: sa che io non leggo più i suoi. Per questo vi inviterei a non parlare di lei in sua assenza.

 
At Salı, Eylül 23, 2008 11:27:00 ÖÖ, Blogger Rocky Joe said...

Come ho spiegato in precedenza purtroppo non ho tempo per leggere con attenzione i tuoi scritti interessanti ma lunghetti (per fortuna però molto chiari). Purtroppo ho tempo di fare solo qualche precisazione veloce veloce:

Non ho affermato, né mi sognerei di farlo, che i sistemi dottrinari che ho preso come esempi (cristianesimo, marxismo e nietzschianesimo) agiscano in maniera arbitraria, anzi al contrario, essi elaborano “schemi” e categorie concettuali rigorosissime alla loro logica. Il fatto è che a me salta agli occhi la stessa struttura di base di tali filosofie.

E’ probabilissimo che tu abbia ragione riguardo l’impossibilità di sconfiggere il femminismo (o, come preferisco chiamarlo io il “figocentrismo”) con l’uso della ragione e di argomenti “egalitari” e razionali. Del resto la storia non è certo incontro di idee e ragioni ma scontro di forze. Ma il fatto è che io non voglio combattere contro niente e nessuno. Forse un tempo mi illudevo e avevo voglia di farlo, ma adesso sono troppo pigro e troppo meschino per farlo. Mi piace scrivere e quando ho tempo metto giù ciò che penso. Tutto qui. Sull’importanza del mito non credo che vi sia molto da dubitare, c’è bisogno di mitologia perché si costituisca un certo sentire. Il mito è un nostro archetipo mentale irrinunciabile. In origine io avevo “creato” Antropide, una sorta di “dio” della specie umana. Si trattava di fantasie di ragazzo. Una domanda: siamo certi che il mito delle Amazzoni sia un mito femminile?

Ripeto che non nego diversità più o meno “formali” o più o meno “sostanziali” tra gli esseri umani, me neanche l’affermo, semplicemente me ne disinteresso. Sinceramente non seguo né la “febbre” di uguaglianza né quella di “ineguaglianza”. Io mi rivolgo a chi vuole ascoltarmi.

Non credo che la scienza abbia dei poteri tanto miracolosi. Potrà molto probabilmente sconfiggere alcune malattie, allungare la vita etc., ma davvero non credo che potrà rendere gli esseri umani immortali. E non sia mai ci riuscisse!

Preciso inoltre che non intendo affatto sminuire Nietzsche. Anzi dirò che per molti verso lo sento a me vicino, pur nel mio piccolo: anche io sono molto solitario, schivo, ho pochi amici, non sono certo un “play boy” e non ci terrei affatto ad esserlo. Anche io mi sento “emarginato” dalla società odierna. Però, avendo un intelletto infinitamente meno fine, le mie critiche al mondo scaturiscono più da mie piccole frustrazioni che non da vere e proprie intuizioni. Il mio sospetto era che forse anche il prof di Basilea abbia potuto avere momenti di sconforto e frustrazione e che alcune sue intuizioni possano essere in parte il frutto di tali stati di sofferenza.

E troppe sono le perplessità che mi lascia il suo pensiero.
Per esempio Nietzsche parla, come ben sappiamo, di “gregge”, “pecore”, “animali da armento” per indicare i membri di una comunità ma anche gli istinti comunitari degli individui, giusto? Però io so che proprio gli animali da armento non sono per niente comunitari, il gregge non è una comunità organizzata, ma un insieme di pecore in cui ognuna pensa ai fatti suoi e nessuna percepisce legami con le altre, non c’è alcun sentimento di solidarietà tra loro. Tanto è vero che per tenerle insieme c’è bisogno del cane da pastore. So che invece i sentimenti comunitari, di solidarietà etc. sono invece tipici proprio degli animali carnivori, cacciatori, da preda. È tra questi animali che si formano branchi con spesso fortissimi legali tra loro e un forte senso di appartenenza al gruppo.

Non ho mai capito, poi, perché tra uomini, e quindi all’interno di una medesima specie (quella umana) dovrebbero esserci rapporti tipici tra individui di specie diverse. Per esempio perché l’uomo dovrebbe essere animale da preda coi propri simili e non con individui di altre specie.

Tu dici che il dissolvimento della società aristocratica è stata come se un vandalo avesse distrutto il David di Michelangelo. Si ok, ma perché questo vandalo lo ha distrutto? Perché gli schiavi, la plebe, punterebbe a disfarsi degli aristocratici se questi garantirebbero una società migliore? Tenendo poi conto che, materialmente parlando, gli schiavi producono l’occorrente per la vita materiale e pertanto potrebbero la vita materiale potrebbe continuare senza padrone, mentre questo invece non potrebbe sopravvivere senza schiavi. Ma questo si sa che è il paradosso dei padroni i quali dipendono dagli schiavi più di quanto questi dipendano da loro. Ma questo è probabilmente un giudizio piuttosto materialistico.

Infine non capisco perché non vuoi darmi del tu.

Ciao
Peppe

 
At Perşembe, Eylül 25, 2008 10:31:00 ÖÖ, Blogger Beyazid II Ottomano - Sultano di Costantinopoli said...

Messer Giubizza,
se vi do del voi è perchè così prevede il protocollo di corte di Costantinopoli, non già per disistima nei vostri confronti. Vi stimo invece a tal punto che vi credo capace di assorbire un altro non breve discorso. Sarà un piacere intrattenermi, ora che capisco di aver intuito giustamente quando vi ho attribuito una natura assai meno plebea di quanto farebbero supporre certi aspetti del vostro pensiero: il vostro interesse per una situazione personale di Nietzsche paragonata alla vostra lo dimostra al di là di quanto ne siate coscienti. Non saper vivere in questo mondo sovvertito ed effemminato è proprio il tratto distintivo dell'uomo superiore. L'inferiore si adatta sempre dove si tratti semplicemente di seguire piacere e innocenza e di contentarsi della conservazione ovina. Un po' d'erba è sempre disponibile nei prati dell'egalitarismo eudemonico. Solo chi vuole superarsi continuamente soffre frustrazioni per motivi non legati a cose materiali.

Inizio a rispondere dall'ultima domanda: "Si ok, ma perché questo vandalo lo ha distrutto? Perché gli schiavi, la plebe, punterebbe a disfarsi degli aristocratici se questi garantirebbero una società migliore?"
Perché appunto sono dei vandali: disconoscendo ogni senso superiore del vivere, agiscono per impulso negatore e distruttore, non capendo le conseguenze del loro agire. Le infelicità e le ingiustizie del mondo moderno, diffuse anche fra gli stessi animi servili tanto superbi nel loro egualitarismo (che poi non è egalitario se non nella negazione di ogni valore superiore, dato che gli egoismo e le nequizie pullulano nelle società fondate sull’esaltazione del piccolo egoismo che prende, generando disparità assolutamente non giustificate con le differenze qualitative fra individui), lo dimostrano.

E’ nella natura di chi appartiene alle forze del chaos disconoscere ogni valore, ogni significato ed ogni bellezza e tendere sempre a distruggere le opere di grandezza, maestà e grazia che i sostenitori del kosmos generano e preservano. Se mi è concesso un paragone con la fisica, i primi sono come la forza di gravità (Nietzsche amava identificare il maggior nemico di Zarathustra con lo “spirito di gravità”), le quali tendono a livellare tutto al minimo livello di energia potenziale, mentre i secondi sono paragonabili alle complesse azioni di chi ha speso fatica, energia e studio per progettatare ed edificare la costruzione secondo il modello sentito come “necessario”, generando uno stato di maggiore energia potenziale e di maggior “significato” (poiché appunto più difficile da realizzare e “meno probabile”).

E’ però erroneo attribuire ai servi una identificazione costante con le forze distruttive. Quando il mondo è in ordine, essi sono parte delle forze che sostengono il kosmos, compatibilmente con le loro capacità e il loro sentire. E’ ammesso da Nietzsche stesso che, quando la società è retta da individui davvero aristocratici, ossia in grado di mostrarsi sotto ogni aspetto spirituale, etico ed “estetico”, realmente i migliori (e non soltanto i più fortunati o i più furbi nella lotta “darwiniana” per accaparrarsi denari e utili) le classi servili sono le prime a riconoscere la necessità di subordinarsi in un ordine superiore di cose. Quando invece al posto degli aristoi vi sono semplicemente dei mercanti fattisi prepotenti con le varie “rivoluzioni”, i servi (avvezzi a ragionare secondo i medesimi criteri dell’utile e del tempo) si pongono la lecita domanda “e perché non potremmo tentare anche noi? Se essi, senza essere qualitativamente migliori di noi, possono essere i primi ed avere tutto, allora anche noi possiamo”. Ecco il socialismo. Tolto ogni riferimento a un senso superiore del vivere (che sia esistente a priori e si possa raggiungere solo tramite le vie tradizionali di ascesi o che sia da creare con volontà di potenza non è qui il caso di discutere, anche perché io stesso non sono tanto in alto nel Sapere per poter pronunziare una sentenza definitiva) su cui fondare ogni gerarchia di valori, si ha solo un susseguirsi di decadimento da uno stato all’altro di disordine, tanto nella sfera individuale (il nichilismo contemporaneo) quanto in quella sociale (e vi è solo l’imbarazzo della scelta nell'indicarne i segni).
Una volta che si sia proclamata l’uguaglianza di tutti gli uomini (davanti a dio, davanti alla natura, davanti alla legge) e con essa si siano negati (in questo mondo) i valori superiori su cui poggiava ogni gerarchia, diventa assolutamente lecito per ciascuno pretendere di essere e di avere tutto quanto si vede rappresentato e posseduto da qualcun altro.
E' stato proprio il principio egalitario a fomentare l'insoddisfazione per la propria condizione, l'invidia, la rivalsa, la sovversione. Nel mondo della Tradizione, ad onta dei minori mezzi coercitivi degli organismi statali, non vi erano in genere rivolte, se non quando un tiranno prendeva il posto del legittimo sovrano e quindi proprio quando l'ordine veniva rotto dal piccolo egoismo di un individuo effimero. E' il mondo moderno a conoscere rivolgimenti continui (lo stesso Lenin doveva ammettere, in palese contraddizione con l'ortodossia di Marx ed Engels, che i sentimenti rivoluzionari non nascano spontaneamente dal popolo in conseguenza delle condizioni di disuguaglianza, ma debbano essere inculcati con la propaganda e la forza da una minoranza attiva e cosciente: non dunque il malcontento e la "coscienza di classe" creano i partiti comunisti, ma i partiti comunisti diffondono malcontento e "coscienza di classe", e lo stesso vale per cristianesimo e "rivolta degli schiavi"). Anche ora che la sovversione ha vinto, è sempre il principio egalitario a mantenere una costante distanza fra ciò che si è (o ciò che si sente di essere) e ciò che si ha: giacchè non si può essere e avere di tutto, e vi è sempre chi meritatamente o meno è socialmente più in alto o possiede di più, anche l'uomo più fortunato ed abbiente vive in un perenne stato di frustrazione (almeno finchè valuta secondo criteri socio-materialisti).
Nel mondo "non sovvertito", capace di conoscere le caste e i criteri del sacro e dell'eterno di cui esse sono baluardo esiste (o, almeno, si tenta di far esistere) una corrispondenza fra quanto si è per natura, quanto si vuole, quanto si sente come necessario per sè e il mondo e quanto si è e si fa nella società, la quale risulta così composta non più da atomi individuali perennamente scontenti, inappagati e in lotta fra loro, ma da persone consapevoli di chi sono e cosa vogliono e per questo "felici" (in senso ovviamente superiore a quello dell'eudemonogia individualista, più vicino alla "felicità spartana"). La ragion d'essere dell'ordinamento in caste (e, se vogliamo, delle corporazioni medievali, che sono poi la prosecuzione, in parte decadente, di quelle antiche) proprio questa.
Mi si permetta un paragone letterario per chiarire ulteriormente. Nella cantica del Paradiso il grado di beatitudine delle anime abitanti i diversi cieli è differente a seconda del grado di purezza e santità raggiunto in vita. Al dubbio di Dante se questa "disuguaglianza" possa tentare all'invidia i beati di grado inferiore, o almeno far sentire loro la mancanza dell'appagamento maggiore proprio ai beati di grado più elevato, Beatrice risponde che il fatto stesso di contemplare una giusta differenza di beatitudine nascente da un differente valore mostrato in vita genera di per sè, in anime giuste, "che vedono il vero", un compiacimento tale da "compensare" la loro minore beatitudine.
Questa visione "gerarchica" del paradiso, se epurata dei suoi elementi idealizzanti e spiritualizzati, può rendere perfettamente l'idea di quale principio ordinatore regolasse le civiltà indoeuropee prima della varie sovversioni. E queste non sono affatto state provocate dai "beati di grado inferiore", bensì dai "dannati", da coloro che non già per ingiustizie subite, ma per diversa innata visione del mondo, hanno rinnegato quell'ordine cosmico di cui l'ordine sociale era riflesso. I "dannati" non vogliono un posto in paradiso o un posto più in alto nella scala sociale: vogliono distruggere il mondo in cui esiste un paradiso e la società in cui esistono i gradi. Ecco perchè sono il Chaos e non il Kosmos. Parlando più storicamente, e fuori dalla metafora dantesca, non da un sentimento diffuso e più o meno motivato di ingiustizia e scontento, all'interno delle civiltà indoeuropee (e in particolare di Roma) è nata la sovversione egalitaria (gli stessi problemi sociali, sempre ovviamente presenti in un mondo reale, giacchè nemmeno lo stato più conforme all'ideale è perfetto, erano stati sempre risolti all'interno della visione del mondo antica, come ai tempi dell'Aventino), ma dall'importazione dall'esterno di una visione del mondo radicalmente e mortalmente opposta, rispetto alla quale i concetti di "grande", "nobile", "bello", "eroico", di "personalità. gerarchia, differenza", di "diritto naturale delle genti eroiche" e quello stesso di "civiltà" (nella Bibbia i fondatori di città sono sempre maledetti e Sant'Agostino definisce il mondo classico "civiltà di Caino") apparivano "il male assoluto". Nietzsche è stato il primo a capire questo e ha tentato di identificare in maniera univoca tale sovversione dei valori con l'importazione in Europa, attraverso il cristianesimo, della morale giudaica, dicendo: "qui inizia la rivolta degli schiavi nella morale". Questo, se da un lato pone genialmente in evidenza una parte fino allora celata della verità (l'avversione biblica per ogni sentire creativo e affermativo, per ogni visione del mondo nascente dalla positività di una forza, di una affermazione, di una decisione volgente a "prendere il mano il proprio destino", per ogni generazione di valore, significato e bellezza conseguente l'ordinamento del chaos in kosmos da parte di uomini e dèi, per tutto quanto insomma ha elevato all'eterno le grandi civiltà indoeuropee: evidenza di tale avversione è massimamente rintracciabile negli sviluppi secondo novecenteschi dell'intellettualità ebrea, egalitariamente laicizzata, dalla "antropologia negativa" di un Theodor Adorno e della sua "Scuola di Francoforte", pronta a fare della critica un punto di vista assoluto, all'invito di "filosofi" quali André Glucksmann e Bernard-Henri Lévy di abbandonare il deus-iuppiter-pater per un "geova" astrattamente trasceso, con ciò intendendo maledire le civiltà fondate sul "dominio dell'uomo sull'uomo" e sul tentativo di questi di "farsi simile a dio", anzichè sull'obbedienza alla "legge naturale dell'uguaglianza", presa come una verità di partenza al pari del verbo biblico innanzi a cui tutte le differenze, le gerarchie e i valori umani si annullano), dall'altro, al di là dell'effetto provocatorio e polemico necessario ai tempi di Nietzsche (nel senso di "pro-vocare", chiamare fuori, in questo caso per rendersi conto dopo duemila anni di cosa realmente è accaduto, per tornare a porsi la morale come un problema e non come un dato di fatto), risulta eccessivamente semplificante (a meno di non volere seguire Wagner nei suoi eccessi parossistici di antisemitismo) in sede di analisi più completa e calma.
Se ho potuto citare il paradiso dantesco per esemplificare il principio aristocratico, senza tema di cadere in contraddizione quando ho poi richiamato la "sovversione" portata dal cristianesimo originario, è perchè, al di là della condanna senza appello del professore di Basilea (ma i professori amano esagerare), il Cristianesimo, storicamente e culturalmente inteso (ed in particolare il Cattolicesimo Medievale d'impronta chiaramente "imperiale" come quello dell'autore del "de Monarchia" e sostenitore di Enrico VII) non si configura affatto come negazione totale dei valori propri al mondo indoeuropeo, quanto piuttosto come mediazione fra questi e una certa parte del primo giudeocristianesimo (quello, per intenderci, degli "agitatori cristiani"). Una mediazione fra concezioni del mondo inconciliabili non può ovviamente essere né stabile nè duratura: oggi è sempre più evidente come la chiesa cristiana abbia scelto la via egalitaria suggerita dalla visione biblica e semitica, ed abbia abbandonato la concezione cosmica propria al mondo greco-romano, e anche in passato non sono mai mancati all'interno e all'esterno della chiesa scontri ideologici non totalmente riconducibili a "lotte in famiglia".
Purtuttavia, all'interno del Cattolicesimo, sono sopravvissuti, almeno fino alle soglie dell'epoca moderna, elementi di etica aristocratica (si pensi agli ordini cavallereschi e persino a quei monaci guerrieri che erano i Templari o i cavalieri teutonici) e di sentire eroico (si pensi a Bernardo di Chiaravalle a al suo "de laudae novae militiae"), nonchè, come citato con Dante, di visione cosmica (quindi necessariamente gerarchica, poichè il kosmos al contrario del caos conosce differenze e valori) della religione e di concezione solare del divino (la dimensione sovrumana, ben simboleggiata dal cielo pieno della "Grande Luce", cui si può tendere grazie alle vie eroiche di guerra o di ascesi, e che ha del divino la proprietà di splendere eternamente uguale a sè, come il Sol Invictus dei Romani, e di potersi propagare al di là ed al di sopra del ciclo di nascita e morte delle nature inferiori), tanto da far apparire assai esagerato (dallo stesso punto di vista aristocratico) il divieto nietzscheano di sedere a tavola con i "preti" (specie oggi che sono gli egalitari a tacciare, in nome dell'individualismo eudemonico, di "oscurantismo" la chiesa ancora legata, sia pure solo formalmente, a strutture sociali tradizionali quali la famiglia).
Questo non significa affatto che "pensiero aristocratico" e "pensiero cristiano" siano conciliabili, ma che all'interno dell'epoca storica del cristianesimo e fino a che la sovversione egalitaria non ha trionfato in via definitiva anche sul piano politico con la Rivoluzione Francese, i due pensieri, o, meglio, i due differenti sentimenti del mondo da cui i diversi pensieri scaturivano, coesistevano, in parte grazie all'arrivo in Europa (rispetto ad un mondo tardo-antico "orientalizzato" e a popoli occidentali sì, ma vissuti nella scomparsa dei valori "pagani" in favore di quelli cristiani) di nuove e "incorrotte" stirpi germaniche (convertite soltanto a forza al cristianesimo e mai da questo intimamente pervase nel sentire, tanto da poter servare nell'inconscio un sentimento virile, guerriero e "pagano" dell'esistenza, quale si rivelerà più tardi nella musica tonale, e da poter subito costituire la nuova aristocrazia di spada, il cui secolare contrasto con il papato era dunque più che politico), in parte per effettiva sopravvivenza (sebbene dietro a "maschere" cristiane) della forza mobilitante dell'antico mito (Omero non era ancora del tutto spento quando Dante lo citava, pur modificandolo "cristianamente", e la scelta del "pagano" Virgilio, creatore e cantore del mito imperiale romano, come guida è tutto dire).
Solo quando, all'epoca dei "lumi", il discorso cristiano è passato dalla fase mitica a quella ideologica, assieme al mito cristiano è stato dissipato anche quello pagano, o meglio: il mito cristico, disconosciuti i propri mitemi, si è sviluppato dialetticamente nell'illuminismo, nel liberalismo, nel socialismo, nel femminismo, mentre il mito "pagano", già di per sè nascosto dietro il primo, è stato disconosciuto nel momento stesso in cui si è "demitizzato" il primo.
Ecco perchè Nietzsche sente il bisogno, prima ancora che di produrre una filosofia, una dialettica, una ideologia, di proporre un nuovo mito: nessun discorso diverso da quello egalitario sarebbe fondato senza il proprio mito autofondante. Egli è tanto critico e negatore nella pars destruhens quanto poietico e affermatore nella pars costruhens (ovvero, principalmente, "Così parlò Zarathustra"), la quale, proprio per il fatto di dover possedere qualcosa di sacro, di misteriosi, di infinito, di indefinito, di divino (insomma: qualcosa di mitico), deve mostrarsi in tutta la sua terribile ed enigmatica ambiguità (l'ambiguità, il non rientrare nella "ragione data", il non sottostare al principio di non-contraddizione è proprio, come nota Galimberti, l'attributo del sacro). Ecco il motivo di tanta "differenza di stile" fra le opere di Nietzsche.
Forse nelle opere critiche come la "Genealogia della morale" avrebbe potuto essere più dettagliato, ma se si considera che non poteva disporre dei risultati dell'archeologia e dell'antropologia oggi noti, bisogna ammettere che il suo metodo "filologico" (ed è apprezzabile che per affermare quanto gli stia più a cuore utilizzi gli strumenti meglio conosciuti, ovvero le parole) fosse quanto di più "scientifico" potesse utilizzare nelle sue condizioni.
Qualche suo schematismo pare in effetti in eccesso: se si vuole essere aderenti alla realtà storico-effettuale, la contrapposizione fra valori aristocratici e valori plebei non si rispecchia tanto in una contrapposizione dualistica e manichea fra buoni/cattivi, forti/deboli, sani/malati, all'interno di una umanità indifferenziata allo "stadio pre-morale", quanto piuttosto (e questo, prima di Dumezil, non poteva essere saputo) in una opposizione radicale fra diversi tipi di civiltà (all'interno delle quali esistono i buoni e i cattivi, i forti e i deboli, i sani e i malati, ma hanno posti differenti), e in particolare fra le civiltà che hanno saputo affrontare e vincere le sfide della rivoluzione neolitica e quelle rimaste, come visione del mondo, al mesolitico (anche se magari in certi singoli aspetti della civilizzazione potevano apparire "superiori"). Comportarsi in maniera "predatoria" verso i più deboli (o i malati o anche i più cattivi) della propria società, come potrebbe apparire in una lettura darwiniana di Nietzsche, non avrebbe in effetti alcun senso, mentre stabilire delle gerarchie di valore derivanti da una visione del mondo capace di dare alla vita un più alto valore, una più compiuta bellezza, un più pieno significato, rispetto a quanto tipico di civiltà egalitarie basate sulla tranquilla conservazione di sè senza altro scopo da un tranquillo benessere "ovino", ha il senso di passare dalla preistoria alla storia. Tale senso ci informa anche dell'attualità del discorso nietzscheano, il quale non è e non vuole essere un ripiego su un bel mondo nobile e perduto (alla maniera del Boiardo: "o somma bontà dei cavalieri antiqui"), bensì un monito, un incitamento e un modello per il futuro (non mi dilungo più sulla visione sferica del tempo, state tranquillo): sono necessari nuovi valori superiori e nuove aristocrazie su tali valori fondate, se si vuole che l'umanità allo stato attuale non proceda verso una fine della storia nei verdi pascoli dell'individualismo egalitario ed eudemonico, ma sappia rigenerarla, compiendo un salto qualitativo paragonabile a quello di cui fu capace la "bestia bionda" quando trasformò l'Europa e l'India, da un insediamento di popolazioni pacifiche e matriarcali abbandonate ad un tutto indifferenziato simile all'attuale scuola dell'obbligo governata da donne, in un insieme di popoli capaci di costruire Roma, la Grecia di Omero, l'India dei Veda, la Persia iranica.
E' in questo senso che va letto Nietzsche, più che per cercare improbabili vie di superomismo individualista (vie di cui certi esegeti culturali sono maestri). Il dualismo della Genealogia della Morale va ripreso a livello più alto di quello banalmente "biologico" fra forti e deboli, sani e malati. Alla luce della storia (il grande interesse di Nietzsche, come notò Jacob Burckhardt) il vero dualismo non è tanto fra forti e deboli, ma fra coloro che sanno usare la forza per costruire e ordinare e coloro che la vedono solo come uno strumento di distruzione (perchè a creare dal nulla vi è un dio esterno). I primi fanno della forza la base di un sistema di valori affermativi, i secondi la rovesciano in "male" secondo i valori della debolezza, indipendentemente dallo "sviluppo muscolare" degli uni o degli altri. Così "rettificata", la "provocazione" di Nietzsche si ricomprenderebbe in maniera perfettamente razionale e coerente all'interno di quella spiritualità tradizionale indoeuropea volta a concepire l'essenza del sacro quale forza ordinatrice del chaos in kosmos e il senso superiore del vivere come lotta continua per sostenere l'ordine cosmico contro la decadenza. I giudizi di valore nietzscheani non sarebbero più arbitrari (come voi rilevate, una volta caduta ogni dimensione trascendente), ma sempre conformi ad un ordine cosmico forse mai espresso coscientemente ma comunque mai rinnegato dallo stesso Filosofo del Divenire. Le contraddizioni di un pensiero antimetafisico che pure propone giudizi di valore conformi ad un radicalismo aristocratico storicamente necessitante di una dimensione trascendente per affermarsi non sarebbero tali che all'apparenza. La volontà di potenza stessa si ricondurrebbe a quello sfondo cosmico da cui in ogni tempo si generano gli dèi (Moira per i Greci, Ratio per i Romani, Ascia per i Persiani, Orlog per i Germani, Rita per gli Indiani) e a cui è necessario tornare una volta che (come nella modernità) ogni ordine umano e divino è caduto (o è in via di inevitabile e irreversibile decadenza), per rigenerarne uno nuovo (sempre conformemente all'ordine cosmico). Non sarebbe dunque un pazzo isolato il nostro zio Friedrich, ma, almeno nella sua pars costruhens, una riproposizione della classica figura dello "sciamano", tornata per contrapporre al mito cristiano un mito di altra natura, più vicina alle origini degli Europei. Ecco perchè ancora una volta Zarathustra si esprime in forma oracolare.
Tornando alle opere critiche, alla pars destruhens, quando Nietzsche parla di "rivolta degli schiavi nella morale", forse avrebbe dovuto precisare che non sono i servi il problema (qualsiasi pensiero aristocratico deve contemplare l'esistenza di una maggioranza del sentire plebeo: non può concepirla quale male da abolire, come invece i sovversivi concepiscono l'aristocrazia), ma il fatto che qualcuno li abbia convinti di non essere tali per natura. E quando con acume geniale illumina il lettore sull'origine e la natura del "genio" del popolo ebraico, forse avrebbe dovuto evidenziare (giacchè anche i grandi lettori sono spesso ingenui) come solo oche e polli antisemiti possano credere ad una caduta del mondo antico e ad una sovversione egalitaria moderna provocate esclusivamente da una sorta di "agente patogeno" ebraico o di "complotto giudaico". Per quanto presenti siano stati ebrei nella fondazione del cristianesimo originario (a partire da San Paolo, particolarmente bersagliato dall'Anticristo) e nelle varie fasi intellettuali della rivoluzione politica moderna, non si può evitare di distinguere la miccia dall'esplosivo.
Nemmeno il più perfido piano della "Spectre" avrebbe potuto conseguire i risultati sotto gli occhi di tutti se dietro la proposizione di tematiche "bibliche" un tempo religiose ed oggi più o meno laicizzate non vi fosse stato qualcosa di assai più profondo e di assai più vasto. E tale substrato altro non è che il residuo presso i popoli europei (che alla fine sono il risultato del "meticciato" fra le popolazioni mediterranee e quelle indoeuropee) del sentire proprio alle società di "caccia e raccolta" del mesolitico organizzate egalitariamente e veneranti l'Ente Supremo. Il Giudaismo importato dal cristianesimo non è che la massima espressione (in forma religiosa) del rifiuto, da parte di certi popoli (non solo gli Ebrei), della civiltà neolitica (implicante il passaggio da una vita nomade ad una vita di città: da qui le maledizioni bibliche per i cittadini) e la contemporanea pretesa di postulare nel futuro e addirittura nell'altro mondo una vita conforme al vecchio modello (di qui la negazione del mondo e la sovversione di tutti i valori di cui parla Nietzsche). Il dio biblico che non tollera "gli idoli" è la figurazione metafisica del vecchio "ente supremo" di cui i "sacerdoti ebrei" auspicano il ritorno per distruggere quel Pantheon espressione delle civiltà volte ai valori del bello, del grande e dell'eroico, quindi alla gerarchia rispetto a tali valori, quindi, ultimativamente, al "dominio dell'uomo sull'uomo", alla "rottura della legge mosaica" e alla "tentazione di essere simili a dio" (in quanto creatori di significati e artefici della propria stessa natura).
Il mondo indoeuropeo, come testimoniano tanto i suoi miti quanto il suo sviluppo storico, aveva trovato dopo tanto agire e tanto studiare, i propri equilibri, che l'infiltrazione di tali elementi esterni ha minato irreparabilmente, reintroducendo allo stato più "puro" e più "spirituale" possibile la drammaticità di questioni già a suo tempo risolte, con effetti, questa volta, esplosivi.
La domanda a questo punto è: senza il cristianesimo, ovvero senza l'introduzione attraverso di esso di elementi semitici esterni alla cultura indoeuropea, sarebbe questa colassata comunque? Solo un convinto antisemita a priori può rispondere con certezza in senso negativo. A me pare conforme ad una superiore visione ammettere che, lasciato a se stesso, anche il miglior sistema è destinato alla corruzione (in misura tanto maggiore quanto più alto è il suo valore originario, quanto più elevato è il suo significato, quanto più nobile è la sua bellezza) e, una volta esauritasi la forza formatrice di civiltà simboleggiata dal mito, la decadenza sia sempre inevitabile allorquando, per stanchezza o contrasti interni caratteristici della "fase dialettica", le forze sostenitrici si affievoliscono.
Anche ammettendo sacri ed eterni i principi da cui tali forze sono mosse, la natura ancora umana (anche secondo il mito, solo gli eroi fondatori sono di origine "divina") di chi è di generazione in generazione chiamato ad informare ad essi gli altri uomini, lo stato e la società, introduce il germe della caducità e della corruzione. Certo, più alta è la qualità degli uomini, più saldo è lo stato e più difficilmente la decadenza ha corso. In tal senso il contatto con civiltà dai valori non consonanti ma opposti ha un effetto disgregante. Questo è stato evidente una prima volta nel mondo ellenico e una seconda in quello romano, allorchè entrambi sono venuti a contatto con il vicino oriente.
Quando Catone il Censore criticava le matrone troppo sfarzose o gli eccessi "esterofili" di Scipione non faceva del "moralismo" come vogliono far credere i moderni commentatori facendone una sorta di pedante Savonarola ante litteram, ma rendeva solo evidente come la forza e l'avvenire di Roma risiedessero non già nella ricchezza materiale e intellettuale o nella potenza militare (le quali semmai ne erano i segni esteriori), ma nel superiore senso sacrale che i Romani davano a tutto quanto riguardasse lo Stato, ivi comprese la fedeltà alle origini, la conservazone di quel sentire eroico, guerriero e solare su cui la loro civiltà era fondata e la prosecuzione del "mos maiorum", e in virtù del quale i criteri superi del sacro e dell'eterno dominavano su quelli inferi dell'utile e del tempo, permettendo il sorgere e il conservarsi di un patriziato i cui esponenti (proprio perchè "migliori" e quindi investiti di maggiori diritti e maggiori doveri) nella loro azione politica dovevano mirare, a costo del loro stesso sacrificio (il console di parte patrizia, al contrario di quello di parte plebea, non può mai sopravvivere alla sconfitta) non all'interesse personale o di parte, e nemmeno ad un utile materiale o immediato, ma al compimento dell'opera di grandezza sentita come necessario dal popolo tutto (e popolo qui non significa massa o vago insieme di individui indifferenziati, ma identità di sangue e spirito organicamente strutturata in un sistema al cui capo vi è un Senatus, simbolo dell'autorità). L'acquisizione di costumi "orientali" (e, si badi bene, non in quanto "non romani", chè costumi stranieri ma generati da un sentire conforme a quello di origine, come nel caso di certi aspetti greci, celtici e germanici, o addirittura persiani, non sono affatto distruttivi, ma in quanto inconciliabili con la "romanità" dello spirito) e, con il tempo, di un "sentire" "orientale", avrebbe compromesso la solidità di quella visione del mondo asciutta, apollinea, severa, e al contempo eroica, di cui il mos maiorum era espressione, realizzazione e continuazione tangibile. Ed è infatti quanto di lì a qualche secolo avvenne.
Già prima del cristianesimo la natura semplice e nobile del tipo romano originario era stata infatti pesantemente minata dal contatto con il mondo ellenistico (ben lontano dai valori aristocratici della Grecia di Omero e piuttosto corrotto dall'introduzione di costumi propri alle civiltà matrilineari della mesopotamia e dell'Egitto) e con la fine della Repubblica poteva essere detta conclusa la fase in cui i reggitori dello stato erano ancora l'immagine del Cincinnato disposto a servire la Patria senza nulla chiedere di più e di diverso dall'essere obbedito durante la dittatura e per il solo fine supero della pubblica salvezza, e i soldati i degni rappresentanti del legionario non in cerca di gloria, di ricchezza o di fama, ma deciso a compiere il proprio dovere, se necessario fino al sacrificio anonimo, semplicemente perché sentito come necessario alla propria natura di combattente.
Iniziava l'era del cesarismo e dei soldati di professione, con le ben note sequele di lotte per il potere e di proclamazioni a colpi di ammutinamenti e di promesse di distribuire terre e ricchezze ai "veterani". Tutto ciò può conformarsi alla visione "rinascimentale" di un Nietzsche che lo auspica per l'abolizione del cristianesimo, ma non è certo quanto ha fatto grande Roma e non può essere visto positivamente quando l'oggetto dell'abolizione da parte di tale chaos dionisiaco non è la chiesa cristiana, ma l'imperium romanum. Con questo non voglio certo concludere che il mondo antico sarebbe crollato anche senza il cristianesimo, quanto piuttosto che l'avvento del cristianesimo andrebbe inserito all'interno di un più vasto movimento di "contaminazione" orientalizzante.
Se poi, senza tale "contagio", la civiltà indeoeuropea, di cui Roma aveva iniziato a costituire bene o male la summa storica nei secoli successivi la sconfitta definitiva della semitica Cartagine, avrebbe continuato a regnare sul mondo o sarebbe presto o tardi caduta comunque (se cioé il mondo dei valori aristocratici avrebbe potuto continuare a prevalere su quello dei valori mercantili e servili, ovvero, più in generale se la rottura dell'ordine cosmico, di cui il mondo greco-romano è stata pressochè compiuta espressione, è necessaria o accidentale), è interrogativo a cui solo chi meglio di me conosce la storia e la metastoria potrebbe rispondere.
Qui voglio sottolineare soltanto ancora una volta come tutto quanto, per il fatto di essere più raro, più difficile, meno probabile, meno vicino alla condizione di "stabilità naturale" (ovvero di appiattimento sulla minima energia potenziale e la massima entropia), possiede maggior valore, maggior significato e spesso maggior bellezza, richieda sempre, da parte dell'uomo che lo voglia instaurare e sostenere, più sacrificio, più rischio, più fatica, più disposizione ad affrontare dolori, colpe e imprese lunghe e perigliose. E' dunque naturale che il cedimento della volontà e il decadere della qualità umane siano tanto più probabili e tanto più deleterie nel caso delle civiltà fondate su valori aristocratici (le quali presuppongono "genti eroiche") rispetto al caso delle civiltà presupponenti individui indifferenziati volti al benessere bovino. Ciò dimostra ancora una volta la superiorità delle prime sulle seconde, a meno che non si vogliano attribuire giudizi di valore fondati solo sul conservarsi senza altro scopo.
Quanto è più in alto è anche soggetto a più rischiose cadute. Quanto è più pieno di valore è anche più bisognoso di forze che ne garantiscano la stabilità. Solo quanto è chaos indifferenziato è "stabile per natura". E proprio qui sta il rischio insito nel mondo egalitario ed eudemonico che mira alla fine della storia e a privare l'uomo della capacità di "crearsi continuamente" (che ha mostrato nella sua libertà storica).

Se mi è concesso proseguire con paragoni immediati, una società egalitaria e materialista, mossa da valori eudemonistici, è paragonabile ad una comitiva che si contenti di raggiungere un prato a media altezza e di sdraiarsi laddove l'erba è molle, la temperatura mite, il vento gentile e di attendere lì, assieme a capre e vacche, il tramonto del sole. Non ha bisogno nè di guide eroiche, nè di discipline severe, nè di allenamenti selettivi, nè di coraggio, nè di capacità di superarsi continuamente. Basta a quella comitiva non litigare troppo per i posti all'ombra (o al sole) e i panini e vivere in pace fino a sera. Non conoscerà però mai nè il valore umano, nè la bellezza di quel mondo di roccia e di ghiaccio che mira distrattamente dal basso confondendolo con le nuvole: entrambe le cose necessitano di fatica, dolore e sacrificio per essere conosciute.
La società aristocratica ed eroica è invece paragonabile ad una comitiva in cui vi siano diverse persone disposte a fare ciò che implica più fatica, più coraggio, più disciplina, più dolore, più rischio, a volte anche più colpa (perchè magari bisogna lasciare perdere chi non può salire ed imporsi con la forza a chi lo vuole impedire), pur di raggiungere le vette e ascendere a quell'altezza da cui lo sguardo sul mondo conosce una bellezza ed un significato impossibili da dimenticare. A quel punto non sono le guide ad imporsi come capi, ma sono tutti gli altri, desiderosi di ascendere, a pregare le guide di condurli e a promettere obbedienza ad esse in cambio della meta. Da tale legame liberamente stabilito e guerriero (poichè fondato sulla decisione di compiere quell'impresa esprimente una grandezza e una bellezza sentite come necessarie) nasce la più ferrea delle discipline (sorella della più pura delle libertà). E' ovvio che a tale società siano sustanziali la lealtà, il coraggio, la disposizione a spendersi più che a conservarsi, a perire piuttosto che a rinunciare, a rischiare la stessa vita pur di affermare i valori che la rendono bella e degna di essere vissuta.
E gli uomini di tale società non vivono assieme alle pecore e alle vacche, ma giungono nei luoghi in cui nidificano le aquile, nei picchi in cui si fermano gli avvoltoi, nelle altitudini misteriose da cui scende ogni cosa che per gli altri "viene dal cielo". Entrano essi nel regno delle rocce e dei ghiacci, dove l'aria è tagliente, il freddo pietrificante, il vento poderoso e il sole terribile e conoscono una bellezza che la parola non può rendere a chi è abituato ad altri paesaggi e ad altre altitudini. Che importa ad essi se chi rimane sui prati dice che tali luoghi e tali paesaggi non esistono?

Per rispondere dunque ancora alla vostra prima domanda: quello che è visto migliore da chi ama ascendere è probabilmente il peggio per chi vorrebbe starsene a brucare l'erba assieme alle pecore.

Se nella dimensione "corporale" è vero quanto dite, ovvero che sono gli aristoi a dipendere dai servi (sebbene poi, volendolo, un aristocratico possa anche svolgere compiti materiali, mentre un plebeo non riuscirà mai a vivere aristocraticamente, poichè gli manca soprattutto quella che Anna K. Valerio direbbe "la Grazia"), nella dimensione "spirituale" è vero il contrario. Come diceva Platone, non è l'uomo superiore a volersi imporre come capo e a pretendere di essere seguito, ma è l'inferiore a bussare alla porta del superiore e a pregarlo di condurlo a quelle vette dello spirito cui sente desiderio di arrivare ma di cui non conosce la via. L'inversione di tale prospettiva (confermate peraltro persino da studi di antropologia positivista, i quali hanno mostrato come non il più forte emerga nelle civiltà primitive, ma colui al quale è riconosciuto un maggior "Dharma").

Sono infine disposto a riconoscere che le prospettivie "biologiste" di Nietzsche sono le meno riuscite.

La stessa concezione Nietzscheana della storia è volta a dimostrare che la ricchezza dell'uomo è proprio quella di costruirsi continuamente, di essere l'animale al contempo più indifeso e più coraggioso, ovvero di non essere (totalmente) determinato al contrario degli altri l'animali, da una "legge naturale" iscritta nell'istinto, ma di poter volgere le pulsioni naturali al compimento delle opere da lui decise come necessarie e in base alle quali educarsi.

L'importanza dei valori eroici rispetto a quelli eudemonistici nasce proprio da questo: non avendo l'uomo l'infallibilità istintiva degli altri animali (la quale garantisce ad essi la sopravvivenza e, alla lunga, l'evoluzione), ed essendo egli un "animale in divenire", un sistema etico-spirituale di valori non volto al continuo superamento di sè rischia di comportarne l'estinzione o comunque la decadenza.

E' comunque vero, per Nietzsche, che le differenze fra uomini sono tali da giustificare paragoni con speci differenti di animali. Ciò però va inteso a sostegno di una tesi che differenzi l'uomo dall'animale (per un animale, infatti, come da voi notato, non avrebbe senso parlare di "comportamenti da preda" o "da gregge" all'interno di una medesima specie) e non certo di tesi tendenti a riassorbire l'uomo nella "natura" o nella "specie" (queste tesi seguono semmai dall'antropologia di Levi-Strauss, non da quella di Nietzsche). Proprio l'essere diverso dagli altri animali giustifica per l'uomo
Il semplice fatto di appartenere ad una medesima specie non fornisce per Nietzsche alcun significato di valore, il quale si mostra in vece in ciò che differenzia ed eleva i diversi uomini rispetto a tale condizione. L'uomo vero per Nietzsche è quello che è entrato nella storia, mentre prima, allo stadio "pre-morale", ad onta dell'uguaglianza biologica, egli vede soltanto il "ghigno della scimmia". E così l'oltreuomo sarà solo colui che saprà rigenerare la storia, indipendentemente dalla sua determinazione biologica rispetto all'uomo attuale.
E' vero che in molti passaggi Nietzsche sembra fare molto affidamento sulla possibilità di rendere ereditarie certe caratteristiche etico-spirituali e di "separare biologicamente" gli uomini superiori che dovranno generare il superuomo dal resto dell'umanità indifferenziata, ma ciò, a ben vedere, non risulta nulla più di quanto già lo "spiritualista" Platone raccomandava con il suo stato ideale contemplante l'eugenetica e il sistema in caste. La società più o meno implicitamente voluta da Nietzsche ha in questo le medesime finalità dello stato di Platone: riconoscere un dato tipo umano (conforme a quei valori che permettono di trascendere la dimensione bassamente umana della ricerca dell'illusoria felicità individuale e della patetica fuga dal dolore) preservarlo (grazie alla "distanza"; in senso lato, dagli elementi umani indifferenziati), perfezionarlo (con l'educazione e l'ambiente di vita adeguato alle sue qualità) e cristallizzarlo (grazie alla stirpe: assumendo ovviamente che le qualità innate si possano tramandare di padre in figlio) e subordinare gli altri ciascuno in base alle proprie eccellenze e alle proprie mediocrità. Non vi è bisogno, per questo, di definire specificità biologiche diverse.
Forse i primi studi di biologia evoluzionista e di eugenetica avevano fatto sorgere la speranza di dimostrare e realizzare scientificamente quanto il mondo antico aveva sempre saputo per altra via e Nietzsche, così disioso di gettare a mare la metafisica tradizionale, si è abbandonato ad una fiducia esagerata nella biologia.
In realtà, come dimostrato da Giorgio Locchi, se vogliamo seguire coerentemente il pensiero che scaturisce dal sentire nietzscheano, dobbiamo concludere che macrofisica, microfisica, biologia e storia rappresentano quattro dimensioni assolutemente differenti della realtà non riconducibili l'una all'altra (come pretenderebbe la "metafisica" di certi scienziati sempre in cerca del "principio unificatore" così come i teologi lo sono del dio unico) e corrispondenti rispettivamente a "il divenire è", "l'essere è, "l'essere diviene" e il "divenire diviene" ("Wagner, Nietzsche e il mito sovrumanista" è un libro che vi consiglio di leggere, se volete una spiegazione conforme alla chiarezza che amate: lo potete trovare online gratuatamente qui: http://www.uomo-libero.com/index.php?url=%2Fautore.php%3Fid%3D7&hash=).
Sono dunque sviluppi fuorvianti tutte le interpretazioni (avallate da certi passaggi di un Nietzsche forse troppo ingenuo verso la nuova scienza) volte a far ricadere il mitema del superuomo all'interno di un determinismo biologico. Non tanto per produrmi nell'esercizio "politically correct" di separare il sovrumanismo di Nietzsche dal pensiero hitleriano dico questo, quanto piuttosto per preservare l'integrità di un pensiero aristocratico il quale, per essere tale, non può fare concessioni sull'origine della nobiltà. Già Evola notava giustamente che scendere sul terreno del darwinismo per spiegare la nascita dei valori nobili (e delle civiltà superiori!) significa abolire in realtà ogni differenza qualitativa di valore, giacchè se solo per selezione a partire da uno stato di caos e di indifferenza, o di differenze casualmente provocate (come nel caso delle mutazioni), sorgono "i migliori", essi sono tali solo per ragioni "quantitative" inerenti il maggiore adattamento ad una data situazione e la maggior forza all'interno della stessa dimensione di esistenza condivisa anche dagli altri, e non già per una differenza di qualità segno di una origine radicalmente diversa e di una superiore dimensione di esistenza e significato.
In "Cavalcare la Tigre" Evola (forse non senza ragione) va anche oltre, ed afferma che Nietzsche, proprio in quanto mosso da un sentire nobile e quindi volto (a dispetto del pensiero "antimetafisico") alla trascendenza, ha preteso di vedere valori ascendenti nella vita in sè, quando questa sarebbe più realisticamente informata alla cieca volontà di cui parlava Schopenhauer, e ha ammantato di "vitalismo" quanto in realtà non sarebbe propriamente "vita" in senso biologico, ma "più che vita" in senso spirituale. In questa prospettiva il pensiero di Nietzsche, nato da un sentire retto e nobile ma espresso in maniera inconsapevole, sarebbe accettabile in tutti i suoi giudizi di valore solo a patto di rinunciare al "vitalismo pagano" e di richiamare le cose con il loro nome, ridando alla trascendenza ciò che viene detto "vita ascendente" e all'immanenza la "vita decadente". Certo questo implicherebbe l'abbandono della teoria dell'essere/divenire (la filosofia del Divenire con la D maiuscola di cui parlava Nietzsche) in favore di un ritorno alla divisione metafisica tradizionale fra mondo supero dell'essere (cui l'uomo superiore tende per ascesi) e mondo infero del divenire (in cui si contentano di vivere gli individui indifferenziati) e porterebbe a dover prendere posizioni nette su questioni tanto alte e tanto dibattute (fin dai tempi di Eraclito e di Parmenide) riguardo alle quali non posso certo essere io, dilettante del pensiero, a dire l'ultima parola.
Considerando anche che il pensiero, almeno per chi davvero pensa, cambia continuamente, al contrario del sentire che è innato (e semmai viene disvelato durante l'esistenza), mi accontento di condividere il sentire aristocratico di entrambi i miei maestri e di mettere in guardia me stesso dall'usare troppo spesso riferimentio biologici riguardo al pensiero nietzscheano.

A scanso di equivoci, preferisco considerare la dicotomia fra "animale da gregge" e "animale da preda" alla stregua di un semplice paragone poetico utile a rendere ben evidente la differenza fra due tipi umani opposti: fra chi ha come fondamento dell'esistenza il conservarsi senza altro scopo da un tranquillo benessere proprio all'animale da pascolo e chi concepisce la vita quale continuo superamento, a similitudine di un animale che viva solo in quanto continuamente raggiunge e supera le proprie prede.
Come spiegato prima, non ha alcun senso (neanche per Nietzsche) l'essere predatori con individui appartenenti alla medesima società.
Che poi anche biologicamente (o dovrei dire etologicamente) gli animali "da gregge" siano "individualisti" e gli animali da preda sappiano "fare branco" (ovvero ordinarsi in una società coesa) potrebbe confermare e non smentire (all'insaputa peraltro dello stesso N.) il paragone rispettivamente con le società "democratiche" e con quelle "aristocratiche e guerriere", essendo le prime dominate dall'individualismo, dai piccoli egoismi dell'accumulo e della ricerca di "piacere e innocenza" e dalla disgregazione atomistica, ed essendo le seconde ad aver creato, con il "grande egoismo che dona" le coesioni sociali da cui sono sorti imperi e civiltà tutt'ora ammirati per le loro espressioni etico spirituali.
Un etologo vi spiegerebbe anche che sono gli animali più forti e "predatori" ad essere in realtà i più "amichevoli" con i propri simili, mentre molte creature reputate "buone" perchè apparentemente deboli sono coi simili assai sleali e aggressive. Forse proprio il relegare nel "male" un impulso naturale come l'aggressività (necessaria in natura alla pari dell'istinto di fuga, della fame e dell'impulso sessuale) fa sì che presso le società basate sulla "morale da gregge" (ovvero sull'individualismo eudemonico, sul pacifismo femmineo, sulla vita quale conservazione senza altro scopo e riproduzione di forme sempre uguali) la naturale pulsione aggressiva (e quindi anche "affermativa") non si volga più alla costruzione (politica, intellettuale, artistica) di mirabili opere dello spirito o al compimento di imprese dal valore superindividuale (come sempre avvenuto nelle civiltà fondate sulla "morale da preda", ossia, fuor di metafora, sul vichiano "diritto naturale delle genti eroiche", sulla vita quale continuo superamento di sè) ma, non riconosciuta, non coltivata, non educata, ripieghi selvaggiamente all'interno in maniera nichilistica e distruttiva (come continuamente è sotto gli occhi di chi osservi la "gioventù" odierna).

Questo, oltre a risolvere (spero) definitivamente il vostro dubbio sui paragoni "biologici" nietzscheani, potrebbe costituire un ulteriore chiarimento di quanto sia assolutamente necessario distruggere il femminismo e i suoi disvalori, nemici mortali della virilità solare e della forza formatrice di civiltà (l'unica in grado di generare e ri-generare la storia). Del resto anche voi siete arrivato alla medesima conclusione per altra via (o tacitamente per la stessa?) quando avete opportunamente affermato, alla faccia di chi sostiene esservi bisogno "di più donne in politica", che "vi è invece bisogno di uomo" (giacchè nulla di virile hanno quelle "femminucce in pantaloni" dei politici demoliberali mossi dall'individualismo mercantile di cui è affetto il mondo moderno e da cui proviene in ultima analisi la stessa demagogia antimaschile della pubblicità, della "cultura" e di tutto quanto è legato agli interessi assolutamente non virili del sistema capitalista).

Mi dispiace veramente che voi non abbiate più voglia di combattere come avete dimostrato di saper fare contro il femminismo e, più in generale, le nequitie della "cultura" (nel senso ovviamente infero di zivilisation) indotta dal sistema demo-liberale.
Se gli unici uomini che ancora non hanno posto il proprio intelletto al servizio del sistema e che ancora serbano un sentire non corrotto dalla credenza di vivere nell'unico (se non nel migliore e nel più giusto) dei mondi possibili rinunciano definitivamente, che fia degli altri?
Anche io, quando ho aperto questo blog, ero stanco di tutte le lotte.
Anche io, come voi, avevo creduto di poter ripiegare nell'individualismo eudemonico, nella vita ritirata e tranquilla, data allo studio e, quando necessario al divertimento, limitando i contatti con il mondo e le donne allo stretto necessario per appagare (magari tramite l'accordo commerciale) i naturali bisogni di bellezza e di piacere, riservando quelli sentimentali e quelli spirituali a più degne creazioni (ad esempio il mondo dell'arte o quello della metafisica) e a più degne creature (ad esempio le donne rese immortali dal canto dei poeti).
Ho capito che tale ritiro da pastore non era praticabile a lungo per tre ordini di motivi: in primis, la natura dei combattenti del kosmos contro il chaos non rende possibile assistere al trionfo di quest'ultimo senza sentire come necessario gettare nella mischia il miglior sè e perire piuttosto che rinunciare, in secundis, chi è nato per vivere secondo valori non dico aristocratici ed eroici, ma almeno improntati ad un continuo autosuperamento, non può per troppo tempo contentarsi di una femminea conservazione senza altro scopo e di una tranquillità da gregge, in fine, anche volendola, una vita tranquilla, libera e felice non sarà più possibile per un uomo "normale", nemmeno rinunciando a famiglia, politica e valori virili, giacché se non si inverte la tendenza si rischierà di finire in galera per un semplice, naturale e peraltro presunto sguardo alla bellezza femminile, sarà la norma essere sbranati economicamente, sentimentalmente, moralmente e legalmente ad ogni unione con una donna, non sarà più possibile sfuggire alla di lei vanagloriosa tirannia a prepotente vanagloria tramite il ricorso alle ormai vietatissime sacerdotesse di Venere.

Non tutto è male: per troppo tempo la donna ha potuto farsi lupo perchè l'uomo è divenuto pecora. Ora l'impossibilità di vivere in libertà e felicità potrà spingere anche i maschi pecoroni a farsi lupi.

SALUTE DALLA SUBLIME PORTA

P.S.
Sì, sono certo che quello delle amazzoni sia un mito femminile poichè, anche se la rappresentazione mitologica greca è stata improntata ad una visione "maschile" (da cui certi elementi caricaturali e contraddittori se riferiti a femmine) il discorso insito nel mito amazzonico riguarda la negazione, da parte delle donne (e, più in generale, delle popolazioni matrilineari) di ogni valore affermativo portato dalle civiltà virili e aristocratiche che hanno conquistato il mediterraneo e generato ogni senso del grande, del bello e dell'eroico.
Badate bene a non confondere: le amazzoni sono l'esatto contrario delle donne guerriere indoeuropee, della Dea Atena con l'asta sacra e delle Valchirie germaniche. Mentre queste sono figure femminili che hanno trasceso i limiti "biologici" e si sono fatte spiritualmente virili, ossia capaci di vivere secondo criteri eroici, di valutare secondo la chiarezza apollinea (Atena è nata dalla testa di Zeus ed a nessuna madre deve la vita, e, oltre che dea guerriera, dea della Ragione in senso ben più ampio di quello illuminista) e di concepire la vita quale continuo superamento di sè, le prime sono semplicemente la trasposizione terribile e minacciosa del vecchio principio della Grande Madre, il quale, non potendosi più affermare in un'umanità la quale, nel passaggio dalla preistoria alla storia, ha iniziato a vivere secondo valori superiori alla conservazione di sè senza altro scopo, alla femminea riproduzione di forme sempre uguale e all'egalitarismo materno-materialista, nega il principio opposto (quello dell'Apollo dio iperboreo fondatore di civiltà), lanciando eterne maledizioni, condanne e promesse di vendetta sul "mondo degli uomini" (di cui i terribili episodi del mito greco della amazzoni sono solo le particolari rappresentazioni con cui gli Antichi hanno voluto dare forma alle paure che dovevano scuotere a mo' di monito la coscienza degli uomini indoeuropei).
Non è difficile vedere in questo la medesima matrice della condanna cristiana del mondo greco-romano e dei suoi valori nobili: in entrambi i casi si maledicono l'inizio della storia (l'invasione delle popolazioni virili e guerriere in un caso, l'uscita dal paradiso terrestre dall'altro), la violezione di una presunta "legge naturale" di uguaglianza (voluta dalla Grande Madre in un caso, dal Dio Unico dall'altro), e soprattutto la "pretesa" dell'uomo, nell'atto stesso di fondare una civiltà, di affermare in essa valori superiori (a quanto possibile per chi senta per "vera" la Grande Madre da cui ogni individuo dirama e a cui ciascun individuo ritorna dopo un'esistenza effimera o al Dio infinitamente lontano rispetto a cui, in maniera assolutamente paragonabile al caso della Grande Madre, ogni differenza individuale si annulla, giacchè in tal caso tutti sono parimenti servi e "polvere") e di costruire da sè secondo tali valori se stesso e quindi il proprio destino (mentre tanto per la Grande Madre quanto per il Dio Unico l'uomo è qualcosa di già dato, in un caso dall'appartenenza biologica alla stessa specie, dall'altro dalla "legge di dio" e quindi il "costruirsi da sè" risulta il sommo paccato).
Non è certo un caso che tanto le seguaci moderne della grande madre quanto gli attuali fedeli "laicizzati" del dio unico vogliano la fine della storia: in un caso il ritorno ad un matriarcato in versione hi-tech (ovvero con tutto quanto i valori virili da essi rinnegati hanno concretamente prodotto nella storia), nell'altro caso l'instaurazione di una "società senza classi" (del tutto simile paraltro al comunismo matriarcale primitivo) o, nella versione "demo-liberale" oggi più in voga (da sinistra a destra, dalla Scuola di Francoforte ai Neocon americani), di una "società libera" in cui ognuno, "libero" dalle proprie radici (esattamente come è libero lo schiavo) e dalle identità di sangue e spirito da cui deriva (che la globalizzazione si propone di cancellare per sempre), può essere e fare di tutto, e in cui tutti sono felici poichè non accade più nulla (Nietzsche la chiamerebbe società dell'ultimo uomo saltellante).
In tutti questi casi si vuole rendere impossibile o tramite l'uguaglianza di fatto, o tramite l'atomismo sociale, l'affermazione di valori superindividuali in grado di rigenerare la storia, ovver di fare dell'uomo (o almeno di un tipo d'uomo) "l'animale capace di costruirsi continuamente" (come già è avvenuto per il tipo umano prevalso presso i popoli indoeuropei ai tempi della rivoluzione neolitica). Si vuole insomma riassorbire l'uomo nella natura, togliendogli proprio quanto, al di là della demagogia umanitaria, lo distingue dagli altri animali: la libertà storica. Serve contro tali movimenti un ricompattamento del fronte opposto, senza esclusioni dovute a pregiudizi.
Nel caso della mia difesa di Chiara, ad esempio, ho preteso di superare le divergenze di pensiero in nome della comunanza di sentire. Se il pensiero di Chiara può essere totalmente femmineo ed antivirile, certamente tale non è il suo sentire (come evidente a chiunque l'abbia conosciuta ai tempi di EF), il quale invece riluce di sentimento eroico. Al di là delle sue utopie inquinate di strutturalismo marxista e di demagogia femminile degne della peggior Gimbutas, la concezione dell'umanità e dell'uomo che traspare dal suo scrivere più sincero, più auntentico, più mitico e meno ideologico, non prevede affatto la fine della storia in un verde pascolo, ma un continuo superamento dell'umano. Solo chi si lascia ingannare dall'apparenza delle argomentazioni ideologico-razionali può non vederlo. Ella non vuole privare l'uomo della sua libertà storica (che invece implicitamente riconosce quale bene più prezioso), ma semplicemente mette a nudo chi di tale libertà storica fa un uso tanto meschino e decadente da rischiare di farla davvero finire. La maggioranza degli uomini moderni, ivi compresi coloro i quali, per difendere le ragioni degli uomini contro il femminismo, non sa fare altro che ricorrere ai medesimi strumenti e ai medesimi giudizi di valore del femminismo stesso (soltanto diversamente orientati), è prigioniera dell'individualismo eudemonico e del modello demoliberale (ovvero proprio di quanto ha partorito e nutrito il femminismo) e spesso pretende dalla donna un riposo del guerriero e una subordinazione gerarchica cui non ha affatto diritto chi guerriero non è e non conosce neppure più il sacro che informa ogni gerarchia degna di questo nome (dal Greco: "potere del sacro"). Un conto è distruggere l'uomo, un altro è spazzare via chi si spaccia per uomo essendo in realtà soltanto un bipede effemminato di sesso maschile. Un conto è negare il guerriero, un altro è negare chi da guerriero si traveste per sfogare la propria bestialità da giullare. Un conto sono appunto "le amazzoni", una altro sono le donne guerriere, le valchirie e le divinità come l'Artemide indoeuropea (da distinguere rispetto a quella mediterranea: non tutte le lune sono uguali).
Non si tratta di un discorso astratto. Guardate ad esempio alla scuola, di ieri e di oggi.
Vi è una differenza sostanziale e quindi anche concreta fra le donne "più severe degli uomini" (quali erano certe insegnanti sempre più rare) pronte a inculcare ai fanciulli i valori della disciplina, della gerarchia e del mondo eroico e aristocratico degli Antichi e decise a mantenere(meglio di tanti maschi moderni) la preminenza effettiva di tali valori nella società, per quanto possibile, e le "arrabbiate femministe" che sbraitano come Erinni ma, appena hanno il potere, disciolgono le strutture in un placido quanto oppressivo matriarcato di fatto in cui ogni valore superiore all'uguaglianza primigenia viene dissolto e disconosciuto.
Potete verificare ciò quotidianamente anche in ogni ambito sociale
Da un lato sono le donne che, per loro particolare natura, e per loro ascendente concezione del vivere, amano fare qualcosa di più o meno giustamente considerato "maschile": sport estremi, combattimento, affermazione professionale, vita portata al continuo superamento di sè incurante della ricerca della felicità o della tranquillità "materna" dell'archetipo femminile. Esse sono espressione di un femminile nobile, ispirato da Atena e, se talvolta paiono riprendere rivendicazioni "femministe" di libertà e di azione, lo fanno solo per poter affermare personalmente e in positivo quei valori "eroici" che alla fine sono gli stessi della più alta virilità (ovvero quella dimenticata dai maschi femminei odierni). Sarebbe assai sciocco e proprio di un maschilismo cieco opporsi ad esse solo perchè biologicamente donne. Bisogna qui schierarsi dalla parte di Valentine Saint Point e della sua Donna Futurista, mettendo da parte l'assurdo sogno (borghese, non virile) di vedere le donne soltanto come angeli del focolare o come fanciulle deboli e piangenti (a Sparta non era certo così).
Dall'altro lato vi sono invece le donne che, senza amare nulla delle concezioni e dei modi virili, fanno quello che più o meno giustamente viene considerato "tipicamente maschile" (nel caso simbolico delle amazzoni, tipicamente la guerra) all'unico scopo di superare in ciò gli uomini e di negarne il valore. Esse non vogliono affermare ma negare, non sono mosse da amore verso i valori eroici ma da odio contro di essi. Il loro significato è semplicemente "Hai visto che tu, guerriero, sei sconfitto da una donna? Tu non hai valore e il mondo che hai creato con la guerra è falso. Hai visto che tu, intellettuale, sei smentito da una donna? Tu non vali nulla e il tuo mondo spirituale non esiste. Hai visto che tu, manager, sei meno bravo di una donna? Tu non sei nessuno e il mondo in cui vivi è infondato. Hai visto che tu, finanziere, guadagni meno di una donna? Tu non vali nulla e il denaro non ha valore." e, più in generale "Hai visto che anche tu tu fai superare? La vita non è dunque autosuperamento ma solo conservazione e l'eroismo maschile è una invenzione distruttiva". Sulla assoluta insignificanza spirituale di tale affermazioni non è il caso di parlare (denotano infatti la tipica confusione fra il fallimento di un tentativo e la pretesa infondatezza del principio cui tende, legame facilmente invertibile se si tiene conto, con Nietzsche, che è proprio quanto è più alto, più difficile, più nobile, più significativo ad avere bisogno di più tentativi prima del colpo fortunato e di più condizioni per continuare ad esistere superandosi). Non si può poi pretendere che il basso conosca l'alto (ovvero che chi vede la vita quale continua femminea conservazione e riproduzione invariabile concepisca diversamente da un "male assoluto" la vita virile quale autosuperamento e tensione verso l'alto, o, se vogliamo trascendenza). E' il caso di parlare invece del sentimento che le muove. Quale, dunque, se non il nietzscheano "odio dell'impotenza"?
Pare di rivedere in azione le promesse bibliche di distruzione degli "empi", le proclamazioni sulla "nullità di questo mondo", le vendette e le maledizioni scagliate dal cristianesimo all'indirisso "dei primi che saranno gli ultimi".
Chiamare colpa la forza, crimine l'opera di grandezza e virtù la debolezza, condannare gli uomini per quanto hanno saputo creare (anzi: generare) e rovesciare il merito dell'inizio della storia (e quindi della libertà storica dell'uomo) in una sorta di "peccato originale" dell'umanità è tipico di coloro i quali non possedendo alcuna potenza davvero creatrice odiano tutto quanto è capace di generare in bellezza, forza e durata, in opere di grazia, maestà e grandezza, in imprese esprimenti coraggio, affermazione, valore guerriero. Ecco donde viene l'infinita potenza attribuita ad un dio esterno al mondo o ad una natura divinizzata (in questo caso non originariamente, ma solo in seguito alla "reazione" contro le società virili) in madre terribile (di cui le amazzoni o certe divinità femminili "vendicatrici" come le Erinni sono espressione mitica).
Ogni volta che ci si trovi innanzi ad una donna in armi bisogna sempre distinguere se si tratta di una di tali amazzoni negatrici di valori virili o piuttosto di una valchiria che sì uccide gli uomini, ma solo per selezionare fra essi il più degno d'essere condotto nel Walhallah.
L'amazzone nega l'eroico, la Valchiria lo riconosce, lo premia e lo afferma oltre la vita stessa. L'una vuole distruggere la forza, l'altra vuole uccidere gli uomini troppo deboli, per eternare la forza dei prescelti.
Con Madonna Chiara ho fatto una scommessa (contro il suo stesso pensiero coscientemente espresso di "amazzone"). Ho scommesso che invece sia una Valchiria, ossia una divinità terribile che però conduce alla negra terra solo chi non sa essere all'altezza della sfida, mentre eleva al cielo chi del cielo è degno. Una delle prove da superare potrebbe prevedere il travestirsi (ideologicamente, s'intende) nel contrario di quello che è. Certo, anche i sultani sbagliano. I posteri giudicheranno.

P.P.S.
Non sottovalutate le vostre stesse fantasie. Forse il sogno di fanciullo era già un progetto inconscio di un avvenire sentito come necessario. Forse non è un caso che siate qui a discutere di tendenze sovrumaniste. Forse in voi dorme una parte di quel dio, che attende solo le parole per dirsi.

 

Yorum Gönder

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